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Azioni Parallele

NUMERO  7 - 2020
Azioni Parallele
 
Rivista on line a periodicità annuale, ha ripreso con altre modalità la precedente ultradecennale esperienza di Kainós.
La direzione di Azioni Parallele dal 2014 al 2020 era composta da
Gabriella Baptist,
Giuseppe D'Acunto,
Aldo Meccariello
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 I NOSTRI 
AUTORI

Mounier
di A. Meccariello e G. D'Acunto
ed. Chirico

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Modern/Postmodern
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Solitudine/Moltitudine
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 Vie Traverse
di A. Meccariello e A. Infranca
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L'eone della violenza
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La guerra secondo Francisco Goya
di A. Bonavoglia
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Del diritto alla città ovvero del luogo dell’abitare dell’uomo

 

1. Radici

Se esser [bin] uomo significa soggiornare [buan] nel mondo, come insegna Heidegger, il“diritto alla città”,1 all’habitat, all’abitare, è un diritto fondamentale, oggi profondamente in crisi a causa del fatto che le città, da luoghi in cui con-sistere, divengono meri spazi in cui trans-itare. Il nostro è il tempo dello sradicamento [Entwurzelung]2 – dichiara Heidegger nella piccola Meßkirch ove la gente poteva ancora sentirsi a casa –, in cui la nietzscheana metafora nichilistica del “deserto che cresce” si compie come «devastazione della terra», che impedisce ogni crescita presente e futura, e «crollo del mondo», ridotto a fondo da usare e usurare, cosicché per l’uomo non vi è più un suolo abitabile.3

Se la perdita di radici [Heimatlosigkeit], della patria [Heimat] intesa come casa [Heim], come luogo di raccoglimento, rischia di far perdere all’uomo la sua essenza, la “de-localizzazione [Entortung]”4 – per usare un termine schmittiano – va superata trovando un nuovo radicamento [Erörterung], che etimologicamente significa “indicazione” del luogo [Ort], ossia di quel punto di convergenza – come la punta di una lancia –, che custodisce il soggiornare dell’uomo, rischiarando il suo modo d’essere.5 Certo, il radicamento pre-nichilistico è irrecuperabile, non si può – e non sarebbe neppure auspicabile – tornare a forme di vita localistiche, tuttavia ciò non ci esime dal cercare un nuovo modo di abitare la Terra, custodendo il mistero [Ge-heim-nis]6 della sua legge interna.

Il progressivo compimento dell’Entortung è un destino inscritto nella storia della città, che prende avvio dalla civitas romana, città che continuamente sposta i suoi confini, per arrivare nell’epoca contemporanea alla «dislocazione assoluta»,7 come la definisce Derrida, della città-territorio.

 

2. Le città delle origini

Non bisognerebbe parlare di città al singolare non solo perché diverse sono le forme di vita urbana, ma perché la pluralità è inscritta nella genealogia stessa delle città: non c’è corrispondenza, infatti, tra le due tipologie primigenie, pólis e civitas.

La pólis si inserisce nell’ambiente circostante, rispettandone la conformazione, e raggiunge un equilibrio fra natura e arte, che le conferisce un carattere singolare, come nota lo storico dell’architettura Benevolo:

la città nel suo insieme, forma un organismo artificiale inserito nell’ambiente naturale, e legato a questo ambiente da un rapporto delicato; rispetta le grandi linee del paesaggio naturale, che in molti punti significativi è lasciato intatto, lo interpreta e lo integra coi manufatti architettonici. La regolarità dei templi (che hanno una pianta perfettamente simmetrica e sono rifiniti tutt’intorno ugualmente dalla successione delle colonne) è compensata quasi sempre dall’irregolarità delle sistemazioni circostanti, che si risolve poi nel disordine del paesaggio naturale. La misura di questo equilibrio fra natura e arte dà a ogni città un carattere individuale e riconoscibile.8

Pólis è il luogo in cui una determinata stirpeha la propria “sede”, il proprio éthos, «è l’abitazione comune dei discendenti di un solo capostipite, di un solo padre».9 Ed è per non perdere il radicamento in un ghénos che la città-pólos non deve crescere, perché «se cresce troppo non è più una comunità ordinata, ma una massa inerte, che non può governarsi da sé. I Greci si distinguono dai barbari dell’Oriente perché vivono da uomini in città proporzionate, non da schiavi in enormi moltitudini»,10 cosicché per far fronte all’aumento della popolazione, o aggiungono un altro organismo (néapoli) accanto al primitivo (paleópoli), o fondano colonie, in cui risplende il fuoco del pritanéo della città d’origine, che resta sempre uguale a sé.

La civitas è, invece, mobilis, «una “città aperta”, che cresce e occupa una superficie sempre maggiore, senza aver bisogno di difendersi con una cinta di mura»,11 tant’è che solo ai confini dell’impero i Romani consolidano i territori conquistati costruendo limes.12 La civitas, aggiunge Cacciari, è il prodotto della “concordia” sotto medesime norme di persone diverse per etnia e religione, legate non dall’origine, ma da un fine, fare dell’orbis una Urbs,13 Roma. È per questo motivo che «non c’è civitas che non sia augescens, che non si dilati, che non deliri».14

La storia delle nostre città prosegue indubbiamente lungo la linea che parte da Roma: «noi infatti pensiamo la città come un luogo nel quale persone diverse convengono nell’accettare e obbedire a una legge»,15 la pensiamo come un organismo che si dilata senza limiti, riducendo ad una ogni forma urbis.16

 

3. En passant: dalla città alla metropoli

La vecchia Parigi non c’è più (l’aspetto / d’una città
cambia più in fretta, ahimè! d’un cuore).
C. Baudelaire, Il cigno

 

A metà Ottocento a seguito di una serie di mutamenti, urbanistici e architettonici, tecnologici e industriali, estetici e culturali, inizia il passaggio dalla città alla metropoli e l’urbanizzazione di massa. Simmel è il primo “filosofo del passaggio”,17 che osserva la nuova realtà urbana, riconoscendo che il proprio compito «non è quello di accusare o di perdonare: solo quello di comprendere».18 Simmel descrive l’evolversi della città verso l’indifferenza per la varietà qualitativa, mettendo in rilievo la profonda corrispondenza tra economia monetaria e intensificazione della vita nervosa, dal momento che «a entrambi è comune l’atteggiamento della mera neutralità oggettiva con cui si trattano uomini e cose».19 L’uomo proto-metropolitano, il tipo blasé, annoiato, disincantato, sazio, sviluppa un organo di autodifesa, che lo anestetizza di fronte all’eccesso di stimoli esterni, così «al blasé tutto appare di un colore uniforme, grigio, opaco, incapace di suscitare preferenze».20 Persino i luoghi subiscono questa decolorazione, perdendo la propria Stimmung, quel quid universale in cui tutti i particolari si incontrano, quel carattere misterioso che pervade ogni singolo elemento, conferendo loro un’identità unica:

il paesaggio […] sorge in quanto alcuni fenomeni naturali, che si estendono l’uno accanto all’altro, vengono raccolti in un particolare tipo di unità […]. Il più rilevante fondamento di questa unità è certo ciò che chiamiamo “Stimmung” del paesaggio. […] la Stimmung del paesaggio pervade tutti i suoi singoli elementi, spesso senza che si possa stabilire quali di essi ne sia la causa; in un modo difficilmente definibile ciascuno ne fa parte – ma essa non esiste al di fuori di questi apporti, né è composta da essi.21

Anche Benjamin pone l’attenzione sullo stile uniforme del paesaggio metropolitano, osservando i passages, «città in miniatura»,22 che simboleggiano la Parigi di metà ’800, che è passaggio alla città come meccanismo di produzione, distribuzione e consumo di massa. I passages stanno tra presente e passato:23 sono gallerie di boutiques e ateliers alla moda, in cui è prestigioso assicurarsi una vetrina destinata ad invecchiare rapidamente, ma che ospitano anche botteghe di antiquari e rigattieri;24 essi costituiscono il paesaggio primitivo del consumo,25 in cui «cominciano ad apparire i magasins de nouveautés, […] precursori dei grandi magazzini»,26 che esporranno sugli ampi boulevards i nuovi e sempreuguali prodotti industriali.27 A percorrere lento e oziosoi passages, lasciandosi sedurre dallo sfavillio della merce, è il flâneur, che, invece, tra le sterminate file di giganteschi edifici e il dedalo delle vie veloci e trafficate28 – in superficie come nell’inferno sotterraneo del métro29 – è spaesato,30 perché anch’egli «è ancora sulla soglia, sia della grande città che della classe borghese».31 Per il flâneur la città «si scinde nei suoi poli dialettici. Gli si apre come paesaggio e lo racchiude come stanza».32 Difatti, nella Parigi del XIX secolo si dà a vedere per la prima volta la compenetrazione metropolitana tra extérieur (spazio pubblico, strada) e intérieur (spazio privato, casa):

le strade sono la dimora della collettività. […] Per tale collettività le splendenti insegne smaltate delle ditte rappresentano un ornamento delle proprie pareti pari e, forse, superiore a un dipinto a olio in un salotto borghese e i muri con il “défense d’afficher” sono il suo scrittoio, le edicole le sue biblioteche, le cassette delle lettere i suoi bronzi, le panchine la mobilia della camera da letto e la terrazza del caffè la veranda, da cui sorveglia la vita della sua casa. […] Il passage è il loro salotto.33

Nel XIX secolo si mantiene il senso originario dell’abitare, che inizia a smarrirsi nel XX, allorché dimora diviene la strada e gli alloggi funzionali, intesi come machines à habiter:

nell’abitare deve essere riconosciuto ciò che è antichissimo, forse eterno: l’immagine del soggiorno dell’uomo nel grembo materno. […] La forma originaria di ogni abitare è il vivere non in una casa, ma in un guscio. La differenza: questo reca in modo evidente l’impronta del suo abitatore. […] Il XIX secolo è stato, come nessun’altra epoca, morbosamente legato alla casa. Ha concepito la casa come custodia dell’uomo. […] Il XX secolo, con la sua porosità, la sua trasparenza, la sua inclinazione alla luce e all’aria aperta, ha annientato l’abitare nel vecchio senso della parola.34

Benjamin, soffocato dagli intérieurs berlinesi della sua infanzia, è attratto dall’abitare collettivo en plein air, ma, d’altra parte, coglie in esso i segni premonitori dell’annientamento dell’abitare in quanto raccogliersi in un guscio che reca l’impronta dell’abitante, già riconoscibili nella Parigi di Haussmann. Dopo aver individuato le principali disfunzioni (viabilità angusta, mancanza di igiene e pace sociale) della città che presentava ancora tracce dell’impianto medievale, Haussmann, infatti, com’è noto, elabora una risposta urbanistica globale, aprendo grandi arterie di scorrimento veloce – i boulevards, elargendo servizi primari (acquedotto, fognatura, illuminazione, trasporti) e secondari (scuole, ospedali, caserme, prigioni, parchi, edifici di culto, teatri, musei, etc.) e ridisegnando la struttura amministrativa (20 arrondissements con le relative mairies). I grands travaux suscitano, però, numerose polemiche, relative soprattutto al fatto che impiegano enormi spese per distruggere la fisionomia urbana medievale – peraltro, la realizzazione dei boulevards è interpretata non come un’operazione urbanistica, ma di polizia, volta a controllare le sommosse – ed erigere una città monotona, lineare, artificiale, senza stile e individualità, in cui i parigini non si sentono più chez soi. Haussmann, artiste démolisseur, «estrania ai parigini la loro città. Essi non si trovano più a loro agio, e cominciano a prendere coscienza dell’inumanità della grande metropoli».35 Ad essere disorientata è soprattutto la popolazione operaia, sgomberata dal centro a seguito del rincaro degli affitti degli edifici di nuova costruzione, e sostituita da una più agiata. L’opera di Haussmann – associata a Parigi e al suo divenire metropoli, anche se in generale ispira il rinnovamento delle città occidentali – è «un terribile memento mori rivolto alla stessa Parigi e iscritto nel cuore stesso della città».36

 

4. La cosmopoli

Il mondo è tutto una Trude che non comincia
e non finisce.
I. Calvino, Città invisibili

 

Coketown era un trionfo di fatti: in essa non c’era
nemmeno l’ombra di fantasia [...];
una città piena di macchinari e di alte ciminiere.
C. Dickens, Tempi difficili

 

Il paradigma della metropoli tardo-moderna è il superamento del limite, innanzitutto spaziale, che altera l’esperienza dei luoghi e mette in crisi il principio territoriale, in base a cui un popolo, percepito come entità più o meno omogenea, è legato alla residenza in un determinato territorio. Come osserva Spengler, vi è una netta distinzione tra la piccola e la grande città: la prima è espressione di un luogo e del rapporto che gli abitanti intrattengono con esso; la seconda, invece, si sviluppa in contrapposizione assoluta con il suolo, «nega tutto quanto è natura. Vuole essere qualcosa di diverso, di superiore. […] La metropoli gigantesca, la città concepita come un mondo vicino al quale non deve esistere un diverso mondo».37 La metropoli “pietrificata e pietrificante” soffoca sotto il cemento la terra, la assoggetta, riducendola ad oggetto tanto di uno sfrenato sfruttamento, che di un patetico vagheggiamento nostalgico: «prima la città si era abbandonata al paesaggio, ora essa vuol farlo simile a sé. Così le vie campestri si trasformano in strade militari, le foreste e le praterie in parchi, i monti in punti panoramici; nella stessa città viene inventata una natura artificiale: fontane al posto di sorgenti, aiuole, laghetti, siepi squadrate invece di prati, di stagni e di cespugli».38 La logica della metropoli, che non tollera l’altro da sé – il paesaggio naturale e ciò che in esso di storia e cultura si è sedimentato – è la de‑lirante “logica dell’illimite” che si esprime nel desiderio di tutto comprendere e ridurre a sé, tant’è che «le città moderne hanno sempre uno stesso volto»,39 inespressivo. La città mondiale è il destino della civilizzazione, un punto di non ritorno: «la “cosmopoli” [Weltstadt], questo colosso di pietra, la si incontra alla fine del ciclo di ogni grande civiltà. […] Questa città è un mondo, è il mondo».40

Anche la città descritta da Jünger non conosce limite nella sua riduzione dell’esistente a paesaggio tecnico, che «fa saltare in aria la qualità specifica del paesaggio naturale e culturale»,41 tant’è che è difficile distinguere dove ci si trovi:

il nostro spazio somiglia a un’immensa officina di fabbro. A nessuno può sfuggire che nulla viene prodotto in vista di un’esistenza duratura e con quel carattere di perennità che apprezziamo nelle costruzioni degli antichi […]. In consonanza con questa situazione, il nostro territorio appare come un paesaggio di transizione. […] Questo rapporto provvisorio con l’ambiente è la causa palese dell’assetto tetro e dissestato che da più di cento anni è una delle caratteristiche del paesaggio dominato dalla tecnica. Questo spettacolo che ferisce l’occhio non deriva soltanto dalla distruzione del paesaggio naturale e culturale – esso è dovuto anche all’incompiuto assetto della stessa tecnica. Queste città con i loro fili telegrafici e i loro gas di scarico, con il loro rumore e la loro polvere, con il loro formicolante andirivieni, con il loro groviglio di architetture […] non possiedono alcuna forma. Sono prive di stile.42

Allo spirito ‘distruttivo’ che rende uniformemente informe l’esistente se ne contrappone uno ‘conservativo’: infatti, «viviamo in un mondo simile per un verso a un’officina, per l’altro verso a un museo»,43 che, però, – come osserva anche Spengler – non è più il luogo sacro qual era presso i greci.44 Infatti, l’attività necrofila d’imbalsamazione con cui si conserva a guisa di mummia il “corpo” della civiltà produce “resti imbellettati”, differenti dalle “rovine”, che sono un “segno di vita”,45 in quanto «creano la forma presente di una vita passata»,46 come asserisce Simmel.

Se l’omologazione diviene un vero e proprio stile di progettazione – basti pensare la “seriale” cité industrielle di Garnier o la “città-standard” del Bauhaus –, la musealizzazione diviene una strategia di mercato, che trasforma la città in un simulacro di se stessa, la simulazione di un modello che non esiste più, conservato dall’industria culturale per essere rivenduto come merce al turista.47

 

5. La post-metropoli e(è) lamorte della città

La metropoli è ormai un’esperienza ‘classica’, anzi la città contemporanea, “dispersa”, “diffusa”, “continua”, “infinita” – ossimori che ne connotano l’omogeneità – non è neanche più una metropoli. La post-metropoli disintegra il concetto stesso di città, perché non è il luogo in cui stabilizzarsi, risiedere, ma lo spazio dell’attraversamento, composto da punti di sosta o di passaggio. La semantica della transitività, che trova il massimo compimento nell’era virtuale della “rete”,48 rende superflua la fisicità e la simbolicità dei contesti locali e trasforma i luoghi in “luoghi comuni” massificati. Il luogo post-moderno in quanto luogo dell’erramento, privato del suo genius loci, è un “nonluogo”: i nonluoghi sono, infatti, secondo la nota formulazione di Augé, le installazioni per la circolazione veloce di persone e merci, i mezzi di trasporto, i campi profughi e i centri commerciali. I nonluoghi si definiscono in opposizione alla nozione di luogo antropologico, «associata da Mauss e da tutta una tradizione etnologica a quella della cultura localizzata nel tempo e nello spazio».49 Certo, luoghi e nonluoghi non esistono in forma pura, nel senso che i primi non sono mai cancellati e i secondi compiuti totalmente, «tuttavia i nonluoghi rappresentano l’epoca»50 surmoderna, un’evoluzione del postmoderno, caratterizzata dall’eccesso.

La metropoli post-moderna è, dunque, asserisce Nancy, uno «spazio senza luogo, senza località»,51 senza un centro o nient’altro che raccolga, come se non affondasse le radici sulla terra, è «al tempo stesso un luogo comune, un’assenza di luogo, un non-luogo»,52 dove qualsiasi tendenza o tentazione localista è travolta. La metropoli post-moderna è «un luogo in cui ha luogo qualcosa di diverso dal luogo»,53 è una circolazione, un trasporto, una corsa, una mobilità, ove «l’uomo abita en passant […] come un passante frettoloso o un flâneur»,54 che ne costeggia altri, vicini, prossimi, eppure lontani, estranei.

5.1 Dispersione versus capsularizzazione

Nella post-city age si assiste al de‑lirare planetario della città oltre quei confini che ne facevano un luogo, l’intero mondo (Orbis) si trasforma in un’unica città (Urbs): «il dispiegamento della città al di là di tutto ciò che si chiamava “città”, verso le “megalopoli” o le “conurbazioni, la delocalizzazione dell’“urbano” sotto forma elettronica, informatica […] è la nascita di qualcos’altro: non si può che dire “un mondo”».55 Le monde-ville è una onnipolis, o, come la definisce Virilio, una «metacittà senza limiti e senza leggi, capitale delle capitali di un mondo spettrale, ma che si pretende tuttavia axis mundi – in altre parole, l’omnicentro di nessun luogo».56

Tuttavia, la città, oltre a divenire spazio della massima indifferenza e dispersione, diviene allo stesso tempo spazio della massima differenziazione e capsularizzazione,57 che si esprime nella costruzione di città nella città, private ed autosufficienti, “città a tema” disegnate a tavolino, coacervo di minoranze culturali, religiose, linguistiche, etniche, di reddito o di stile di vita. Il bisogno di “città-fortezze” o enclaves, come suggerisce Cacciari, non risponde solo alla sempre più diffusa “paura urbana”, esacerbata dai flussi migratori, ma «ad un’esigenza profonda della nostra psiche, perché non è facile vivere nella mobilitazione universale».58 Così, se i marginali dei paesi ricchi e dei paesi meno avanzati vivono prevalentemente in baraccopoli(bidonvilles o slums), «il fuori-luogo eletto, per così dire, come luogo di vita»,59 caricature di città prive di esistenza legale, la maggioranza della popolazione mondiale si concentra in periferie, che sono il grado zero dell’habitat cittadino. D’altronde, la discriminazione delle periferie e della popolazione che le abita è un fenomeno intrinseco alla metropoli, che si difende con forme di delegittimazione dalla devianza. La banlieue (da ban, “bando”) è, infatti, il luogo del ban-dit, il bandito, la canaglia [voyou], parola la cui origine è del tutto urbana, come sottolinea Derrida:

«la parola voyou ha un rapporto essenziale con la via (voie), con la viabilità urbana, […], dato che lo sviamento della canaglia consiste nel fare cattivo uso della strada […]. Tutto questo avrebbe a che fare sulla scia di Baudelaire, di Benjamin o di Aragon, con un’altra rappresentazione della “vita moderna”, della città moderna, a partire dal XIX secolo fino ai nostri giorni, nel paesaggio urbano e capitalistico della civiltà industriale. […] L’ambiente della canaglia è per prima cosa la città, la polis, la metropoli, addirittura la capitale. […] Il vocabolo parigino reca in sé una discriminazione tra i quartieri di Parigi (borghesi o popolari), e poi tra la Parigi al di qua delle mura e la periferia».60

 Oltre allo stereotipo di banlieue esistono altre forme di segregazione, basti pensare ai campi rom, ai CPT, ai sobborghi razziali (es. chinatown), e, peraltro, l’esclusione non di rado è esclusivismo; un fenomeno sempre più diffuso, infatti, – iniziato in paesi con un’elevata disuguaglianza economica, come Brasile e Argentina – è quello delle gated communities,veri e propri “ghetti” di ricchi (es. Bel Air). Si tratta di aree residenziali chiuse, che definiscono un determinato status sociale, tant’è che per farne parte occorre accettare la normativa interna, generalmente stabilita dall’impresa costruttrice, che pubblicizza e vende un ‘modello di vita’, e fatta applicare da un consiglio di gestione. La gated community offre svariati servizi (da aree commerciali a scuole, da centri ricreativi a cliniche), che rendono superfluo il contatto con l’esterno, dal quale è separata con sofisticati sistemi di sicurezza presidiati da una vigilanza privata. La rappresentazione per eccellenza della gated community è The World, l’arcipelago artificiale a largo di Dubai, composto da 300 isole disposte in modo da formare l’intero planisfero. Come nota Petti – architetto membro del DAAR (Decolonizing Architecture Art Residency), collettivo che punta al riuso delle strutture esistenti –, The World è la sfida che l’urbanistica off-shore lancia all’idea di metropoli:

le isole stato che formano The World racchiudono i principi dell’urbanistica off-shore: a) Sicurezza: The World ha un sistema di sicurezza che prevede il pattugliamento delle coste ventiquattr’ore su ventiquattro e un sistema di telecamere a circuito chiuso su tutte le aree […]. b) Extraterritorialità: costruite a 4 km dalla costa, sono delle vere e proprie città stato private. Il proprietario dell’isola gode di una sorta di immunità. c) Isole mondo: il sogno di ricreare l’universo non ha mai avuto un’applicazione più radicale. Ciascuna isola è una parte del mondo… autosufficiente e al riparo dal crimine e dall’affollamento della città. d) Programmazione sociale: turista e uomo d’affari si fondono in una nuova figura sociale, che non ha più bisogno di muoversi dal suo The World. The World è collegato attraverso un sistema di infrastrutture ai luoghi di lavoro e del tempo libero, anch’essi costruiti come isole tematiche (Dubai Internet City, Dubai Gold and Jewellery Park, Dubai Media City, Dubai International Financial Centre, Dubai Marina). Un’isola per ogni attività.61

The World incarna l’utopia di un nuovo mondo e condivide con le utopie urbane moderne soprattutto il panottismo, basti pensare all’isola di Thomas More, i cui porti sono «fortificati dalla natura stessa o resi inattaccabili dall’opera dell’uomo»,62 o alla più recente garden city howardiana, chiusa fisicamente e demograficamente, a cui subentrano negli anni Sessanta i progetti d’avanguardia di Archigram, che fa della città un dispositivo elettronico massimamente sorvegliabile, dando inizio alla smart city age.

 

6. Ri-localizzare

 Le smart cities sono città presentate come motori dello sviluppo e allo stesso tempo come soggetti privilegiati per il perseguimento della sostenibilità.63L’idea smart, tuttavia, è vulnerabile sotto diversi punti di vista. Innanzitutto, essa esclude certi segmenti di cittadini (analfabeti informatici, poveri, emarginati), adattandosi solo ad una classe media con attitudine all’uso delle tecnologie, e nega, come spiega Vanolo, «l’eterogeneità delle traiettorie di sviluppo dei luoghi […] per celebrare l’efficienza di soluzioni tecniche applicabili ovunque, in ogni contesto, pur con minimi adattamenti».64 I rischi connessi ad una pianificazione che punta unicamente sulle ICT per innalzare la qualità della vita urbana, sono, dunque, creare emarginazione e trascurare i dispositivi appropriati ad un contesto. Peraltro, «è possibile ipotizzare che la circolazione dell’idea di smart city sia avvenuta attraverso la progressiva diffusione di discorsi di natura aziendale nei circuiti della politica e, solo in seguito, nel dibattito accademico».65 In effetti, a governare lo sviluppo urbano non è l’eco-sofia, «una sapienza della terra come sapienza dei luoghi singolari»,66 ma l’eco-nomia, che, legando sviluppo e sostenibilità, ha teso una trappola, come rileva Latouche. L’attributo “sostenibile”, infatti, può esser riferito «non già allo sviluppo “realmente esistente” ma alla riproduzione»,67 un modo di fare prevalente fino al XVIII secolo, a cui deve ispirarsi un programma per il doposviluppo. L’alternativa, o meglio la «matrice di alternative»68 plurime al fallocentrismo del potere economico, che fa dell’uomo il padre-padrone della Terra,69 è la decrescita, imperniata sul valore femminile della “cura”. La decrescita, pur consistendo nel circolo virtuoso delle 8R (rivalutare, riconcettualizzare, redistribuire, ridurre, riutilizzare, riciclare, ristrutturare, rilocalizzare), non punta ad una regressione pre-tecnologica o pre-industriale, ma piuttosto al «progresso della bellezza delle città e dei paesaggi».70

Come raccomanda Resta, «affinché le città possano tornare ad essere dei “luoghi” […] sottraendole al loro crescente degrado e alla loro morte, da più parti pronosticata, bisogna soprattutto interrogarsi non tanto sul gesto del “costruire”, quanto su quello del “ri-costruire”»,71 un gesto di pietas nei confronti di storia e natura – una pietas che l’economia ignora. Si tratta di superare il demiurgismo architettonico, la progettazione estemporanea e il culto esasperato della novità tecnica, ritessendo i legami con il tempo e lo spazio. Ricostruire non significa restaurare la presunta purezza di un luogo, ossia imbalsamarlo o musealizzarlo come se fosse immobile e sempre uguale, ma “ripristinarne”72 il volto sfigurato dallo sviluppo, tenendo conto della sua destinazione e della sua molteplice e dinamica provenienza.73 Ricostruire è riabi(li)tare un luogo, come asserisce l’urbanista Magnaghi, rivitalizzando dalle “ipotrofie della megalopoli” le sue “invarianti strutturali”,74 la cui durevolezza è indicatore della sostenibilità. Ricostruire è rilocalizzare, realizzare un “locale cosmopolita” o una “globalizzazione dal basso”, il che vuol dire restituire al luogo la dimensione di “soggetto vivente”, attraverso una progettualità partecipata e responsabile,75 realizzata in loco e non delegata ad istanze superiori, che lo connetta a reti esterne in modo solidale e non gerarchico. Si tratta di pensare, come propone Bonesio, in termini di universale-singolare, poiché «se il locale senza una consapevolezza dell’orizzonte globale scade in localismo astratto, un globale che pretenda di riassorbire il locale sarebbe l’imposizione univoca e omologante di un modello che cancella le differenze e liquida le culture».76 Agire secondo una logica ‘localizzata’ non corrisponde ad essere ‘locali’ nel senso di un radicamento organico-biologico, piuttosto «è una sorta di progetto di appartenenza elettiva»;77 e «che l’appartenenza di fatto, oggi, non possa che essere elettiva […] deriva dalla intrinseca delocalizzazione e sradicamento operati dalla modernità».78 Non di rado, in effetti, coloro che sono legati ad un luogo da un fatale vincolo anagrafico, gli insider, mettono in atto comportamenti distruttivi del patrimonio in nome di esogeni modelli culturali, mentre gli outsider, scegliendo di dimorare in un luogo, ne valorizzano responsabilmente i caratteri identitari.79

 

 

Note con rimando automatico al testo

1 Cfr. H. Lefebvre, Il diritto alla città, trad. it. di G. Morosato, Verona, Ombre Corte, 2014.

2 M. Heidegger, L’abbandono, trad. it. di A. Fabris, Genova, il melangolo, 1998, p. 33.

3 M. Heidegger, Oltrepassamento della metafisica, in Saggi e discorsi, trad. it. di G. Vattimo, Milano, Mursia, 1996, p. 46.

4 Cfr. C. Schmitt, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello “jus publicum Europaeum”, trad. it. di E. Castrucci, Milano, Adelphi, 1991.

5 Cfr. M. Heidegger, Il linguaggio nella poesia. Il luogo del poema di Georg Trakl, in In cammino verso il linguaggio, trad. it. di A. Caracciolo e M. Caracciolo Perotti, Milano, Mursia, 1999, p. 45. Per un approfondimento di queste tematiche, si rimanda a C. Resta, Il luogo e le vie. Geografie del pensiero in Martin Heidegger, Milano, Franco Angeli, 1996.

6 M. Heidegger, Oltrepassamento della metafisica, cit., p. 64.

7 J. Derrida, Politiche dell’amicizia, trad. it. di G. Chiurazzi, Milano, Cortina, 1995, p. 100. Nel momento in cui la “fine della città” suona come un verdetto, Derrida pensa che proprio grazie ad una nuova figura di Città, che chiama con un vecchio nome “città-rifugio”, si possa aprire uno spazio di ospitalità per chi è senza patria e senza dimora, a causa della chiusura dei confini degli Stati-nazione, anticipazione di un diritto cosmopolitico a-venire.Cfr. Id., Cosmopoliti di tutti i paesi, ancora uno sforzo!, trad. it. di B. Moroncini, Napoli, Cronopio, 2005, pp. 11-18.

8 L. Benevolo, La città libera in Grecia, in Storia della città, Roma-Bari, Laterza, 1975, p. 60. Cfr. anche l’ormai classico L. Mumford, La città nella storia, trad. it. di E. Capriolo, Milano, Bompiani, 2002, 3 voll.

9 L. Benevolo, La città libera in Grecia, cit., p. 57.

10 Ibidem.

11 L. Benevolo, Roma: la città e l’impero mondiale, in Storia della città, cit., p. 149.

12 Ivi, p. 212.

13 Su civitas e urbs cfr. M. Romano, L’estetica della città europea: forme e immagini, Torino, Einaudi, 2005.

14 M. Cacciari, La città, Villa Verucchio, Pazzini, 2008, p. 17. Sul tema della civitas augescens si veda anche Id., Il mito della civitas augescens, “Il veltro”, 3-4, 1997.

15 M. Cacciari, La città, cit., p. 23.

16 Cfr.ivi, p. 34.

17 Cfr. G. Lukács, Ricordo di Simmel, trad. it. di L. Perucchi, in G. Simmel, Arte e civiltà, a cura di D. Formaggio e L. Perucchi, Milano, ISEDI, 1976, p. 118: «Simmel è il più grande filosofo della crisi [Übergangphilosoph] della nostra epoca».

18 G. Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito, a cura di P. Jedlowski, Roma, Armando Editore, 1998, p. 57. Anche Zarathustra osserva la grande città sapendo che «non c’è niente da migliorare, niente da peggiorare», sapendo che non si può «tornare indietro», ma solo conoscere «la colonna di fuoco in cui arderà». F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, a cura di G. Pasqualotto, trad. it. di S. Giametta, Milano, Rizzoli, 2001, pp. 200-204. Come spiega Cacciari: «Zarathustra sa di appartenere in questo attimo alla Metropoli – e sa che il suo insegnamento può partire soltanto da qui, dalla Metropoli. La Metropoli è certamente un destino – ma essa stessa ha un destino. Questo intreccio è ciò che va conosciuto». M. Cacciari, Metropolis. Saggi sulla grande città di Sombart, Endell, Scheffler e Simmel, Roma, Officina Edizioni, 1973, p. 33.

19 G. Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito, cit., p. 38.

20 Ivi, p. 43. Come spiega Freud a proposito del trauma, «per l’organismo vivente la protezione contro gli stimoli è una funzione quasi più importante che non la ricezione degli stimoli stessi» (S. Freud, Al di là del principio del piacere, trad. it. di A. Durante, in Opere 1905/1921, Roma, Newton, 1992, p. 1113).

21 G. Simmel, Saggi sul paesaggio, a cura di M. Sassatelli, Roma, Armando Editore, 2006, p. 64.

22 Cfr. W. Benjamin, I “passages” di Parigi, a cura di E. Ganni, Torino, Einaudi, 2002, p. 5.

23 Ivi, p. 944 (O°, 56).

24 Cfr. ivi, pp. 955-960.

25 Cfr. ivi, p. 50 (A 3a, 7), p. 468 (M 1a, 3) e p. 917 (G°, 5).

26 Ivi, p. 5.

27 Sulla coppia dialettica della produzione di massa, la “novità” e il “sempreuguale”, cfr. ivi, p. 14, p. 357 (J 56a, 10) e p. 366 (J 60, 7).

28 Cfr. ivi, pp. 914-915 (F°, 13).

29 Cfr. ivi, p. 89 (C 1a, 2) e Id., Parco centrale, in Angelus novus, a cura di R. Solmi, Torino, Einaudi, 2007, p. 142.

30 Cfr. W. Benjamin, I “passages” di Parigi, cit., p. 379 (J 66a, 6).

31 Ivi, p. 13.

32Ivi, p. 466 (M 1, 4).

33 Ivi, p. 474 (M 3a, 4).

34 Ivi, pp. 947-948 (P°, 3). Un esempio di compenetrazione tra vita domestica e comunitaria Benjamin lo riscontra nella città Napoli, che paragona agli insediamenti dell’Africa del Sud, costituiti da un gruppo di capanne disposte attorno al recinto del bestiame [kraal]. Cfr. W. Benjamin, Napoli, trad. it. di H. Riediger, in Opere complete: Scritti 1923-1927, vol. II, a cura di E. Ganni, Torino, Einaudi, 2001.

35 W. Benjamin, I “passages” di Parigi, cit., p. 16.

36 W. Benjamin, Note sui “Quadri parigini” di Baudelaire, trad. it. di G. Schiavoni, in Opere complete: Scritti 1938-1940, vol. VII, a cura di E. Ganni, Torino, Einaudi, 2006, p. 345. Gurisatti osserva che l’allegoria della distruzione è dialettica: «da un lato, infatti, l’opera devastatrice di Haussmann è indice del disprezzo del potere capitalista nei confronti del corpo della città e della vita dei suoi abitanti, sicché la sua “degna conclusione” allegorico-apocalittica fu l’incendio di Parigi che, nella semaine sanglante del maggio 1871, pose fine con orrore alla Comune. […] Dall’altro lato, però, le fantasmagorie dello sfacelo non si limitano a smascherare l’illusione del progresso nella realtà della catastrofe, ma, in una prospettiva utopica – nel segno di quel nichilismo messianico che costituisce una costante nel pensiero di Benjamin – esibiscono la necessità che la metropoli borghese con i suoi monumenti, i suoi valori, la sua aura feticistica venga di fatto distrutta/salvata da un nuovo modo di concepire la cultura della città e dell’abitare». G. Gurisatti, Parigi, capitale del XIX secolo. Walter Benjamin e la soglia della modernità, in M. Vegetti (a cura di), Filosofie della metropoli. Spazio, potere, architettura nel pensiero del Novecento, Roma, Carocci, 2009, pp. 99-100. Sul ribaltamento dell’opera del distruggere in ringiovanimento, cfr. W. Benjamin, Il carattere distruttivo, trad. it. di P. Di Segni, in Opere complete: Scritti 1930 – 1931, vol. IV, a cura di E. Ganni, Torino, Einaudi, 2002.

37 O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente, trad. it. di J. Evola, Milano, Longanesi, 1981, p. 784.

38 Ivi, p. 784.

39 Ivi, p. 807. Per la “logica dell’illimite” della metropoli, che tutto vuol ridurre a sé, perché nulla da fuori possa insidiarla, si rimanda a C. Resta, Stranieri nella metropoli, “Anterem”: Eterotopie, 58, 1999.

40 O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente, cit., p. 793.

41 Ivi, p. 197.

42 E. Jünger, L’operaio. Dominio e forma, trad. it. di Q. Principe, Parma, Guanda, 1991, pp. 153-154.

43 Ivi, p. 183.

44 Cfr. O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente, cit., pp. 212-213.

45 Cfr. M. Augé, Rovine e macerie. Il senso del tempo, trad. it. di A Serafini, Torino, Bollati Boringhieri, 2004, in particolare pp. 135-137.

46 G. Simmel, Le rovine, in Saggi sul paesaggio, cit., p. 80.

47 Cfr. F. Choay, Del destino della città, a cura di A. Magnaghi, Firenze, Alinea, 2008, pp. 46 e 71.

48 La rete, o meglio il rizoma, in cui ogni iperluogo è connesso ad ogni altro, è l’incarnazione post-moderna della classica metafora cittadina del labirinto, come sottolinea Schmidt di Friedberg: «nel labirinto rizomatico la città non è solo il centro dell’economia, della politica e della cultura che aveva guidato l’idea di modernità: ci troviamo di fronte alla città prodotta dalla rivoluzione informatica, la città dei network, delle autostrade informatiche, degli shopping mall, divenuti – come i Passages di Parigi per il flâneur – il rifugio del cyberflâneur. […] Il cyberflâneur […] gode di una mobilità virtuale illimitata che cancella lo spazio fisico». M. Schmidt di Friedberg, La città – un infinito limitato, “Scripta Nova. Revista Electrónica de Geografía y Ciencias Sociales”, 270/61, 2008. Come nota Cacciari: «si fa prepotentemente strada nella mente dell’“abitante” delle metropoli dell’Occidente un desiderio-bisogno di effettiva ubiquità – di abitare una vera Angelopoli. Tutti i mezzi di trasporto minacciano di apparire obsoleti di fronte a tale “misura”. La quale null’altro sembrerebbe rappresentare che il “de-lirio” della contemporanea “mobilitazione universale”». M. Cacciari, Ethos e metropoli, “Micromega”, 1, 1990, p. 44. L’Angelopoli è, del resto, anche l’idea regolativa delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, cfr. M. Cacciari, La città, cit., p. 47.

49 Cfr. M. Augé, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, trad. it. di D. Rolland, Milano, Eleuthera, 1993, p. 36.

50Ivi, p. 74.

51 J.-L. Nancy, La città lontana, a cura di P. Di Vittorio, Verona, Ombre Corte, 2002, p. 16.

52Ivi, p. 18.

53 Ivi, p. 45.

54 Ivi, p. 58.

55 Ivi, p. 68. Cacciari osserva che nella metropoli contemporanea la via diviene la dimensione essenziale, come la nave per i romani, «il mezzo che oltrepassa i confini dell’urbs, lo strumento attraverso il quale la civitas s’accresce e coincide col Mondo». M. Cacciari, Abitare, pensare, “Casabella”, 662-663, 1998/1999, p. 3.

56 P. Virilio, Città panico. L’altrove comincia qui, trad. it. di L. Odello, Milano, Cortina, 2004, p. 74.

57 Mutuo il termine “capsularizzazione” da De Cauter, il quale osserva che «le nostre vite quotidiane possono essere perfettamente descritte come movimenti, per mezzo di capsule di trasporto, da un’enclave o capsula (ad esempio la casa) ad un’altra (campus, ufficio, aeroporto, hotel con servizi, centro commerciale e così via)». L. De Cauter, Capsular Civilitazion: On the City in an Age of Fear, Rotterdam, NAI Publishers, 2004, p. 82.

58 M. Cacciari, La città, cit., p. 52.

59 J.-L. Nancy, La città lontana, cit., p. 28.

60 J. Derrida, Stati canaglia, trad. it. di L. Odello, Milano, Cortina, 2003, pp. 101-104.

61 A. Petti, Arcipelaghi e enclave: architettura dell’ordinamento spaziale contemporaneo, Milano, Mondadori, 2007, pp. 71-72.

62 T. More, Utopia, trad. it. di A. Balduzzi, Milano, RCS, 2001, p. 238.

63 L’ultima frontiera dei campi di ricerca che si rifanno al concetto di smart city è il “parametricismo”, introdotto da Patrik Schumacher e Zaha Hadid. Cfr. P. Schumacher, La città parametrica, “Abitare”: Being Zaha Hadid, 511, 2011.

64 A. Vanolo, Smart city e sviluppo urbano: alcune note per un’agenda critica, “Scienze del territorio”: Ricostruire la città, 3, 2015, p. 116.

65 Ivi, p. 114.

66 L. Bonesio, Geofilosofia del paesaggio, Milano, Mimesis, 2001, p. 19.

67 S. Latouche, La Megamacchina. Ragione tecnoscientifica, ragione economica e mito del progresso. Saggi in memoria di Jacques Ellul, trad. it. di A. Salsano, Torino, Bollati Boringhieri, 1995, p. 107.

68Ivi, p. 56.

69 Cfr.S. Latouche, Come si esce dalla società dei consumi. Corsi e percorsi della decrescita, trad. it. di F. Grillenzoni, Torino, BollatiBoringhieri, 2011, p. 156.

70 S. Latouche, La scommessa della decrescita, trad. it. di M. Schianchi, Milano, Feltrinelli, 2007, p. 62.

71 L. Bonesio – C. Resta, Intervista sulla geofilosofia, a cura di R. Gardenal, Reggio Emilia, Diabasis, 2010, p. 24. Nella Carta delle città europee per uno sviluppo durevole e sostenibile, approvata ad Aalborg nel 1994, e negli Aalborg Commitments, sottoscritti nel 2004 (Aalborg+10), si parla di rigenerazione urbana, rispetto a progetti avulsi dal contesto; mentre di resilienza, intesa come la capacità di un sistema di ripristinare il proprio equilibrio a seguito di un intervento esterno, parla il PlaNYC Progress Report: Sustainability & Resiliency (A Stronger, More Resilient New York) e il progetto delle Transition Towns dell’ambientalista inglese Rob Hopkins.

72 Cfr. P. L. Cervellati, L’arte di curare la città, Bologna, il Mulino, 2000, pp. 75-76 e 80.

73 Cfr. L. Bonesio, Oltre il paesaggio. I luoghi tra estetica e filosofia, Casalecchio, Arianna, 2002, pp. 158-161. Sulla necessità di superare i tre sofismi della progettazione, ossia la creazione ex nihilo, la demolizione e la conservazione museale, cfr. F. Choay, Del destino della città, cit., pp. 84 sgg.

74 Cfr. A. Magnaghi, Il progetto locale, Torino, Bollati Boringhieri, 2000, p. 140.

75 Cfr. Convenzione europea del Paesaggio, Relazione esplicativa, II «Obiettivi e struttura della Convenzione», art. 24.

76 L. Bonesio, Paesaggio, identità e comunità tra locale e globale, Reggio Emilia, Diabasis, 2009, p. 208. Bauman osserva che «le città contemporanee sono il palcoscenico o il campo di battaglia su cui poteri globali e significati e identità ostinatamente locali si incontrano, si scontrano, lottano e cercano un accordo soddisfacente, o appena sopportabile, una modalità di coabitazione che si spera sia una pace duratura ma che di norma si rivela soltanto un armistizio». Z. Bauman, Modus Vivendi. Inferno e utopia del mondo liquido, trad. it. di S. D’Amico, Roma-Bari, Laterza, 2007, pp. 92-93.

77 Ivi, p. 201.

78 A. Magnaghi, Il progetto locale, cit., p. 153, nota 37.

79 Cfr. D. Poli, Il cartografo-biografo come attore della rappresentazione dello spazio in comune, in P. Castelnovi (a cura di), Il senso del paesaggio, Torino, IRES, 2000, p. 208.