AZIONI PARALLELE 
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Azioni Parallele

NUMERO  7 - 2020
Azioni Parallele
 
Rivista on line a periodicità annuale, ha ripreso con altre modalità la precedente ultradecennale esperienza di Kainós.
La direzione di Azioni Parallele dal 2014 al 2020 era composta da
Gabriella Baptist,
Giuseppe D'Acunto,
Aldo Meccariello
e Andrea Bonavoglia.
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LA GUERRA AL TEMPO DELLA PACE
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SCALE A SENSO UNICO
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AP 3 - 2016
MEDITERRANEI
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AP 2 - 2015
LUOGHI non troppo COMUNI
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 AP 1 - 2014
DIMENTICARE
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 I NOSTRI 
AUTORI

Mounier
di A. Meccariello e G. D'Acunto
ed. Chirico

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Modern/Postmodern
ed. MANIFESTO LIBRI
 
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Solitudine/Moltitudine
ed. MANIFESTO LIBRI

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 Vie Traverse
di A. Meccariello e A. Infranca
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L'eone della violenza
di M. Piermarini
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La guerra secondo Francisco Goya
di A. Bonavoglia
ed. ASTERIOS 

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La perdurante attualità del Settimo Sigillo di Ingmar Bergman

 

 

Il Settimo Sigillo (Det sjunde inseglet) è un film celeberrimo del 1957 diretto dal regista svedese Ingmar Bergman, che ebbe così l'occasione di riprendere e trasformare in una straordinaria sceneggiatura il suo accademico dramma teatrale del 1955 Pittura su legno. Presentato al decimo festival di Cannes, il film vinse il premio speciale della giuria a pari merito con I dannati di Varsavia di Andrzej Wajda. Come è noto agli appassionati, a ispirare Bergman nella realizzazione di questa insuperata opera cinematografica fu la visione di un quadro medievale raffigurante un cavaliere che giocava a scacchi con la morte e, da un punto di vista filosofico, due opere di Kierkeegard: Timore e Tremore (1843) e il Concetto dell'Angoscia (1844).

Siamo nel Medioevo, ai tempi delle crociate e della pesta nera. Antonius Block, nobile cavaliere, ha lasciato la giovane moglie con cui si era da poco sposato ed è partito per la Terra Santa, mosso da un esplicito ordine del re e della chiesa, ma soprattutto dall'implicito, «struggente richiamo» di Dio: un Dio nascosto e lontano, presente come assente, di cui era in cerca e di cui trova solo la fredda indifferenza di un sepolcro vuoto, attestante l'impenetrabilità dell'infinito che lungi era e lungi rimane. Dopo dieci anni, deluso dalle crociate, torna a casa insieme al suo fedele scudiero Jöns e, sbarcato in una spiaggia desolata della Svezia, trova ad attenderlo la Morte. Il coraggioso cavaliere riesce, fiducioso, a prendere tempo alla Signora Assoluta, sfidandola a scacchi e rimandando l'istante dell'exitus.

Se però la morte, come ci raccontano i miti e le leggende, vince sempre le sue battaglie, per quale motivo Antonius vuole intrattenerla? Il motivo è inespresso all'inizio del film, ma si chiarisce alla fine. Sostanzialmente, dopo aver vissuto una vita dedita alla guerra e alla distruzione, Block vuole morire facendo qualcosa di autentico e di sensato per gli altri. Nell'immediato non sa bene cosa, ma l'incontro con Jof, Mia e il loro piccolo Mickael – sottile allegoria della Sacra famiglia e dell'immortalità dell'arte – gli offrirà lo spazio e la misura per concentrare gli ultimi istanti della propria vita e le poche energie rimaste in un'impresa progettuale autentica, orientata verso il senso.

 

Durante il rinvio concessogli dalla morte, Antonius e Jöns incontrano molte persone in un nord Europa in cui la peste nera mieteva vittime senza alcuna tregua. Il tasso di mortalità era del 60%, inoltre il peggioramento delle condizioni alimentari portò all'indebolimento delle difese immunitarie, esponendo maggiormente gli uomini al contagio. Il nemico era invisibile ma gli effetti erano sotto gli occhi di tutti i superstiti: «il collo si gonfiava che sembrava scoppiare, il corpo si contraeva, le gambe e le braccia dallo spasimo si torcevano come corde sulla fiamma; il male ti dilaniava e tu ti mordevi le mani e ti laceravi le vene con le unghie; urlavi e urlavi fino a che ti rimaneva un po' di fiato in gola, ma nessuno poteva più aiutarti». La paura della peste spingeva i credenti (i quali sostenevano che l'epidemia era una punizione del cielo) ad espiare i propri peccati attraverso delle pratiche fanatiche e masochistiche, trascinandosi digiuni per le strade, flagellando se stessi o punendo donne innocenti accusate di stregoneria, mentre spingeva i laici a soddisfare immediatamente gli ultimi piaceri, accalcandosi nelle osterie per bere birra – l'estate degli italiani nei bar durante il covid – in preda ad un cupio dissolvi che sfociava nell'aumento inarrestabile dei contagi.

E' evidente che la cinepresa di Bergman focalizza questi atteggiamenti irrazionali e inautentici per contrapporvi la prassi energica ed autentica del cavaliere Antonius. Quest'ultimo, immerso nella stessa situazione-limite degli altri, non prova paura come loro, ma prova angoscia. La differenza, di kierkegaardiana memoria, tra paura e angoscia consiste in questo: nella paura, il davanti a che è determinato ed eludibile; nell'angoscia il davanti a che è invece indeterminato ed ineludibile. Non è quindi la paura della peste, ma è l'angoscia della morte e la sua incancellabile necessità (si può non morire di peste, ma non si può non morire in assoluto) ad atterrire ed imprigionare Antonius, sicché «nessuno può vivere sapendo che un giorno morirà come cadendo nel nulla senza speranza. Molta gente non pensa né alla morte né alla vanità delle cose, ma verrà il giorno in cui si ritroveranno all'estremo limite della vita, sull'orlo dell'abisso» e allora dovranno fare comunque i conti con essa.

Ma cosa vuol dire affrontare l'angoscia della morte? Lasciarsi attraversare da quella sconfortante inquietudine e seguire fiduciosamente (fiducia precaria, senza garanzie) l'istinto che chiama, la voce che palpita dall'interno del nostro io e che ci proietta al nostro più proprio poter essere. Ecco che Antonius, preda dell'angoscia, è proprio dall'angoscia reso libero per la scelta che sente più sua, che gli sta più a cuore: distrarre la morte, permettendo a Jof, Mia e Mickael di salvare se stessi e il valore eterno dell'arte di cui sono, per contingenza, custodi. Antonius si è insomma liberamente schierato a favore del senso contro il non senso e così, dopo aver dischiuso un progetto significativo alla famiglia dei saltimbanchi, può serenamente tornare al suo castello, abbracciare sua moglie Karin, consumare il suo ultimo banchetto, e preparasi a compiere il suo ultimo viaggio in compagnia dei suoi amici e della Morte.

Ma dove porta questo viaggio? Porta verso il nulla abissale oppure la morte è un viaggio che conduce, all'insegna dell'indistruttibilità, verso una nuova sponda, dove ognuno conserva la propria identità? Questo rimane indeterminato nel film: ognuno deve trovare la sua risposta affidandosi alle proprie e personali notizie intuitive. Ciononostante il messaggio che il cineasta svedese inviava nel '57 è chiaro e valido ancora oggi: di fronte ai momenti più bui, bisogna avere il coraggio di rilanciare, di ritentare. E se l'insensatezza è provvisoria e niente affatto originaria, allora la morte, che apparentemente sembra un muro invalicabile, va intesa come misura e gradiente che illumina le nostre possibilità più pregnanti e profonde poste al di qua di essa.

Per quanto il tempo scorra inesorabile, il Settimo Sigillo rimane un'opera d'arte colossale ed imperitura. La sua attualità però non è descrivibile appieno con le parole: non resta che vedere il film e domandarsi se di fronte alla pandemia causata dal covid abbiamo assunto un atteggiamento autentico come quello di Antonius o inautentico come chi, in preda alla paura, si è lasciato andare ai festeggiamenti indisciplinati, alla fuga da una regione all'altra trascinando con sé l'epidemia, alla movida maskless, al fatalismo giornalistico o al fanatismo religioso.