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Azioni Parallele

NUMERO  7 - 2020
Azioni Parallele
 
Rivista on line a periodicità annuale, ha ripreso con altre modalità la precedente ultradecennale esperienza di Kainós.
La direzione di Azioni Parallele dal 2014 al 2020 era composta da
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Massimo Cacciari, Labirinto filosofico

 

 

 

 

 

Massimo Cacciari

Labirinto filosofico

 

 

 

Adelphi, Milano, 2014, pp. 348

ISBN 9788845928765, € 38,00

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Come per ogni opera che si presenti, è bene partire dal titolo e dall’indice che, in questo caso, non è uno scontato elenco di titoli o la mera esposizione di capitoli, paragrafi e sottoparagrafi, ma l’indicazione di una serie di tracce del pensiero metafisico antico e moderno. Queste pagine dicono, innanzitutto, che pensare è trovarsi in un «labirinto», ma in maniera del tutto singolare, perché esso non è luogo in cui ci si perde senza poter trovare l’uscita, non è intrico confuso con un unico centro. Il labirinto è pluricentrico, ogni punto è centro (p. 15).

 

Punto di avvio della riflessione di Cacciari è la critica ad ogni formalismo in filosofia e alle sterili classificazioni accademiche come quelle ben note tra pensatori continentali e analitici, critica che si muove nel riconoscimento con Nietzsche del nesso tra riflessione teoretica e considerazione filologica; dove il filologico non è il dato esegetico o ecdotico specialistico, ma il riferimento al passato quale potenziale abisso. Vi è in tale consapevolezza un richiamo alla concretezza della filosofia estranea alla vecchia metafisica, attenta a definire l’essere dell’ente, a pensare la distanza dicotomica, la differenza senza connessione tra essere ed ente; laddove, invece, la verità della metafisica non è riduzione dell’essente a ciò che lo precede logicamente, perché è proprio l’essente sintesi di finitezza e infinitudine. Al centro di queste pagine è un’interrogazione che parte da Hegel e che ha posto il tema della fine della filosofia come amore e sapere. La filosofia avrebbe cessato di essere amante, amante della relazione tra le forme di relazione, oppure resta ciò che non possiamo esprimere e indicare se non solo amando e restando, così, in tensione? Il discorso metafisico esprime questa dinamicità costitutiva, laddove affronta il problema dell’ente che non coincide con le determinazioni predicate dal logos, né la sua sostanza può disvelarsi in altro che nella finitezza del suo apparire. La differenza, infatti, per cui ne va della filosofia è la presenza dell’essente in ciò che lo trascende tra l’infinità del suo imperfetto e del suo futuro (p. 13). L’Essente (la Cosa) non è semplicemente questo o quell’oggetto la cui conoscenza richiede astrazione (cioè predicazione). L’essente è certamente questo ambiente di relazioni che vive nel mondo, ma è anche qualcosa di eccedente. Ogni ontologia deve essere pensiero della differenza non tra essere ed essente, ma interna all’essente che ha corpo e mente.

 

Impossibile, in questa sede, indicare sia pur per brevi tratti tutta la ricchezza dei temi trattatati e l’acutezza delle proposte teoretiche e storiografiche intorno alla domanda centrale sull’essente, riascoltando i grandi classici della tradizione metafisica: da Platone e Aristotele, toccando la scolastica, al pensiero moderno e contemporaneo, da Kant a Hegel, da Valéry a Nietzsche, da Heidegger a Wittgenstein. Mi limiterò a segnalare solo alcune tracce di originale articolazione dall’umanesimo all’illuminismo, parafrasando il titolo in italiano della raccolta di saggi di un grande storico della filosofia, Ernst Cassirer, scelto per il privilegiamento del modo di fare storia della filosofia per problemi, un fare condiviso dalla lettura di Cacciari per i contributi che deliberatamente intende offrire a una storia filosofica della filosofia (p. 134). Ma il richiamo a Cassirer vale anche per l’attenzione ad una delle tracce senz’altro egemoni nella ricostruzione di Cacciari: il linguaggio. Compito della filosofia è, infatti, interrogarsi su ciò che possiamo dire della Cosa, sulla sua predicazione in quanto Ente, ma anche sulla sua indicibilità, sul fatto che l’Ente non è riducibile interamente al modo in cui lo diciamo. Il che implica il superamento della finitezza e, insieme, la sua assunzione possibile-impossibile nella dimensione del linguaggio-logos. È il tema della gioia che, con la messa in questione del linguaggio, è autentica intuizione della verità dell’essente (p. 48). La lingua predispone al pensiero filosofico, perché non è l’involucro dei pensieri, ma la possibilità del pensare che contrassegna il nostro esserci nella simbolizzazione delle forme (pp. 68, 70). Ad essa si giunge assumendo l’etimologia del termine logos per celebrare l’unione-incrocio di filosofia e filologia. Prima di ogni “primato” della logica, logos è alle origini un raccogliere prima della boria della logica (p. 155), osserva Cacciari, riprendendo acute e ben note pagine di Heidegger sul linguaggio come ascolto del logos e di ciò che esso trae dal nascosto (p. 157), ma anche trasformandone le tesi fondamentali nella direzione dell’indicibilità che delimita dall’interno del suo stesso indicibile (p. 166).

 

Il pensiero non precede la maniera di esprimerlo, né c’è un contenente e un contenuto; concrescono insieme, abitano nella stessa realtà. Esiste qualcosa prima di questa relazione? C’è il mito che è già una “voce”, un suono prima ancora di essere linguaggio o nome, la traccia di un tempo in cui l’uomo comunicava con corpi, gesti e suoni, con quel “suono” indicibile che il poeta cerca di rievocare, con quel “dire” comune al pensiero filosofico che pure con esso non si confonde, perché in gioco è la Dichtung, matrice del pensare e del poetare, avanguardia del linguaggio filosofico e poetico, luogo di pre-comprensione pre-logica di ogni comprensione e significato logico (pp. 152-153). Cacciari si sofferma sulla narrazione del mito platonico della caverna e osserva come la luce, penetrando al fondo, renda possibili le ombre. Se l’impredicabile è alle origini e alla fine dell’interrogazione, non possediamo la verità della risposta, così come non ci liberiamo dal buio per sempre, ma ogni volta che sappiamo accogliere il disvelarsi della connessione di discorso e immagine (p. 122). Il logos predica attraverso il segno del mito, che non è una forma diversa del dire, ma la differenza dal logos è originaria. Qui con Vico si può osservare che il mito allude a un comune rito, quello della favola del dire come favola e del dire come logos nella consapevolezza che la finzione non sia falsità, ma rivesta una funzione nel darsi del verum (p. 124). È la radice del termine mito ad indicare l’origine del linguaggio: mito da muto, la parola dai mutoli, perché la lingua entra in rapporto con ciò che non dice (pp. 125, 126). Lo insegnano le pagine della Scienza nuova che costituiscono per il filosofo napoletano un vero e proprio luogo di «aspra e continova meditazione». Abbandonate le certezze platoniche del De antiquissima e la rassicurante lezione del Cratilo, entra in gioco non l’«antichissima sapienza degli italici» (argomento di carattere filosofico e filologico per scardinare tradizionali dicotomie [verum-factum, genus-forma, caussa-negotium, essenze-virtù, punctum-momentum, animus-anima, facultas-facilitas], ereditate dal cartesianesimo logico arnauldiano di fine Seicento), ma quella sapienza volgare, prerogativa non di un solo popolo ma di tutto il corso storico, sia pure in fasi differenziate. Il problema nasce dall’avvertita consapevolezza delle asperità che l’uomo moderno incontra nell’esperire quell’inesprimibile contenuto nel mito, traccia di un tempo in cui ogni parola ha valore simbolico, iscritta nel corpo e nei gesti dei mutoli (p. 128). Parola e simbolo, corpo, lingua e cosa sono custoditi nel geroglifico (p. 131).

 

Al pensiero moderno con e prima di Vico è giustamente riconosciuta la consapevolezza del pensare per immagini con la filosofia che dipinge nell’anima l’invisibile che si contempla in interiore. Se la parola evoca le immagini, l’anima in sé le vede e vede l’attimo incatturabile del liberarsi del “prigioniero”. La filosofia richiede eros e vive tra l’aporia della violenza iconoclasta e la nostalgia per la figura. Ineludibile è il riferimento ad Atteone degli Eroici furori di Giordano Bruno, al pensiero per immagini che alimenta la memoria (p. 133). L’immagine non è l’ancella della parola scritta, sono piuttosto le parole – osserva Cacciari – a descrivere l’originaria potenza delle immagini, destinate a custodire l’ontologica differenza tra l’infinito e la finitezza discorsiva. Non la scrittura che si fa immagine, ma questa che si fa lettera, partendo dalla sua potenza iconica (p. 135).

 

Se Bruno è il pensatore di riferimento fondamentale di ogni riflessione autenticamente filosofica intorno al problema del “pensare per immagini”, irrappresentabili quali dualistiche rappresentazioni delle idee, la filosofia che Cacciari interroga non è dualistica: non c’è il mondo incorrotto delle idee da un lato, e dall’altro quello, nel quale viviamo, soggetto a errori e fraintendimenti. Questa consapevolezza teorica è invito a ripensare in termini nuovi anche il fondamento cartesiano della filosofia come scienza del moderno. Il problema di Cartesio è di pensare alla distinzione di anima e corpo, presupponendo la connessione (pp. 192-193). L’unione è presupposta, ma in essa l’incondizionatezza del nous è fatta valere come principio di spiegazione dell’operare (pp. 196, 197) anche tenendo conto di un terzo grado della sensazione dipendente solo dall’intelletto e destinata a ritornare con Nietzsche, per il quale la comprensione del vero errore non è la riduzione dell’anima al corpo, ma è la complessità di quest’ultimo che fa l’anima (pp. 205, 206). Ma l’apologia cartesiana dell’autonomia della mens non ha il carattere “sublime” dell’idealismo. Essa rappresenta il destino problematico della scienza moderna: pervenire a dire l’essente per come esso è e stabilire more geometrico la coincidenza tra ordine delle idee e ordine delle cose. Emerge la necessità di fondare un progetto complessivo di dominio dell’ente. L’unione non significa la scomparsa dell’anima, ma comporta il conferimento ad essa del suo corpo proprio, così da renderla più cosciente di sé e del suo potere. E questo induce alla nota soluzione spinoziana e ne spiega la fortuna in Marx e in Nietzsche: la mente è sempre determinata da una causa ad operare, e noi ad essere con sempre maggiore potenza (p. 199). Da questo osservatorio si dipartono una serie di interessanti fili di discorso che investono la cultura europea moderna e contemporanea a partire dalle originali osservazioni dedicate a Valéry e alla distanza dalla concezione cartesiana del corpo (p. 200), con un attacco ai puri concetti che non sono vita perché non consentono di fare e di agire (p. 204) e con una teoria della realtà senza la mediazione del linguaggio a differenza di Wittgenstein (al quale sono dedicate estese e centrali pagine del libro), che si colloca nel linguaggio ordinario per farla risultare l’armatura logica nella raffigurazione coerente del mondo (p. 201).

 

Ma nelle tracce così individuate stile argomentativo e opzioni teoretiche si svolgono con coerenza e originalità, al punto che la loro ricostruzione non si dà nel tradizionale schema di successione cronologica e ascendente che da Cartesio giunge a Kant (eppure con riferimenti importanti alle aperture cartesiane alla forma immanente della percezione, p. 194, e alla differenza kantiana che è inseparabilità di fenomeno e noumeno, pp. 296-298) e da questi all’idealismo che toglie il noumeno (p. 310), a Wittgenstein per il problema trascendentale del valore e la cura dell’anima al fondo del logos quale apertura a un discorso di ethica sull’abisso della cosa e del linguaggio, ad un processo di decostruzione dopo il Tractatus, al centro della krisis novecentesca (pp. 249, 253). Problema dominante è pensare la differenza, è pensare ciò che non è scissione. Il differire stesso rinvia all’idea dell’uno che nel dicibile mostra sé come indicibile. Solo Spinoza e Hegel hanno accolto la sfida con il pieno superamento della teologia nella filosofia. Ma – ed è qui l’interrogazione fondamentale di Cacciari intorno al pensiero moderno – riesce tale conciliazione, riesce il sapere a potere integralmente sulla cosa, salvando l’apparire dell’ente finito? (p. 276). La sostanza di questo apparire non rinvia a un fondamento (come la vecchia metafisica auspicava), è potenza, dynamis. Dopo le teorie dell’ente come potenza sottratta ad ogni finalismo (Schopenhauer), dell’ente come divenire (Marx) e dell’ente come volontà di potere (Nietzsche) occorre affrontare l’indicibile della possibilità originaria della relazione tra le forme della predicazione (p. 291). C’è un’“energia” che non si può vedere e che è oltre ogni possibile determinazione, ma non confinata in un mondo altro dal nostro. È un principio inesauribile e indicibile che nessuna raffigurazione dell’ente potrà mai negare. Ritorna, in proposito, la lezione dell’uno neoplatonico che non esprime l’assoluto trascendente né la dialettica uno-molteplice, perché l’uno è immanente in ogni proposizione dotata di senso (pp. 270, 271). Ed è questione centrale nel neoplatonismo moderno, da Cusano a Pico, perché la verità come indifferenza di determinato e indicibile è indicabile come ciò che nel logos si mostra. Il linguaggio non la esprime se non invitando a cercarla in congetture secondo il grande tema cusaniano (pp. 272, 331). La congettura circa la sostanza dell’ente parla del possibile di ogni determinazione. Se il fondamento stesso della cosa si mostra come indicibile, ogni necessità ontologica (Severino) è messa fuori gioco. Si vedano le pagine acute dove Cacciari commenta il Simposio e, soprattutto, il Sofista di Platone lontano all’interferenza dell’apparente primato della logica. Indaghiamo e interroghiamo il che è dell’essente su cui nessun logos ha potere, ma cui il logos corrisponde sempre anche nella forma dell’oblio (p. 342). La filosofia è, per Cacciari, pensiero vivente, è energia, ma perché lo sia coerentemente non può evitare il confronto con la morte e con l’angoscia che essa produce. Non si tratta dell’ennesima variante esistenzialistica, perché, come insegnò Socrate, prendendosi cura della propria morte, ci si prepara a vivere il proprio morire. La qual cosa non sta a significare un atteggiamento luttuoso verso la vita né un malinconico bisogno romantico di tramonto: ma la consapevolezza – che l’umanesimo italiano seppe tragicamente esaltare – del divenire stesso di tutte le cose. Non si sfugge alla doxa, alle opinioni, come non si sfugge al disordine. Questo non significa che non si possa andare oltre, che non esista un’idea di ordine e che i filosofi rinuncino alla missione di pensare al vero. Tutto ciò consente a Cacciari di sostenere che il problema dell’interpretazione si pone al di qua dell’ermeneutica postmoderna. L’attenzione a Nietzsche è liberata dal tentativo di risolverne il pensiero in chiave ermeneutica, come mostrano le pagine in cui da un lato si rifiuta con sarcasmo la lettura distorta fatta di Nietzsche, per cui non esistono fatti ma solo interpretazioni e, dall’altro, si mette in guardia dal “nuovo realismo” altrettanto ingenuo. La filosofia ha come presupposto il mondo quale interezza di fatti e di nessi: il labirinto lo avverte in quanto rayuela che la letteratura in filosofia e in immagine di Julio Cortázar ci insegna a vivere fino in fondo, senza fondo né alle origini né alla fine di ogni essente.

 

 

Il testo è tratto dalla presentazione del volume Labirinto filosofico che ho tenuto con Giuseppe Cacciatore a Napoli il 6 ottobre 2014 nell’Aula Magna “P. Piovani” del Dipartimento di Studi umanistici dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”.