AZIONI PARALLELE 
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Azioni Parallele

NUMERO  7 - 2020
Azioni Parallele
 
Rivista on line a periodicità annuale, ha ripreso con altre modalità la precedente ultradecennale esperienza di Kainós.
La direzione di Azioni Parallele dal 2014 al 2020 era composta da
Gabriella Baptist,
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Aldo Meccariello
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 I NOSTRI 
AUTORI

Mounier
di A. Meccariello e G. D'Acunto
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Modern/Postmodern
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Solitudine/Moltitudine
ed. MANIFESTO LIBRI

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 Vie Traverse
di A. Meccariello e A. Infranca
ed. ASTERIOS

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L'eone della violenza
di M. Piermarini
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La guerra secondo Francisco Goya
di A. Bonavoglia
ed. ASTERIOS 

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Il nemico invisibile

 

Al principio dei flagelli e quando sono terminati, si fa sempre un po’ di retorica. Nel primo caso l’abitudine non è ancora perduta, e nel secondo è ormai tornata. Soltanto nel momento della sventura ci si abitua alla verità, ossia al silenzio.

Albert Camus, La peste

 

 

 

La maschera della morte rossa (1964)


C'erano una volta le epidemie. Che colpivano villaggi e paesi, città e regioni, decimando intere popolazioni. Virus e batteri raggiungevano lentamente terre lontane per mezzo delle carovane, delle navi mercantili, oppure portati dalle guerre, causando migliaia e migliaia di morti. Ma così, incontrastati, seppur adagio, si diffondevano e nello stesso modo si spegnevano, come gli incendi che anticamente attaccavano milioni di kmq di foresta primaria, e senz'alcun intervento umano cessavano, rinnovando naturalmente il tessuto boschivo. Tuttavia, alcuni continenti e tanti territori montani, isolati o decentrati rispetto alle scarse vie di comunicazione, rimanevano assolutamente indenni ai contagi. Certo, un tempo bastava una banale infezione microbica per andarsene all'altro mondo, dal momento che medicina e farmacia si praticavano perlopiù a uno stadio empirico, alchimistico, se non addirittura stregonesco. E la crescita demografica languiva. Così come l'aspettativa di vita. Questo almeno fino all'affermazione della Rivoluzione Industriale e delle scoperte scientifiche che hanno diffuso su larga scala vaccini, medicinali, nuovi strumenti e tecniche chirurgiche, perfezionando e allargando l'assistenza ospedaliera. Le migliorate condizioni di vita, l'alimentazione più sana e regolare, la diminuzione dei carichi di lavoro e di sfruttamento, e la vasta diffusione del benessere hanno poi compiuto il miracolo. E il XX secolo, nonostante due guerre mondiali, e almeno una trentina di altri gravi conflitti locali e regionali, ha visto la popolazione mondiale crescere da 1,5 miliardi di persone del 1900, ai circa 3 miliardi del 1950, ai 4 del 1975 e ai 6 del 1999. Oggi abbiamo superato di gran lunga i 7 miliardi di individui. In ogni caso, neppure le pandemie si sono risparmiate: dall'influenza spagnola del 1918 (50-100 milioni di decessi) a quella asiatica del 1957 (2 milioni di morti?), dall'AIDS, diffusosi a partire dal 1981, provocando, ad oggi, 40 milioni di vittime, fino alla recente SARS, del 2002, e arrivando al Covid-19 che ha provocato finora circa 3 milioni di morti.

A più di un anno dal manifestarsi della pandemia in Occidente, e nonostante la creazione e la somministrazione su larga scala di diverse tipologie di vaccino, non siamo ancora usciti dall'emergenza, ma abbiamo ripreso ad agire e a ragionare come se lo fossimo. Il virus è tutt'altro che debellato e la sua natura pandemica, in buona misura amplificata dalla globalizzazione, ammonisce alla prudenza e alla riflessione. La diffusione virale, provocando la chiusura pressoché totale dei teatri e delle sale cinematografiche, ha di fatto accentuato e preceduto una profonda crisi, già in atto, della cultura e dello spettacolo, nello specifico del cinema, dovuta all'ampiezza delle offerte di intrattenimento alla tv, all'ampia diffusione dello streaming, ai supporti elettronici più popolari, alla scarsa qualità della produzione e alla mancata distribuzione di tante pellicole valide, al cambio delle abitudini tradizionali, al declino della fruizione "sociale" e reale in favore di quella individuale e virtuale, al timore di attentati terroristici, alle altre opportunità di passare il tempo gratuitamente...

I rimedi contingenti per rifondare l'antico rapporto tra mezzo cinematografico e recettore dicono di provvedimenti quali l'aumento della distanza tra gli spettatori in sala, della riapertura delle arene estive e dei drive-in (da noi, mai particolarmente fortunati), delle numerose e diffuse promozioni per contrastare la crisi economica in una fase in cui i biglietti peraltro non hanno subito aumenti importanti, della ripresa di iniziative a carattere culturale che riportino gli spettatori a riprendere ad amare le storie per immagini, e a confrontarsi su temi, motivi e stili espressi da autori e interpreti. In accordo a quanto espresso ritengo una buona idea quella di percorrere un itinerario storico cinematografico che passi in rassegna l'argomento delle epidemie e della loro interazione sul genere umano così com'è venuto tracciandosi lungo più di un secolo dall'invenzione dei fratelli Lumiere.

Scopriremo così che questo filone "epidemico" afferente al genere catastrofico, ma contiguo all'horror, alla fantascienza e al dramma, pur toccando raramente livelli estetici elevatissimi, ha suscitato quelle emozioni, e quelle paure che costituiscono il sano piacere della visione, e che spesso determinano il successo di un film al botteghino. I film, che analizzeremo in quanto contenitori di esperienze storiche, socio-culturali, ma anche psicologiche - individuali o di massa - hanno descritto negli anni diverse catastrofi infettive, indotte da presenze aliene o da tragici errori di laboratorio, da mutazioni genetiche animali o da dirompenti accentuazioni di virus e batteri già presenti nel corredo delle malattie presenti nel mondo vegetale e animale, esseri umani inclusi. Ma altrettanto interessante sarà osservare le conseguenze dei contagi sui comportamenti individuali e collettivi delle società e dei gruppi umani durante i secoli, le paure e le speranze legate alle malattie, i pregiudizi e i tentativi di abbattere con gli strumenti messi a disposizione dalle scienze conosciute in ogni determinata epoca storica. Più numerosi i casi in cui le pandemie hanno svolto il ruolo di cornice degli eventi narrati dalle pellicole, o in cui fossero direttamente tratte da importanti opere letterarie, oppure trattate marginalmente, come uno degli aspetti del racconto di quella particolare storia. È secondo questo ordine, ma senza alcuna rigidità ideologica, che intendiamo procedere nella nostra breve rassegna, in attesa che vengano distribuite le prime pellicole sul Covid-19, già realizzate e in fase di post-produzione. Di Songbird (USA 2021), action-thriller apocalittico è stato pubblicato un trailer, ma non si conosce ancora la data di uscita in sala, mentre di Coronafilm iraniano diretto da Mostafa Keshvari, sappiamo che si tratta di un unico piano sequenza all'interno di un ascensore, e che è pronto per essere venduto alle piattaforme streaming internazionali.

 

1. Epidemie e pandemie nel cinema storico e biblico-mitologico

2. La peste, cornice e contesto di letteratura e cinema

3. L'AIDS, la sindrome di fine millennio sul grande schermo

4. In scena l'orrore dei contagi e delle catastrofi

5. L’eroismo dei medici e del personale sanitario di fronte ai contagi epidemici

6. Memoriali e documentari

- Appendice. Breve nota sulle pandemie in sceneggiati e serie tv

- Repertori. Bibliografia e sitografia essenziale. Filmografia.

 

 

1. Epidemie e pandemie nel cinema storico e biblico- mitologico

Per scovare le prime tracce delle disastrose epidemie dell'antichità bisogna compiere un notevole passo indietro, a molto prima della nascita di Cristo, sebbene i documenti scritti allora fossero ancora piuttosto rari, e le popolazioni del mondo conosciuto non particolarmente numerose.

Tuttavia, il conforto dell'opera di Tucidide, La guerra del Peloponneso, ci consente, ad esempio, di collocare nel 430 a.C., durante il nefasto conflitto che sancì la rovina definitiva delle città stato elleniche, la morte di Pericle, uno degli statisti più illuminati della storia ateniese. Lo storico parlò di una pestilenza - confermata pure dalle cronache di Plutarco nelle Vite parallele - che falcidiò migliaia di greci, compreso l'artefice principale dell'apogeo di Atene, ma l'identità esatta del morbo è ignota così come la sua fonte. Studi recenti hanno invece parlato di febbre tifoide che in quattro anni avrebbe ucciso più di un quarto degli abitanti dell'Attica.

La fonte per eccellenza dell'Età Antica è, però, la Bibbia, testo di enorme interesse religioso, ma anche documentario, storico e letterario. Dei tempi di Mosè (XIII secolo a.C.), e dell'arcinoto faraone Ramsete II, sono le cosiddette dieci "piaghe d'Egitto" che costrinsero il sovrano nilotico a liberare il popolo d'Israele dalla schiavitù consentendo agli Ebrei di raggiungere la Terra Promessa. La sesta di tali calamità provocò la diffusione di pustole ulcerose sugli animali e sugli esseri umani, mentre la decima causò la morte dei primogeniti egiziani. Di questi - e altri - avvenimenti si occupò uno dei kolossal Paramount più popolari degli anni Cinquanta, I dieci comandamenti (1956) di Cecil B. De Mille, opera che replicava una precedente edizione del 1923, sempre dello stesso regista, evidentemente a suo agio con il racconto biblico, che modificò in varie parti, per realizzare quel magnifico spettacolo interpretato da Charlton Heston (Mosè), Yul Brinner (Ramsete), Ann Baxter (la regina Nefertari), ma anche da comprimari di lusso come Edward G. Robinson, Vincent Price e John Carradine. La coloratissima messinscena sbancò al botteghino, ma non convinse del tutto l'Academy, che gli assegnò un solo Oscar per gli effetti speciali, indubbiamente notevolissimi per quei tempi. 

Anche Ben-Hur fu un soggetto assai praticato durante la storia del cinema, ma la versione di riferimento è sicuramente quella del 1959 diretta da William Wyler, che vide protagonista ancora una volta Charlton Heston, nei panni di un principe ebreo in quel d'Israele, sotto il dominio romano dell'imperatore Tiberio. Vicenda appassionante prodotta a Cinecittà dalla Metro-Goldwin-Mayer, premiata da ben 11 Oscar, celebrata per la sceneggiatura ricca di avvenimenti e colpi di scena, Ben-Hur deve la sua popolarità specialmente alla spettacolare sequenza della corsa delle quadrighe, rimasta esemplare nella storia della settima arte. Il nostro interesse, però, è indirizzato a Miriam e Tirzah, madre e figlia dell'eroe, le quali, durante la sua prigionia avevano contratto la lebbra ed erano state isolate nella valle dei lebbrosi, poco fuori da Gerusalemme. Sconsigliato da Ester, sua innamorata, ma incurante del pericolo di contagio, Giuda Ben-Hur si recò ugualmente da loro e, disperato, le condusse a vedere il passaggio di Gesù Cristo, che proprio in quei momenti stava compiendo la sua dolorosa Via Crucis. Alla morte del Cristo, le due donne scopriranno di essere miracolosamente guarite dalla lebbra e riabbracceranno Ben-Hur ed Ester. 

Lebbra, o malattia di Hansen, che ritroviamo in un altro kolossal più recente, Le crociate (2005) di Ridley Scott, con un cast stellare tra cui ricordiamo Orlando Bloom, Eva Green, Liam Neeson, Jeremy Irons, Brendan Gleeson ed Edward Norton. Quest'ultimo appare con il volto celato da un'impressionante, quanto espressiva, maschera di ferro (un'invenzione della sceneggiatura) dato che interpretava Baldovino IV d'Angiò detto il Lebbroso, giovane re di Gerusalemme, che nel film si spegne per il progredire della malattia poco prima dell'assedio e della presa della città da parte di Saladino.

Ancora Ridley Scott alle prese con la storia e il mito, e con la peste. Ne Il gladiatore (2000), trascorso lo straordinario incipit bellico, una delle scene di battaglia più emozionanti della cinematografia, l'imperatore Marco Aurelio, morente, riceve al proprio capezzale il protagonista della vittoria di Vindibona (oggi Vienna) contro i Marcomanni, il valente generale Massimo Decimo Meridio (Russell Crowe), proponendogli la successione al trono. Ma l'eroico condottiero rifiuta la proposta ritenendo Commodo (Joaquin Phoenix), l'unico figlio rimasto in vita dell'imperatore filosofo, il legittimo successore. Marco Aurelio non stima affatto costui in quanto inaffidabile, egoista e psichicamente instabile, purtuttavia il 17 marzo 180 morì lasciando nelle mani del frivolo, orientaleggiante ed eccessivamente appassionato degli spettacoli gladiatorii, il destino di Roma e dell'impero. Nonostante le varie licenze storiche Il gladiatore si è dimostrato un intrattenimento divertente e intelligente ottenendo un grande successo di pubblico e di critica, ben 5 Oscar e risvegliando il sopito interesse per il peplum e per la cultura greco-romana. Ciò detto, va ricordato che Marco Aurelio fu vittima della "peste antonina", che per quasi un ventennio provocò milioni di vittime riducendo drasticamente la popolazione dell'impero, e concorrendo a causarne la decadenza. Oggi si è portati a credere che quella terribile pandemia potesse invece essere di morbillo, oppure vaiolo.

Dunque, una o più feroci pandemie avrebbero certamente indotto un grave calo demografico nei territori dell'impero con un conseguente spopolamento delle campagne e una sensibile diminuzione della forza-lavoro e del numero dei militari, necessari questi ultimi, alla difesa dei vastissimi confini, minacciati dalla pressione delle popolazioni barbariche. Se a ciò si aggiunge il problema etico-sociale della diffusione del Cristianesimo, l'orientalizzazione dei costumi romani e la presenza sempre più massiccia di mercenari nelle file dell'esercito, si arrivano a comprendere le effettive ragioni della caduta dell'Impero Romano d'Occidente.

È altresì necessario ricordare che le civiltà antiche hanno convissuto per secoli con forme differenti di epidemie e pandemie di vaste proporzioni e durata, senza alcun consistente apporto igienico- sanitario. Quello che accomuna queste popolazioni durante il corso dei secoli è la reazione fornita per combattere o contrastare tali malattie infettive, cioè la pratica dell'isolamento, l'infrazione del collegamento e della comunicazione tra gli uomini, nonché la rescissione dei legami sociali all'interno delle varie comunità. Ad esempio, già nel 1200 in Europa, su richiesta delle autorità ecclesiastiche i lebbrosi furono obbligatoriamente isolati in apposite “case” o “colonie”. Così il completo isolamento permise la sparizione di questa calamità dall’Europa già durante il Medioevo.

Analogamente oggi, riconosciute le diversità e le proporzioni dei fenomeni virali, in risposta al Covid-19: limitare al massimo i contatti, le occasioni sociali e le uscite di casa, chiudere in massima parte i luoghi di incontro. Naturalmente, è lecito interrogarsi già da ora sull'entità delle conseguenze politiche e sociali di questi dolorosi, tutt'altro che popolari, ma necessari, provvedimenti restrittivi delle libertà degli individui.

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2. La peste, cornice e contesto di letteratura e cinema

La peste nera è stata forse l'epidemia più impressionante e rovinosa mai accaduta. Giunta dall'Asia in Europa attraverso le scorrerie dei Tartari, e per mezzo dei commerci marittimi, essa fu causata dal batterio Yersinia Pestis, ospitato e veicolato dalle pulci parassite dei ratti. Nel vecchio continente, dal 1347 al 1352, provocò lo sterminio di almeno una ventina di milioni di persone, ovvero il 30% circa della popolazione, innescando una serie di conseguenze disastrose per lo sviluppo politico e sociale degli stati e delle nazioni europee, come la lunga crisi demografica ed economica, dalla quale si sarebbero risollevati solo un secolo più tardi. Ma anche prima e dopo questa enorme calamità l'uomo conobbe tanti momenti altrettanto drammatici: pensiamo al Morbo di Giustiniano che provocò, a partire dal 541, decine di migliaia di morti nell'area del Mediterraneo Orientale ed ebbe Costantinopoli come epicentro; oppure alla peste portata in Italia nel 1630 dai lanzichenecchi e magistralmente narrata ne I promessi sposi da Alessandro Manzoni.

La cinematografia, sebbene non abbia trattato nello specifico l'argomento di queste epidemie, ha comunque catalogato un gran numero di pellicole ambientate nei periodi sopra detti, o in altri, in cui le pestilenze hanno lasciato il segno. Assai di frequente la peste ha costituito lo sfondo, o la cornice, di vicende drammatiche o avventurose, talvolta ispirate a grandi opere letterarie. Il caso più noto riguarda il Decameron di Giovanni Boccaccio, tradotto in straordinarie immagini da Pier Paolo Pasolini in un'opera premiata con l'Orso d’argento al Festival di Berlino del 1971, che consideriamo paradigmatica malgrado la trasgressione linguistica e - in parte - tematica adottata nel film. Pasolini realizza, nei nove racconti messi in scena, il suo inno alla gioia per la vita evidenziando soprattutto l'elemento popolare ed erotico, nonché "la corporeità" della lingua e della cultura partenopea facendo recitare attori prevalentemente presi dalla strada. Lo stesso Pasolini si ritaglia una parte nella cornice, eliminando quella cortese della brigata dei giovani fiorentini in fuga dal contagio. Lo ammiriamo allora nei panni di un allievo di Giotto alle prese con la realizzazione di un affresco in chiesa. Ed ecco quindi le novelle tradizionali debitamente "napoletanizzate": l'avventura di Andreuccio da Perugia, che compirà a Napoli il suo percorso iniziatico; la tragedia di Lisabetta da Messina, privata dell'amore di Lorenzo, che si strugge davanti alla pianta di basilico che cela la testa dell'amato; la storia di Ser Ciappelletto, criminale e spergiuro anche in punto di morte; o la divertente vicenda di Masetto, l'ortolano, ritenuto muto, che porterà piacere all'intera comunità delle suore di un monastero. Tra le numerose versioni del capolavoro di Boccaccio non ce ne sovviene alcun'altra degna di menzione salvo quella più moderna - ma più tradizionale - di Paolo e Vittorio Taviani. Difatti, Maraviglioso Boccaccio (2015) concede parecchio spazio alla cornice tentando di ripristinare una maggiore fedeltà alla fiorentina "epopea dei mercatanti", così come definiva il Decameron il critico Vittore Branca nel suo saggio esemplare Boccaccio medievale, ma l'operazione dei fratelli toscani appare distante della magia pasoliniana, figurativamente televisiva, e scarsamente evocativa nonostante il cast di bravi attori, e di alcuni momenti notevoli, come quello della novella di Calandrino e l'elitropia.

La rassegna può continuare con Navigator: un'odissea nel tempo (1988) di Vincent Ward. È una pellicola piuttosto sorprendente che mescola il bianco e nero del Medioevo con il colore del nostro tempo. Curiosa pure la storia ambientata nel 1348 in Inghilterra (in Cumberland, la nota regione dei laghi), durante la peste nera: un ragazzo con poteri paranormali profetizza che il salvataggio dal morbo potrà avvenire solo innalzando una croce di rame in cima a una "Grande Chiesa" situata agli antipodi. Così il giovane, e alcuni minatori, partendo da un'enorme voragine, avviano l'iniziativa di perforare la terra fino a sbucare in Nuova Zelanda, tra i grattacieli del futuro, dove dopo svariate peripezie riusciranno a completare l'impresa e a tornare nel XIV secolo...

Immagini altrettanto originali possiamo apprezzare nel muto La peste a Firenze nel secolo XV (1919), cupo dramma espressionista incentrato su espiazione e morte, diretto da Otto Rippert, sceneggiato da Fritz Lang, e liberamente ispirato al racconto di Edgar Allan Poe La maschera della morte rossa, ambientato nel Rinascimento, ricco di riferimenti storici, letterari e allegorici (L'Apocalisse, L'Inferno di Dante, Girolamo Savonarola...), e impreziosito da notevoli scenografie.

Ancora La maschera della morte rossa (1964) di Roger Corman, horror con Vincent Price nei panni di Prospero, un satanico principe medievale, che all'interno del suo castello prepara orge e feste per i suoi amici aristocratici, e nel contempo tiranneggia un villaggio dell'Italia meridionale già prostrato dall'epidemia di peste. Stavolta, il regista di Detroit realizza un ottimo film in costume - a basso costo - avvalendosi della fotografia di Nicolas Roeg e mescolando felicemente due racconti di Poe, Hop Frog e quello che dà il titolo alla pellicola.

Torniamo ora a opere che hanno utilizzato lo sfondo della peste in messe in scena salutate universalmente come capolavori della cinematografia. Premio speciale della giuria a Cannes, per la sua solenne valenza allegorica, Il settimo sigillo (1957) di Ingmar Bergman, con Max von Sydow, Gunnar Björnstrand, Bengt Ekerot, Nils Poppe e Bibi Andersson, è comunemente noto per la fatidica scena della partita a scacchi con la Morte intrapresa dal cavaliere Antonius Block (un immenso Max von Sydow), di ritorno al proprio castello con il suo scudiero dopo aver partecipato alla Crociata in Terra Santa. Tale incontro determinerà il resto del percorso dato che il "Sinistro Mietitore", venuto a prendersi Block, rinvia il suo proposito per giocare la partita che il cavaliere non ha speranza di vincere. Così il viaggio può continuare nelle terre dove imperversano la peste e il dolore, il pregiudizio e il fanatismo, e dove un'umanità alla dolorosa ricerca di un senso alla propria esistenza, sempre più distante da Dio e dall'amore, è in procinto di perdersi definitivamente. Girato in un livido e meraviglioso bianco e nero, il film è un'elegante sinfonia dedicata al silenzio di Dio (spettatore delle tragedie che affliggono gli uomini) e alla "vita" dopo la morte (la "secunda morte" la chiamava Francesco d'Assisi) in cui la devastante realtà della pestilenza è pari alla desolazione del genere umano. Naturalmente, questa lugubre simbologia scandinava è specchio del considerevole disagio esistenziale e spirituale che affligge l'individuo contemporaneo.

Anche Andrei Rublev (1966) scritto e diretto da Andrej Tarkovskij, è uno splendido racconto itinerante scandito in 9 capitoli, che narra la biografia del grande pittore di icone, e al tempo stesso ritrae la Russia a cavallo tra XIV e XV secolo, durante il periodo oscuro delle lotte tra principi rivali e delle invasioni dei Tartari, della carestia e della peste. Il giovane frate Andrei Rublev abbandona il suo monastero per seguire il pittore Teofano Il Greco e aiutarlo a ridipingere le pareti della Cattedrale dell'Annunciazione. Ma nel corso del suo cammino assiste a scene d'indicibile violenza, scoprendo il dolore e il peccato, che lo inducono a chiudersi in se stesso, visto che nel mondo sembra non esserci spazio per i sentimenti, per la religione e per l'arte. Non rimane, dunque, che riporre i pennelli e dedicarsi alla contemplazione? No, perché il richiamo dell'arte è più forte del male e Andrei Rublev riprenderà a dipingere. L'epilogo di quest'affresco straordinario del mondo russo, ieri e oggi, è a colori: si tratta di un documentario della durata di una decina di minuti sulla pittura del grande artista russo.


L'armata Brancaleone (1959)

Di tutt'altro genere, ma di egual spessore qualitativo, risulta una delle realizzazioni più significative - e impegnative - di Mario Monicelli: L'armata Brancaleone (1959). Il registro umoristico di questo road movie picaresco ambientato nell'Italia dell'XI secolo viene nobilitato da una ricerca linguistica e filologica rigorosa (sceneggiatura di Age & Scarpelli e dello stesso Monicelli) che produrrà quell'idioma immaginario che mescola latino maccheronico, volgare umbro medievale ed espressioni dialettali, caratteristico di tutti i personaggi, e specialmente dell'eroe protagonista, Brancaleone da Norcia, interpretato da un ispiratissimo Vittorio Gassmann. La squadra di campioni della commedia all'italiana è completata da Gian Maria Volontè, Enrico Maria Salerno, dalla Catherine Spaak degli esordi, e da alcuni caratteristi della scalcinata combriccola già ammirata ne I soliti ignoti. L'eloquente cavaliere norcino guida uno sparuto plotone di miserabili verso l'acquisizione del feudo di Aurocastro, in Puglia. Ma una serie di imprevedibili peripezie avvenute durante lo spostamento, tra le quali l'improbabile conquista di una città spopolata dalla pestilenza, condurranno Branca e i suoi, alfine, oltremare per salvarsi la pelle, e per cercare glorie e ricchezze con i crociati in Terra Santa. Da qui prenderà avvio il seguito di questo straordinario successo di critica e di pubblico, ossia Brancaleone alle crociate (1970), ancora spassosissimo sebbene un po' meno riuscito del precedente, che avrebbe comunque fornito qualche ispirazione al Decameron pasoliniano e, soprattutto, dato la stura al filone medievaleggiante e boccaccesco degli anni Settanta. Tanti i riferimenti letterari di quest'opera corale, originale e basilare, da Cervantes a Calvino, da Pulci a Kurosawa, da Boccaccio al teatro di marionette e ai pupi siciliani, dai poemi cavallereschi alla commedia dell'Arte, che realizzerà una sintesi di grande equilibrio formale in cui l'amicizia virile e il riscatto dei perdenti, temi ricorrenti della poetica monicelliana (da La grande guerra ad Amici miei) saranno destinati a imporsi nella cinematografia e nella cultura nazionale - e popolare - degli anni a venire.

  

I promessi sposi (1941)

Ancor più decisive appaiono le ascendenze letterarie dei film di cui andiamo a dire. De I promessi sposi si conoscono diverse versioni per immagini, ma dato che degli sceneggiati televisivi ci occuperemo nei capitoli successivi, riteniamo di dover selezionare per primo il film di Mario Camerini uscito nel 1941, premiato alla Mostra di Venezia del 1942, e campione d'incassi al botteghino quantunque imperversasse il secondo conflitto mondiale. Per i tempi va giudicata un'opera moderna e accurata, che in quasi due ore fornisce un quadro più che esemplare del ponderoso romanzo storico manzoniano, dedicando quasi trenta minuti alla peste del 1630: dall'arrivo dei lanzichenecchi in Lombardia alla diffusione del contagio nei paesi del lecchese e a Milano poi, dove vengono approvati provvedimenti d'isolamento e di salvaguardia della salute pubblica; al tempo stesso sono banditi gli untori e vengono indette oceaniche processioni religiose che diffondono ulteriormente il morbo in città, flagellata ormai dal dolore e dalla morte. I monatti, immuni dal morbo, scorrazzano per Milano con i loro carretti di vittime da trasportare per la cremazione o per le fosse comuni; una madre affida loro il corpicino esangue di Cecilia, raccomandandola a una dignitosa sepoltura; Renzo (il formidabile Gino Cervi), guarito dalla peste, ritrova un emaciato padre Cristoforo, e l'amata Lucia (la convincente Dina Sassoli), al lazzaretto colmo di sofferenti e cadaveri oltre l'inverosimile; una lunga pioggia ristoratrice inviata dal cielo scende a purificare uomini e cose, scrivendo la parola fine all'epidemia e a questo controverso kolossal del periodo fascista. Che pur con vari tagli alla storia originale, data la mole del romanzo, e con qualche difetto di rappresentazione, riesce a non farsi strumentalizzare più di tanto dalla propaganda di regime, e a disegnare - Manzoni docet - un buon ritratto degli umili e degli oppressi. 

La peste è un film del 1992 diretto da Luis Puenzo e liberamente tratto dall'omonimo romanzo di Albert Camus. Nonostante un cast di prim'ordine (William Hurt, Sandrine Bonnaire, Robert Duvall e Raul Julia) non si tratta di una trasposizione troppo riuscita. La sceneggiatura trasporta gli eventi della città algerina di Orano degli anni Quaranta alla Buenos Aires dei tempi recenti dove, preceduta da una vastissima invasione di ratti, scoppia la peste bubbonica, che assume rapidamente proporzioni catastrofiche. La pellicola di Puenzo evidenzia il limite di rimanere confinata entro i limiti di un onesto, ma inefficace melodramma, non riuscendo a tradurre in immagini la metafora che dietro a quest'epidemia si nasconde, cioè quella di una condizione umana e di un malessere sociale ben più grave: il totalitarismo. La chiusura delle porte d’accesso alla città, resasi necessaria per fermare la diffusione della malattia, simboleggia dunque il lager in cui gli esseri umani vivono la loro disperata reclusione, senza che gli aiuti e la solidarietà riescano a spezzare la catena del dolore: “Provavano quindi la profonda sofferenza di tutti i prigionieri e di tutti gli esiliati, che è vivere con una memoria che non serve a nulla”.Albert Camus, La peste.

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3. L'AIDS, la peste di fine millennio sul grande schermo

Nel 1981 furono identificati negli USA i primi casi di HIV, che la stampa battezzò "cancro dei gay", confezionando un pregiudizio ancor duro a morire, e condizionando così l'errata sensazione di questa malattia da parte dell'opinione pubblica. In America, comunque, gli omosessuali sono stati a lungo la parte più colpita dal virus che, diffusosi rapidamente nel resto del pianeta, si è poi esteso a tossicodipendenti ed eterosessuali. Fortunatamente, dal 1996 un cocktail di farmaci blocca il decorso della sindrome immunodepressiva, o sindrome dell’immunodeficienza acquisita - almeno nei Paesi in cui i malati possono accedere alle cure - ma non elimina il virus dall'organismo degli individui. Oggi l'AIDS è entrata nel novero delle malattie croniche, e non specificatamente letali, perlomeno nei Paesi sviluppati, anche grazie alla diffusa consapevolezza del pericolo dei rapporti non protetti; tuttavia in molti stati dell'Africa e nelle altre periferie del mondo, dove la miseria non consente adeguate campagne d'informazione, educazione e prevenzione primaria, nonché l'accesso alle terapie farmacologiche, il contagio prosegue inarrestabile, specialmente attraverso la via sessuale. Si pensi che in 40 anni sono stati registrati nel mondo almeno 80 milioni di casi e quasi 40 milioni di morti: si tratta senza dubbio dell'epidemia più pericolosa della storia recente, coronavirus escluso. Così si è espresso Massimo Livi Bacci, docente di demografia all'Università di Firenze: "... l'Aids, come 7 secoli fa la peste, e 5 secoli fa le malattie infettive euroasiatiche che sconvolsero e quasi distrussero le popolazioni indigene d'America, è un frutto avvelenato della globalizzazione. I microbi non pagano dazio e non s'arrestano alle frontiere." 

Il cinema si è occupato quasi immediatamente dell'AIDS e dei problemi connessi alla diffusione e alla convivenza individuale e sociale con tale patologia. Che mi dici di Willy? (1990) di Norman René racconta le drammatiche vicende di un gruppetto di amici newyorchesi, intellettuali e omosessuali, che nei primi anni Ottanta vengono via via contagiati e decimati dall'AIDS. Toccante, ma non indimenticabile, va citato perché è stato uno dei primi film di un certo rilievo su tale argomento.

 

Philadelphia (1993)

Di ben altro spessore il premiatissimo Philadelphia (1993) di Jonathan Demme, una produzione importante per un dramma commovente, che tocca i vertici di quel cinema civile americano, tanto in voga negli anni Sessanta e Settanta, ai tempi del Vietnam, e non solo. La vicenda riguarda in buona parte la vertenza intentata da Andrew Beckett (Tom Hanks), giovane e brillante avvocato di Filadelfia, contro lo studio legale che l'aveva licenziato perché omosessuale e affetto da AIDS. Grazie a Joe Miller, un caparbio avvocato di colore (Denzel Washington), e al suo compagno Miguel (Antonio Banderas), Andy riuscirà a combattere e a vincere la causa per il riconoscimento dei propri diritti contro l'ingiusta e cinica discriminazione subita. Ma il suo percorso di deterioramento fisico lo farà scivolare velocemente verso la morte, affrontata con stoica dignità, da solo, in compagnia della famiglia e dei pochi affetti che contano. Philadelphia è un'opera coinvolgente e necessaria perché predica solidarietà e tolleranza di fronte alla sofferenza e alla morte, e riesce a trattare un argomento così delicato e contingente raggiungendo il grande pubblico per mezzo di un sagace crescendo emotivo, sicuramente amplificato dal commento musicale, che si è avvalso di ballate struggenti come quella di Neil Young, Peter Gabriel e Bruce Springsteen (Oscar per la migliore canzone Streets of Philadelphia) e di brani di musica sinfonica e lirica. A tale proposito non si può dimenticare la sequenza in cui Andy descrive con trasporto a Joe Miller la scena dell'aria La mamma morta, dall'opera Andrea Chenier di Umberto Giordano, nella sublime interpretazione di Maria Callas. È il momento in cui la vicenda raggiunge il vertice del pathos e non può non toccare il cuore, anche grazie a Tom Hanks, a cui è stato attribuito l'Oscar per il miglior attore nel 1993. Lo stesso Hanks si ripeteva meritatamente anche l'anno successivo con Forrest Gump (1994) di Robert Zemeckis, che pur narrando la curiosa biografia di un uomo con un certo ritardo mentale, tornava a parlare di HIV, seppur limitatamente, e nel finale, allorché Jenny, la ragazza storica di Forrest, finalmente ritrovata dopo tre anni di corsa ininterrotta per gli states, gli comunica di accettare la sua "antica" proposta di matrimonio, di essere malata ormai terminale di una patologia sconosciuta, e gli affida il loro figlioletto - questi decisamente sveglio e intelligente - concepito tre anni prima.

Sicuramente originale, Notti selvagge (1993), opera prima di Cyril Collard, che si distingue per la descrizione degli avvenimenti autobiografici - tratti da un suo romanzo - di questo attore e regista malato di SIDA (l'acronimo usato in Francia per definire l'AIDS), non senza esibizionismo ed egocentrismo. Assai discutibile moralmente l'operato di Collard raccontato senza inibizioni di sorta, visto che lo stesso protagonista, già sieropositivo, non informa del suo stato i propri partners, una diciottenne un giocatore di rugby. Il film, seppur ridondante, ha avuto un imprevisto, grande successo di pubblico oltralpe, ricevendo pure 4 premi César. Collard non potè, però, godere di questa soddisfazione perché la malattia se l'era portato via pochissimi giorni prima...

Amici per sempre (1995) di Peter Horton, è una storia di amicizia e solidarietà in cui due ragazzi cercano disperatamente una cura che guarisca uno dei due, ammalatosi di AIDS. Dello stesso anno, Kids di Larry Clark espone gli avvenimenti quotidiani di alcuni adolescenti, teppisti dei bassifondi di New York, i quali, vivendo una dura realtà di furti, pestaggi, risse, uso di stupefacenti e sesso senza protezioni, scoprono di aver contratto l'HIV. Anche il cult movie Trainspotting (1996) di Danny Boyle, (tratto dal romanzo omonimo di Irvine Welsh del 1993), si occupa di devianze giovanili e tossicodipendenza negli anni Novanta, in quel di Scozia, ma il tema del contagio e della malattia, sebbene marginali, trovano spazio nel film in una scena che riguarda la crisi d'astinenza, nel corso dell'ennesimo tentativo di disintossicazione, di Mark Renton (Ewan McGregor), durante la quale, tra incubi e deliri gli compare Tommy (Kevin McKidd), uno dei suoi amici, malato di AIDS. Uscito dalla dipendenza, Mark gli farà visita, ma le condizioni di costui lo convinceranno ulteriormente ad allontanarsi dall'ambiente nocivo in cui vive e dalla sua città, Edimburgo.

 

Tutto su mia madre (1999)

In Tutto su mia madre (1999), scritto e diretto da Pedro Almodovar, la solidarietà al femminile fa il paio con le coloratissime tinte di un'umanità alla disperata ricerca di una "nuova normalità" tra le pieghe della tossicodipendenza e del sesso senza vincoli di genere, o protezioni. Il risultato è straordinario: un melodramma quasi perfetto arricchito dai toni di commedia, dal pathos e dalle eccelse performance di Cecilia Roth e Penelope Cruz, quest'ultima nei panni di una suora laica, incinta e sieropositiva dopo una storia con la trans Lola (Toni Cantò). Nel caleidoscopio di citazioni, teatro, pittura e musica Almodovar realizza un intrigo commovente che ha ammaliato gli spettatori e le giurie di mezzo mondo ricevendo tantissimi riconoscimenti, tra cui il Premio per la regia a Cannes e l'Oscar per il miglior film straniero.

Anche in Italia fa capolino il problema dell'HIV ne Le fate ignoranti (2001) di Ferzan Ozpetek, l'autore più "almodovariano" del nostro cinema, che ritrae Antonia (Margherita Buy), una donna borghese, medico di professione, che entra in contatto con una sorta di "comune" di sessantottina memoria, aggiornata a fine millennio, ovvero una famiglia allargata multirazziale, e di diversi orientamenti sessuali, e ne uscirà cambiata, umanamente migliore. Il nesso con l'AIDS consiste nell'impegno di Antonia nel curare Ernesto (Gabriel Garko), seriamente malato, ma ancora innamorato del compagno che l'aveva contagiato, e di cui ignora la morte.

Presentato alla Mostra del Cinema di Venezia del 2005, Jesus Children Of America è un toccante cortometraggio di Spike Lee facente parte dell'opera collettiva All invisible children, realizzata da sette registi di differenti nazionalità e ispirata da un lodevole progetto dell'UNICEF e del WFP (World Food Program) allo scopo di sensibilizzare l'opinione pubblica mondiale sulla tragedia dell'emarginazione, dello sfruttamento, della violenza e degli innumerevoli abusi nei confronti dei bambini, la parte più importante dell'umanità, che troppo spesso appare "invisibile". L'episodio girato dal regista di Atlanta si svolge a Brooklyn, N.Y., dove Blanca, una ragazzina di colore sieropositiva, è vittima due volte: della malattia ereditata dalla madre tossicodipendente; e dei compagni di classe che la bullizzano e la umiliano per la sua drammatica condizione. Non c'è compassione, né solidarietà nelle immagini che mostrano l'amara scoperta della bambina, ingannata dalla famiglia e dal mondo.

 

Dallas Buyers Club (2013)

E non c'è pietà nemmeno in Dallas Buyers Club (2013) di Jean-Marc Vallée, allorché Ron Woodroof (Matthew McConaughey), cowboy texano dai facili e disinvolti costumi, dedito alla droga e alla bottiglia, - un perfetto antieroe, dunque - contrae il "virus degli omosessuali" che gli assegna poche settimane di vita. Il suo nichilismo e le sue certezze sono, così, sgretolate dalla medicina ufficiale e lo inducono a cercare la soluzione nei farmaci, che però non producono effetti positivi. Allora il protagonista sconfina in Messico per sottoporsi a una terapia farmacologica sperimentata da un medico radiato dall'ordine e non approvata dalla sanità a stelle e strisce; stavolta ne trae enorme giovamento. Perciò decide di importare illegalmente negli USA l'antivirale salvifico associandosi con un transgender (Jared Leto), anch'egli sieropositivo, in aperto conflitto con gli interessi delle case farmaceutiche. Ron vivrà altri sette anni, ma regalerà migliaia di anni di vita ai malati, ai quali fornirà le cure alternative e la solida speranza di un futuro. Ambientato verso la metà degli anni Ottanta, Dallas Buyers Club è tratto da una storia vera, come vere sono le circostanze del primo utilizzo dell'AZT (azidotimidina), attualmente noto come zidovudina (ZVD), un farmaco che è risultato decisivo per il controllo e la terapia dell'AIDS specialmente in quegli anni. Ma al di là di ogni considerazione medico-scientifica rimane il valore estetico e documentario di questo coinvolgente melodramma, che non solo mostra il ribaltamento di uno dei più spregevoli luoghi comuni omofobi, ma disegna un'esemplare parabola di redenzione, anche grazie all'eccellente interpretazione di un intenso Matthew McConaughey, e da un altrettanto iconico Jared Leto, entrambi premiati nel 2014 con Oscar e Golden Globe. Ma l'attore texano aveva già ottenuto lo stesso riconoscimento al Festival di Roma del 2013.

Con la progressiva cronicizzazione si è andata perdendo la centralità della malattia nelle sceneggiature e perciò la rappresentazione cinematografica, soprattutto in tempi recenti, ha relegato l'HIV nella sfera della normalità quotidiana. Ciononostante la rassegna potrebbe continuare a lungo, ma preferiamo terminare questo capitolo con una pellicola del 2018 diretta da Bryan Singer: Bohemian Rhapsody. Si tratta del noto biopic (4 Oscar) dedicato a Freddie Mercury (ben impersonato da Rami Malek, anche lui premiato con la statuetta dorata) che ripercorre i primi quindici anni dei Queen, dalla nascita della band (1970) fino al concerto Live Aid del 1985. Proprio durante una sessione di prove Freddie Mercury accusa un versamento ematico dopo un colpo di tosse. Il test gli diagnostica il virus che egli rivelerà agli altri componenti del gruppo: resteranno insieme finché possibile. Il Live Aid sarà un successo memorabile, ma la mitica pop star si spengerà sei anni più tardi (1991) all'età di 45 anni, per un'infezione polmonare correlata alla sindrome da immunodeficienza acquisita. Bohemian Rhapsody non è un capolavoro, piuttosto un'opera discreta, però, l'irripetibilità di Mercury, il suo genio, tracima anche in una biografia che ha inteso circoscriverlo negli stereotipi dei tanti eroi del rock messi in scena a Hollywood, tanto maledetti quanto scontatamente efficaci al botteghino.

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4. In scena l'orrore dei contagi e delle catastrofi

Nell'ambito del filone catastrofico le epidemie e le pandemie sono state spesso al centro degli interessi del mondo del cinema, vuoi per l'attualità delle tematiche, vuoi perché le pellicole che raffigurano avvenimenti disastrosi premonitori di cambiamenti epocali delle società e delle vite degli individui attraggono enormemente gli spettatori. Inoltre, tali rappresentazioni costituiscono la metafora della "grande paura" che si annida nell'invisibile, nelle inimmaginabili epidemie capaci di mettere in ginocchio anche le civiltà più avanzate. Dunque, viene messa in scena un'umanità minacciata da agenti infettivi sconosciuti e imprevedibili, talvolta veicolati da malvagie entità extraterrestri, che tramano al fine di distruggere o sottomettere il pianeta; oppure trattasi di fenomeni endogeni accentuati dal compromesso e "malato" sistema di vita degli esseri umani, che provoca l'apocalisse ambientale; o la deriva consumistica e compulsiva, nonché lo sviluppo sfrenato dell'Homo economicus che lo trasforma in un mostro (vampiro, zombie, mutante...). In alcuni casi le catastrofi pandemiche vengono sommariamente accennate negli incipit dei film in quanto costituiscono la premessa a una realtà distopica post contaminazione di origine nucleare, o seguita da una sorta di diluvio universale rivisitato, magari il prodotto della reazione della Natura che si ribella all'Uomo. In altri casi l'accanimento scientifico, la manipolazione irresponsabile di microrganismi letali, la sperimentazione criminale, o la superbia di medici e scienziati, sono alla base di tragici errori che portano a contagi di rilevanza biblica.

  

L'esercito delle 12 scimmie (1995)

Esemplare, a tale proposito, il caso de L’esercito delle 12 scimmie (1995) di Terry Gilliam che presenta un futuro distopico (il 2035), nel quale i superstiti di una pandemia globale, che ha quasi del tutto cancellato la popolazione mondiale, sono costretti a vivere nel sottosuolo. Tra questi, il detenuto James Cole (Bruce Willis), che accetta di prendere parte a una missione impossibile a ritroso nel tempo - giungerà nel 1996 - per scoprire le ragioni e le modalità che hanno portato all'epidemia. Nel cast spicca pure un giovanissimo e istrionico Brad Pitt. Comunque, se il titolo di questo classico della fantascienza post-apocalittica è poco calzante alla storia narrata, non è così se ci si riferisce al ciclo de Il pianeta delle scimmie, un franchise cinematografico di grande successo - comprendente pure una serie tv e un cartone animato - che dura da circa mezzo secolo, e che descrive una società "ribaltata", nel senso che i primati detengono il potere in virtù di un'evidente superiorità sociale e culturale ai danni degli esseri umani, sottomessi e schiavizzati. Nel primo della serie (1968), il più suggestivo, diretto da Franklin J. Schaffner, il protagonista, l'astronauta George Taylor è interpretato da Charlton Heston, il quale, ricompare in una particina nella versione più recente - e meno riuscita - di Planet of Apes (2001) per la regia di Tim Burton.

 

The Omega Man (1971)

Di maggiore impatto narrativo, proprio perché più inerente agli avvenimenti che stiamo vivendo, L’ultimo uomo sulla terra (1964), una produzione italo-americana diretta da Ubaldo Ragona, tratta dal notissimo romanzo di Richard Matheson Io sono leggenda, uscito in precedenza in Italia con il titolo I vampiri. In questo fanta-horror di cui apprezziamo la spettrale ambientazione al quartiere dell'EUR, a Roma, ritroviamo un superlativo Vincent Price nei panni di un dottore alla ricerca di un antidoto efficace contro un’epidemia infettiva che trasforma gli uomini in vampiri. Il fatto che un pipistrello faccia parte della catena di trasmissione del morbo accentua l'interesse per questa realizzazione caduta nel dimenticatoio, sebbene siano state girate almeno altre due versioni degne di nota - ma meno fedeli - derivate dall'appassionante racconto di Matheson. La prima è 1975: Occhi bianchi sul pianeta Terra (meglio conosciuto come The Omega Man) diretto da Boris Sagal nel 1971, in cui Robert Neville (ancora Charlton Heston), il medico militare della vicenda, si impegna strenuamente alla febbrile ricerca di un antidoto, nella speranza di ritrovare prima o poi qualche superstite della pandemia. Ma l'eroe, rifugiatosi al chiuso della sua abitazione a Los Angeles, viene assediato minacciosamente al calar delle tenebre da un'orda di creature fotofobiche albine che ne reclamano la pelle. Stavolta, il morbo è stato originato da una guerra batteriologica tra Russia e Cina che ha causato la scomparsa del genere umano. Assai curioso l'epilogo, e specialmente la scena finale, che richiama a un messaggio messianico...

Nell'altra versione, Io sono leggenda (2007) di Francis Lawrence, Neville, il virologo militare, è interpretato da Will Smith, che stavolta si aggira per New York con il suo pastore tedesco alla ricerca di persone da soccorrere, e di cibo e oggetti di una qualche utilità da portare nella sua casa-laboratorio, dove sta testando, fino ad allora con scarso successo, un vaccino. In questo caso la pandemia è stata provocata tre anni prima da un virus sfuggito a un laboratorio di ricerca che sperimentava una mutazione genetica del morbillo per scopi terapeutici. Il contagio aveva provocato perlopiù la morte, ma alcuni erano rimasti infettati da una malattia simile alla rabbia che li aveva trasformati fisicamente, alla stregua degli zombi, i quali, imperversavano soltanto durante la notte, essendo allergici alla luce solare. 

Di minor interesse pandemico, ma di grande fascino rappresentativo The Road (2009) diretto da John Hillcoat, e tratto dall'omonimo ed eccellente romanzo di Cormack McCarthy, Premio Pulitzer nel 2007. L'ambientazione di un paesaggio devastato da un misterioso cataclisma è la carta vincente di questo disperato road-movie distopico che ritrae il viaggio nell'apocalisse di un padre (Viggo Mortensen) e del suo figlio decenne, di cui non vengono menzionati i nomi. Sfuggendo al gelo e alle bande fameliche dei sopravvissuti, i due puntano alla salvezza, a Sud, all'oceano, attraversando un mondo di macerie in cui perfino le foreste crollano come castelli di fiammiferi. Il cielo, privato del sole, e del volo degli uccelli, è squarciato da continue scariche elettriche. E piove un’acqua sporca che s’attacca addosso come l’unto di vecchi motori. In quest’aria malsana l'uomo porta in petto un "fuoco" che gli dà dolore a ogni respiro, come un tarlo nei polmoni che, forse, s’estinguerà. Oppure no...


28 giorni dopo (2003) 

Con 28 giorni dopo (2003) Danny Boyle conduce gli spettatori, per mezzo di questo gioiellino orrifico, nuovamente nel mondo delle epidemie globali e della suspenseCioè si ritorna all’incapacità di gestire un agente infettivo realizzato a fini scientifici in laboratorio, durante la sperimentazione su una colonia di scimpanzé. Nel momento in cui un gruppo di animalisti ha liberato alcune di queste scimmie il virus si diffonde tra la popolazione, che viene rapidamente contagiata da una specie di rabbia assassina che trasforma gli individui in fameliche bestie selvagge. È il caos totale: la Gran Bretagna è nel panico. Jim (un convincente Cillian Murphy), risvegliatosi da un coma di circa un mese (ecco il titolo), trova una Londra deserta, e in un crescendo di tensione si unirà presto a un gruppo di sopravvissuti, sfuggendo alle schiere furiose, per raggiungere una guarnigione asserragliatasi a difesa di un castello dalle parti di Manchester. Diventato quasi subito un film di culto, 28 giorni dopocronaca concitata di una lotta per la sopravvivenza, deve parte del suo successo all’epidemia di Sars, anch'essa causata da un coronavirus, il SARS-CoV, che era scoppiata in Cina proprio nel periodo in cui la pellicola era uscita nelle sale.

Per quanto assai poco scientifico possa sembrare, il cinema ha spesso utilizzato le più singolari e spettacolari distorsioni legate al mondo dei morti-viventi, a partire dagli imitatissimi classici horror di George Romero, La notte dei morti viventi (1968) e Zombi (1979), che al di là delle forti suggestioni visive contenevano una marcata critica al consumismo e all'omologazione, mali tipici della società di massa. Tali opere, ormai considerate "paradigmatiche" da parte della critica cinematografica, hanno consolidato alcune situazioni ricorrenti dello zombismo (come il fatto che esso si manifesti sovente come una forma epidemica inarrestabile e minacciosa per il genere umano, che non riuscirà mai del tutto a debellare), dall'altro hanno prodotto un'evidente evoluzione del significato allegorico di tale fenomeno. Nella fattispecie, in World War Z (2013) di Marc Forster,la comparsa delle mostruose creature antropomorfe viene attribuita alle storture della globalizzazione, alla fame causata dalla mancanza di acqua, cibo, medicine, spazi vitali. Difatti, l'incipit incalzante che sciorina dati sull'imminente collasso del pianeta, stressato dalla "bomba demografica" e dalla penuria delle risorse essenziali, dall'inquinamento selvaggio e dalle modificazioni del clima, dall'accentuazione dei fenomeni atmosferici ed endogeni alla sempre più frequente diffusione delle pandemie, premette la vicenda. Tratto dall'omonimo best seller di Max Brooks (figlio del mitico Mel Brooks, e di Anne Bancroft) World War Z esordisce con una teoria catastrofista poco dissimile da quella appena espressa, ma dopo le prime scene la storia sterza decisamente in direzione di un'avvincente avventura umana finalizzata al salvataggio del mondo.

L'eroe-protagonista è Gerry Lane (Brad Pitt), un agente speciale dell'ONU che ha scelto di godersi la serenità della propria famigliola in quel di Philadelphia (location pure de L’Esercito delle 12 Scimmie, con lo stesso Pitt), nello stato della Pennsylvania (omaggio al primo film della tetralogia dei morti-viventi di Romero?). Ma un mattino, accompagnando moglie e figlie, rimane bloccato con l'auto in un ingorgo inestricabile. Immediatamente dovrà mettersi in salvo con i suoi cari per sfuggire all'assalto letale di centinaia di esseri subumani che in preda a un agente patogeno sfogano la loro furia nel cannibalismo, reiterando in pochi minuti la tremenda infezione. In breve le orde fameliche degli zombi avranno distrutto metropoli e piccoli centri, devastato interi territori, minacciando la sopravvivenza dell'intera razza umana. Tradotto dopo alcune peripezie su una portaerei sull'Atlantico, Lane dovrà lasciare al sicuro i familiari e guidare una missione che scopra le cause e le modalità di diffusione di questa malattia sconosciuta, prima che si realizzi l'Apocalisse.

Dopo il superamento di prove assai pericolose tra Corea, Israele e Galles, Gerry Lane tenterà d'individuare la chiave per bloccare la pandemia, magari attraverso un vaccino che possa consentire al genere umano di combattere efficacemente, e prevalere, nella guerra mondiale degli zombi…


World War Z (2013)

World War Z conquista meritatamente l'attenzione degli spettatori con un ritmo e una suspense notevoli e, specialmente nelle sequenze degli assalti di massa, con effetti visivi veramente angosciosi. Brad Pitt svolge egregiamente il suo ruolo di mattatore, ben supportato dai molti comprimari, tra i quali diversi volti famosi o familiari; ci si conceda di citarne almeno uno come esempio di professionalità, e anche per orgoglio di bandiera: il bravo Pierfrancesco Favino, in una parte non troppo simpatica. Alla fine, però, rimane un po' di amaro in bocca per quello che il film avrebbe potuto essere e non è stato, e nonostante le dichiarazioni del regista, il quale, ha affermato di aver pensato ai walking dead come a una metafora del caos odierno, e a un'allegoria della futura sopravvivenza dell'umanità, possibile solo mediante una più decisa comunità d'intenti. 

Accennato in precedenza della rivalutazione postuma del cinema di George Romero, non rimane che citare un altro cult del genere, dello stesso autore newyorchese, uscito nel 1973: La città verrà distrutta all’alba, anche questo ambientato in Pennsylvania, dove precipita un aereo militare che lascia cadere un'arma biologica segreta chiamata "Trixie", che inquina l'acqua potabile e scatena la diffusione di un microrganismo che provoca nelle persone una forma di pazzia omicida che pare incurabile. Un’intera città, Evans City, focolaio del virus, viene messa in quarantena, e sottoposta alle leggi marziali. Gli abitanti del luogo non ci stanno, e mentre si propaga il contagio si ribellano ai militari per sapere come stanno realmente le cose...
Anche stavolta Romero mette in scena l'orrore, ma nel contempo dissemina di indizi ben più rilevanti il sottotesto antimilitarista ed ecologista, così che la valenza allegorica si mostri in tutta la sua evidenza critica nei confronti della politica americana e dei governi che la esprimono.

Rimaniamo allora in tema con Operazione Alpha (1978), un fantahorror - non imperdibile - di Bill Rebane, in cui un micro-organismo mortale portato da Marte da una navicella spaziale, e trasportato da un treno, contagia un gruppo di viaggiatori che muoiono allorché si addormentano; l'unico fortunato sopravvissuto viene, però, eliminato dai militari. Anche stavolta un'istituzione governativa mostra il proprio volto, cinico e inaffidabile, ricorrendo alla somministrazione di cianuro per eliminare il problema, ovvero i contaminati che non riesce a curare con un antidoto. Senz'altro più avvincente Doomsday (2008), scritto e diretto da Neil Marshall, che ritrae la Scozia del 2008 devastata da un potente virus (Reaper) che trasforma i malati in bestie assetate di sangue. Il governo inglese, nel biasimo e nella protesta generale, decide di isolare dal mondo la regione scozzese con una muraglia che ricalca il percorso dell'antico Vallo di Adriano. Ma nel 2035 il morbo ricompare a Londra, così un gruppo di soldati viene inviato in Scozia per rintracciare qualche portatore sano da tradurre in Inghilterra al fine di realizzare un vaccino efficace. Descrizione distopica di spettacolare violenza, questo thriller fantascientifico va ricordato specialmente per la forte critica nei confronti del potere politico, per la messinscena, e per la performance di Rhona Mitra, l'eroina protagonista.

 

Counterblast (1948)

Invece, Counterblast (1948), di Paul L. Stein, è un thriller in b/n ben girato, ma dalla distribuzione contrastata e ritardata, perché ritenuto violento. Evidentemente, nell'immediato dopoguerra il tema della diffusione dolosa di agenti infettivi poteva risultare inopportuno. Ecco in breve la sinossi: alla fine del secondo conflitto mondiale un criminale nazista, il professor Bruckner, evade dalla prigionia e, con una nuova identità, si accredita come un ricercatore australiano. In Inghilterra riesce a creare in laboratorio un virus letale allo scopo di sterminare intere popolazioni. Il progetto, per fortuna, fallirà per merito del suo giovane assistente, il quale, nutre forti dubbi sul fantomatico scienziato...

Passiamo ora all'Africa centrale e sub-sahariana, attaccata nel 1976 da un'epidemia di Ebola, partita dallo Zaire (oggi Congo), e veicolata in tutto il continente da varie specie di pipistrelli della frutta. Il virus, ad alta letalità, colpì pesantemente gli esseri umani attraverso una febbre emorragica, e si ripresentò di nuovo negli anni seguenti in altre varianti. Hollywood non poteva restare indifferente a questa malattia così cruenta, tant'è che nel 1995 è uscito un film, esteticamente discontinuo, ispirato liberamente all'argomento: Virus letale di Wolfganf Petersen, sorretto da un cast stellare comprendente Dustin Hoffman, Kevin Spacey, Rene Russo, Donald Sutherland, Morgan Freeman, Cuba Gooding jr. e Patrick Dempsey. La vicenda riguarda l'ufficiale medico Sam Daniels (Hoffman), il quale, dopo aver studiato in Africa gli effetti devastanti del virus Motaba, allarma i suoi superiori sul reale pericolo di una probabile diffusione del morbo anche in America. Nessuno gli dà credito, almeno fino a che a Cedar Creek, una cittadina californiana (dal nome fittizio), non compaiono le prime vittime. Poi i morti aumentano e si scopre che i militari hanno volutamente nascosto il vaccino per utilizzare il virus come arma biologica. Plot scontato seppur interessante per una pellicola ben realizzata sul piano spettacolare (tensione, azione, fotografia...), ma scarsamente coinvolgente dal punto di vista della denuncia politica, sebbene abbia conosciuto un ottimo rimbalzo di popolarità proprio in questi mesi di diffusione del coronavirus.

Più interessante, e drammaturgicamente efficace, in quanto realmente ispirato all'Ebola, e alla vera storia della dottoressa Stella Ameyo Adadevoh, il thriller 93 Days (2016) di Steve Gukas, una produzione nigeriana poco conosciuta, nella quale notiamo la presenza di Danny Glover nella lista degli attori. Quando Patrick Sawyer, un cittadino americano proveniente dalla Liberia, sbarca a Lagos viene ricoverato in ospedale con sintomi febbrili associabili alla malaria. Ma la dottoressa Adadevoh - interpretata dalla brava attrice nigeriana Bimbo Akintola - non ci vede chiaro, e così, nonostante il paziente abbia dichiarato di non aver intrattenuto contatti con malati di Ebola, si getta al lavoro lottando contro il tempo per contenere il contagio, che potrebbe infettare l'intero agglomerato urbano di Lagos (21 milioni di persone), e da lì l'Africa, e il mondo intero.

Per quanto attiene al sottogenere delle pellicole che trattano di virus e batteri importati dallo spazio, oppure dai "vicini" pianeti del sistema solare, non abbiamo a disposizione titoli di grande rilevanza, ma piuttosto produzioni talvolta semi-artigianali realizzate con penuria di mezzi, e di idee. Si tratta perlopiù di opere concepite negli anni Cinquanta, durante la guerra fredda, o poco più tardi, e si identificano in buona parte con la corsa alla conquista dello spazio da parte delle due superpotenze, USA e URSS, dato che un nuovo conflitto sulla Terra a colpi di bombe atomiche avrebbe provocato - presumibilmente - il collasso e l'autodistruzione. Il pericolo di un contagio dovuto a un misterioso fungo extraterrestre approdato sul nostro pianeta per mezzo di un satellite, e la successiva propagazione globale dell'infezione micotica è - in sintesi - il contenuto di Space Master X-7 (1958) di Edward Bernds, un discreto film in wide-screen distribuito dalla Fox. Ben più spartano, sebbene ambizioso nei temi trattati, Marte distruggerà la Terra! (1959) di Ib Melchior, che racconta del rientro sulla Terra di una spedizione di astronauti inviata su Marte, la quale, dopo varie peripezie fantascientifiche, e altri avventurosi e drammatici incontri con entità aliene sul pianeta rosso, viene infettata da germi sconosciuti e pericolosi.

 

Andromeda (1971)

Questa terna di proposte si chiude con Andromeda (1971), diretto da Robert Wise (il regista di Tutti insieme appassionatamente, West Side Story e Star Trek), produzione ad alto budget, stavolta, più che buona trasposizione del romanzo The Andromeda Strain di Michael Crichton, girata in stile semidocumentaristico, e ambientata nel deserto del New Mexico, dove il frammento di un satellite americano precipitato dal cielo, e contenente dei microrganismi utilizzati in un programma di armamenti biologici, finisce per infettare la cittadina di Piedmont causando la morte di buona parte della popolazione. L'agente patogeno, che riduce il sangue in polvere, viene affrontato da una squadra di studiosi, i quali, scopriranno alfine la maniera per combatterlo e, in una drammatica lotta contro il tempo, neutralizzarlo. Ancora una volta va in scena l'incoscienza di una ricerca scientifica ancella dei folli intenti criminali delle oligarchie militari in una nazione che mostra da un lato una rassicurante maschera democratica, ma che nel contempo, nasconde i pericoli effettivi che possono condurre gli esseri umani all'autodistruzione.

Concludiamo il capitolo con Contagion (2011), un film decisamente commerciale, seppur diretto da Steven Soderbergh (Sesso, bugie e videotape, Erin Brockovich, Traffic...), e con un cast stellare, che comprende Matt Damon, Marion Cottillard, Gwyneth Paltrow, Jude Law, Laurence Fishbourne, Kate Winslet e Bryan Cranston. La qualità più evidente di questa messinscena, però, risiede nel fatto che induce a pensare attentamente alla nostra condizione attuale. Difatti, Contagion narra di un agente virale che si diffonde nel mondo uccidendo milioni di persone. Questo nuovo virus, partito dalla Cina (Hong Kong), e contenente materiale genetico di maiali e pipistrelli, colpisce i neuroni e il sistema respiratorio trasmettendosi con inusitata semplicità: basta una stretta di mano. La comunità medico-scientifica mondiale si trova in poco tempo a dover affrontare la ricerca di una cura di quella che nel frattempo si è trasformata in una pandemia globale, non ancora angosciosa, ma reale. Naturalmente nell'opera di Soderbergh i fatti narrati si intrecciano ai destini individuali di alcuni personaggi della vicenda, appartenenti ai più diversificati contesti sociali, ritratti nella loro quotidianità. Ne esce un thriller in cui il crescendo di tensione è generato dalle reazioni rispetto a una situazione del tutto nuova, ignota, sconosciuta. Ma il regista di Atlanta aveva previsto tutto? É difficile rispondere, ma si può comprendere perché Contagion, a dieci anni dall'uscita in sala, fornisca ancora numerosi spunti di riflessione. Ed ecco perché non è un caso che sia tornato tra i primissimi nella classifica dei film più scaricati ad appena un mese dall’identificazione del primo caso di COVID-19.

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5. L’eroismo dei medici e del personale sanitario di fronte ai contagi epidemici

Uno dei capitoli più drammatici dell'emergenza pandemica in Italia riguarda i sanitari impegnati nella lotta contro il coronavirus. Mentre scriviamo il bollettino dei medici deceduti per il Covid durante l'esercizio della loro professione ha superato le 350 unità, mentre gli infermieri caduti sul campo assommano a un centinaio. Si tratta di cifre impressionanti, decisamente spropositate, una strage nella strage, specialmente se si considera che queste categorie hanno pagato - più di ogni altra - con la propria vita per garantire la salute di tutti. Senz'alcun intento retorico, va ben scandito che parliamo di eroi, che non hanno esitato a combattere "a mani nude" il virus, senza conoscenze contingenti, soprattutto nella prima fase della pandemia. In seguito, malgrado i problemi legati alla corretta applicazione dei protocolli di sicurezza, alla carenza o all'inadeguatezza dei dispositivi siano stati in gran parte risolti, gli operatori sanitari hanno continuato a morire negli ambulatori, nelle corsie degli ospedali, nei ricoveri per anziani. Alcuni volontari deceduti erano medici o infermieri in pensione, che avevano prontamente risposto alle chiamate di soccorso. Qualcun altro, oberato dai gravosi carichi di lavoro, o demoralizzato dall'entità del fenomeno e dal contatto giornaliero con le vittime, non ha resistito e, complice il conseguente disagio psichico, si è tolto la vita. I dati dell'INAIL comunicano di circa 100.000 addetti al settore sanitario contagiati durante l'espletamento delle proprie funzioni. Questa panoramica desolante non deve, però, far dimenticare gli enormi successi ottenuti dalla sanità nazionale nel salvataggio di migliaia e migliaia di vite umane, nella cura amorevole dei contagiati, dai casi più gravi a quelli meno compromessi, grazie al coraggio e alla generosità, ma anche all'impegno e alla competenza di ricercatori e scienziati, nonché alla notevole organizzazione delle strutture della salute pubblica.

Negli anni a venire arte e letteratura, teatro e cinema sapranno narrare con maggiore efficacia gli atti eroici e i mille episodi di abnegazione quotidiana registrati già oggi dalle cronache, attraverso fotografie significative e filmati eloquenti, o per mezzo di tanti racconti e interviste commoventi. Per il momento non risulta complicato cercare nel passato varie testimonianze cinematografiche incentrate sull’eroismo disinteressato dei professionisti sanitari, alle prese con epidemie e contagi. Non si tratta, in genere, di opere indimenticabili, tutt'altro, ma perlopiù trasposizioni non sempre riuscite di romanzi editi tra la metà degli anni Venti ai Cinquanta, che hanno solleticato le major di Hollywood a praticare questo filone, afferente al genere drammatico, ma spesso, malgrado le ottime intenzioni e l'impegno di dive/i di primissimo livello, degradante nella mediocrità di melensi melò.


Arrowsmith (1931)

Arrowsmith (tradotto da noi in un discutibile Un popolo muoredel 1931, porta la firma illustre di John Ford alla regia. Si tratta di un'ottima riduzione dell'omonimo romanzo di Harry Sinclair Lewis, Premio Pulitzer nel 1926 per questo libro, e Nobel per la letteratura nel 1930, che ritrae un giovane medico, Martin Arrowsmith (Ronald Colman), in forte disaccordo con l'ambiente scientifico e accademico dominato dal cinismo e dall'indifferenza. Per completare gli studi e la propria esperienza clinica il dottore decide di abbandonare gli USA, seguito dalla moglie Leora (Helen Hayes), per un'isoletta dei Caraibi, dove infuria un'epidemia di peste. Indiscusso maestro del genere western, John Ford sa anche dosare la giusta tensione grazie alla sobria direzione e ai sapienti movimenti della macchina da presa (mdp): il ricercatore, pur rischiando la vita per aiutare la popolazione locale, non riuscirà a proteggere Leora colpita dal contagio. Ma si adopererà fino allo stremo per realizzare un siero efficace a salvare migliaia di vite umane.

Ne Il prigioniero dell'isola degli squali, produzione Fox del 1936, John Ford tesse nuovamente le lodi dei "seguaci di Ippocrate", allorché un medico viene ingiustamente accusato di aver complottato per uccidere il Presidente Abraham Lincoln. Condannato all'ergastolo, il dottor Samuel Alexander Mudd (Warner Baxter, Oscar nel 1930) viene relegato in un penitenziario su un'isola dei tropici dove si diffonde un'epidemia di febbre gialla che colpisce reclusi e secondini, ma anche il responsabile sanitario del carcere. Mudd deve così prenderne il posto: l'impegno e la generosità dimostrata nelle circostanze gli procureranno la grazia e la successiva riabilitazione.

Anche La luce verde (1937), melodramma mistico di Frank Borzage, si basa su un romanzo, quello omonimo del 1935, scritto dal pastore luterano Lloyd C. Douglas. In breve la trama: Newell Paige (il divo Errol Flynn), giovane chirurgo, per proteggere il suo mentore, si addossa la responsabilità della morte di una paziente durante un'operazione, si dimette dall'ospedale in cui lavora, e viene mollato dalla fidanzata, Phyllis (Anita Louise), figlia della vittima. Parte per il Montana, infestato da un'epidemia (la febbre maculosa delle Montagne Rocciose), per espiare una colpa - non sua - iniziando una ricerca che porti a un rimedio per curare i contagiati. Scopre il vaccino e se lo fa inoculare, rischiando la vita. Ma il lieto fine è dietro l'angolo: Phyllis lo perdonerà prima che si scopra la sua innocenza; e dopo la guarigione Newell verrà riammesso nello staff dell'ospedale da cui s'era forzatamente allontanato.

Di ambientazione esotica, La grande pioggia, tratto da un romanzo di Louis Bromfield, e diretto da Clarence Brown, con Tyrone Power e Myrna Loy, è un melodrammone della Fox (1939), che mescola triangoli amorosi tra inglesi trapiantati in India, terremoti e inondazioni monsoniche in quel di Ranchipur, dove scoppia pure un'epidemia di colera. Due curiosità: è stato il primo film a vincere l'Oscar per i migliori effetti speciali (1940); Tyrone Power recita la parte di un improbabile medico indiano. Rifatto nel 1955 da Jean Negulesco, con il titolo di Le piogge di Ranchipurcon Richard Burton e Lana Turner, il film ripete la vicenda di una lady adultera che seduce un medico indiano e si ritrova a soccorrere, e perire, per gli ammalati di colera.

Il velo dipinto, tratto da un bel romanzo di William Somerset Maugham (1925), ha conosciuto tre versioni per il grande schermo. La prima (1934) del regista polacco Richard Boleslawski, in bianco e nero, e con una sontuosa Greta Garbo, è la più fedele al testo narrativo. Negli anni Venti Kitty, una giovane londinese benestante, per sfuggire alla opprimente routine familiare, sposa un batteriologo, il dottor Walter Fane, che invece è innamorato di lei. Il lavoro di lui li obbliga a trasferirsi a Shanghai, in Cina, dove la donna intraprende una relazione con il viceconsole inglese, che reputa più interessante e meno noioso del marito. Questi scopre l'adulterio e le propone il divorzio, oppure di seguirlo in un lontano e misero villaggio dell'interno dove il colera fa strage degli abitanti. Kitty decide di affrontare il viaggio e i disagi di questa nuova esperienza in un luogo ostile e privo di ogni comodità. E per impiegare il tempo si dedica all'insegnamento alle ragazzine presso un orfanotrofio gestito da suore francesi. Qui la donna maturerà nel comportamento e nelle convinzioni, riavvicinandosi a Walter, il quale, lotta strenuamente contro l'epidemia ottenendo alfine ottimi risultati. Ma quando pare che i coniugi abbiano trovato l'amore, e una certa armonia di coppia, il villaggio viene di nuovo contagiato da alcuni profughi giunti da un paese delle vicinanze. Walter si lancia generosamente a curarli, ma stavolta si ammala seriamente. Assistito da Kitty, che gli aveva già rivelato di essere incinta, le chiede perdono prima di morire…

Il secondo adattamento, stavolta a colori, è intitolato Il settimo peccato (1957), e porta la firma del britannico Ronald Neame, e pure di Vincente Minnelli che lo sostituì dietro alla mdp. Un cast di bravi professionisti (Bill Travers, Eleanor Parker e George Sanders) non basta a una messinscena onesta, ma priva di spunti memorabili.

Ben più ambiziosa, invece, la terza versione de Il velo dipinto (2006), diretta da John Curran, con Naomi Watts, Liev Schreiber (allora marito dell'attrice naturalizzata australiana) ed Edward Norton in veste di interprete, produttore e sceneggiatore, il quale si è parecchio impegnato nell'evidenziare il percorso interiore dei personaggi in questa pregiata ed elegante rappresentazione girata a Guilin, in Cina, che si è avvalsa oltre che del notevole lavoro degli attori, dell'ottima fotografia, e della musica di Alexandre Desplat, vincitore del Golden Globe per la migliore colonna sonora.

Proseguiamo la rassegna con un bel dramma noir di Elia Kazan (Un tram che si chiama desiderio, Fronte del porto, La Valle dell'Eden...) che nel 1950 vinse l'Oscar per il miglior soggetto. Si tratta di Bandiera gialla (il titolo originale, più adeguato, era Panic in the Streets). A New Orleans un cittadino di origini armene viene ucciso e l'autopsia svela che era affetto da peste polmonare. La città viene messa in quarantena, e allora inizia la caccia agli assassini prima che costoro possano diffondere il contagio tra la popolazione. Così il tenente medico Clinton Reed (l'ottimo Richard Widmark) e il capitano di polizia Tom Warren (Paul Douglas) indagano per scovare i tre omicidi (ben interpretati da Zero Mostel, Guy Thomajan e dall'esordiente Jack Palance, nei panni dello spaventoso gangster Blackie), nonché inconsapevoli portatori dell'infezione. Ma se in superficie assistiamo a un buon infection-movie, il sottotesto è ben più sofisticato, ed eleva la pellicola ai grandi livelli di un thriller semi-documentaristico che fotografa i bassifondi della città più importante della Louisiana, in particolare la sordida zona del porto sul Mississippi, dove si annida un'umanità disperata e violenta, terreno fertile per la diffusione del male: ecco svelata l'evidente allegoria pestilenziale...

Chiudiamo con Balto (1995) di Simon Wells, un action-movie di animazione che trasgredisce, ma solo in parte, il tema ricorrente di questo capitolo. Stavolta, difatti, non si tratta della generosa dedizione di un medico, quanto dell'eroismo di un cane, orfano fin dalla nascita. La favola narrata, ispirata a una storia vera, si svolge nel 1925 a Nome, in Alaska, dove Balto, mezzo husky e mezzo lupo, discriminato dai cani di razza ed emarginato dagli uomini in quanto ritenuto selvatico e inaffidabile, nutre un profondo affetto per Jenna, una dolcissima husky che vive con Rosy, la sua amorevole padroncina. Ma anche Steele, il feroce capo dei cani da slitta, ha messo gli occhi sulla cagnetta di Rosy e prende a "bullizzare" Balto anche per invidia della sua agilità e velocità. Durante l’inverno una grave epidemia di difterite si diffonde rapidamente in città, e molti bambini, tra i quali la piccola Rosy, ne sono colpiti. Essi rischiano di morire poiché il medico ha terminato l’antitossina che serviva a curarli. Inoltre, il gelo eccezionale e una violenta bufera di neve interrompono tutte le vie di comunicazione, sia aeree che navali. Non rimane che allestire una slitta trainata da cani per recuperare in tempi brevi i farmaci salvavita a Nenana, dove arriva la ferrovia. Nonostante Balto abbia superato la selezione, viene escluso dalla missione perché meticcio. La squadra designata, guidata da Steele, ottiene il farmaco, ma nel corso della notte, sulla via del ritorno, una tormenta di neve disorienta i cani che si smarriscono tra le nevi artiche per colpa del loro arrogante e supponente capomuta. Visto che l'antitossina tarda a giungere a Nome, Balto decide di partire per soccorrere i dispersi e recuperare la medicina, accompagnato dai fedeli amici Boris, un'oca russa, e Muk e Luk, due simpatici orsacchiotti polari. Dopo varie peripezie il quartetto riuscirà a salvare la staffetta dei cani da slitta, a resitere alle avversità metereologiche, agli intrighi e alle malvagità di Steele riportando in città la cura in grado di neutralizzare la tossina difterica. Balto, orgoglioso della sua affermazione, avrà così dimostrato a tutta la comunità il suo valore e la sua generosità. Inoltre, una statua di bronzo, che commemora l'impresa coraggiosa di Balto, dà bella mostra di sé a Central Park, a New York, fin dal 1927, come viene mostrato pure nel prologo e nell'epilogo dal vero del film che, prodotto da Steven Spielberg, ricalca in buona parte i canoni collaudati delle produzioni Disney, utilizzando a piene mani azione e tensione,antropomorfismo e comicità, didascalismo e buoni sentimenti.

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6. Memoriali e documentari

Quando la pandemia di Covid-19 verrà finalmente debellata e la maggior parte della popolazione vaccinata, magari raggiungendo la tanto sospirata "immunità di gregge", sarà giunto il momento d'interrogarsi su come e perché intere società tanto civilmente evolute e tecnologicamente avanzate non abbiano saputo fronteggiare adeguatamente, e intervenire tempestivamente, per evitare la strage di centinaia di migliaia di persone (ne contiamo al momento quasi 3 milioni) in ogni angolo del pianeta. Solo allora il cinema riprenderà a porre quesiti, a formulare domande - presumiamo anche scomode - e a fornire risposte, in parecchi casi inquietanti, sui provvedimenti dei governi, sui comportamenti dei politici, degli scienziati e del personale sanitario, sulle reazioni degli individui e delle popolazioni, nonché sugli effetti di questa - quantomeno spiacevole - esperienza sulla vita quotidiana passata, presente e futura dell'intera umanità. Uno degli argomenti più dibattuti, specialmente in Italia, riguarderà l'efficienza del sistema sanitario nazionale, fortemente depauperato in favore di una scellerata corsa alla privatizzazione, corsa che aveva già mostrato il fiato corto, e i suoi evidenti limiti, in paesi anche più ricchi e avanzati del nostro. Il riferimento cinematografico più calzante rispetto a tale questione riguarda Sicko, un documentario del 2007 realizzato da Michael Moore, il quale, nella forma dell'inchiesta, che non disdegna il ricorso a paradossi e a situazioni ridicole, mette alla berlina il sistema sanitario statunitense, reo d'impedire ai cittadini privi di un'assicurazione di curarsi adeguatamente. Più recentemente (2010) il presidente Obama aveva cercato di ampliare la copertura offerta alle classi meno abbienti attraverso il cosiddetto “Obamacare”, ossia la riforma della sanità che ha consentito a milioni di americani di stipulare un'assicurazione privata grazie a un sistema di aiuti pubblici. Nel 2017 Donald Trump ha tentato in ogni modo di abolire questa importante conquista di civiltà, senza riuscirvi. Ma l'anno successivo un giudice del Texas, soccorrendo alcuni stati a guida repubblicana, ha dichiarato incostituzionale una parte importante della riforma, pronunciando una sentenza che è destinata a trovare soluzione soltanto davanti alla Corte Suprema, sotto la pressione - attualmente - del Partito Democratico e del nuovo Presidente Joe Biden, il quale, a poche settimane dal suo contrastato insediamento, si è impegnato a riparare i danni procurati da Trump in ambito sanitario, e ancor più in tempi di pandemia, dato che lo stesso presidente uscente aveva vietato la copertura assicurativa agli americani con patologie preesistenti. Viene naturale, allora, riflettere sul fatto che finora gli USA abbiano pagato un prezzo altissimo al coronavirus: più di 570.000 morti, di gran lunga più vittime di tutte le guerre combattute dagli statunitensi dal XX secolo ad oggi.

Rimaniamo negli Stati Uniti, ma tornando un po' indietro nel tempo. Common Threads: Stories from the Quilt (1989), diretto da Rob Epstein e Jeffrey Friedman, nel 1990 ha vinto l'Oscar per il Miglior documentario. La voce narrante di Dustin Hoffman sopra il fondo musicale di Bob Mc Ferrin guida gli spettatori attraverso dati numerici e scientifici, interviste e testimonianze che narrano la storia della vita e della morte di numerose vittime dell'AIDS commemorate nella famosa "coperta" (l'Aids Memorial Quilt), una spettacolare raccolta di tessuto in cui ogni frammento ricorda una vittima della malattia e ne racconta l'esistenza. In sostanza, si tratta della più grande opera d'arte collettiva al mondo, una commovente collezione di brandelli di sofferenza e coraggio, di esempio e monito per tutta l'umanità.

Di maggiore interesse, per via delle circostanze, il film collettivo firmato da Gabriele Salvatores Fuori era primavera - Viaggio nell'Italia del lockdown, documentario uscito nel 2020, presentato alla Festa del Cinema di Roma, e di cui sentiremo parlare ancora, in quanto testimonianza storica del lockdown, e nel contempo, memoriale intimo dell'Italia ritratta tra il 24 marzo e il 30 maggio 2020. Durante questo bimestre Salvatores ha chiesto a tutti coloro che ne sono stati coinvolti di documentare la propria esperienza di quarantena con il cellulare e ha raccolto così un'enorme quantità di filmati, montati insieme a formare un racconto coerente, drammatico ed emozionante. Ne è scaturita una serie di immagini esemplari, memorabili, originali, ed è emersa una realtà evidente quanto inimmaginabile: la bellezza e la tristezza di strade e piazze deserte; i centri sportivi, i parchi e i giardini, i cinema e i teatri inesorabilmente vuoti; l'eroismo individuale e collettivo dei medici e del personale sanitario; la solitudine e la sofferenza degli anziani e dei disabili; il lavoro incessante di fattorini e pony express per consegnare cibo e generi di prima necessità in ogni angolo delle città e dei paesi a tutti i bisognosi; la chiusura delle scuole e le difficoltà della didattica a distanza; il dramma della perdita del lavoro e della disoccupazione; le famiglie costrette alla convivenza nell'angusto spazio domestico; la morte a distanza, in completa solitudine, dei nostri cari, privati pure delle onoranze funebri; il senso di comunità riacquisito con la musica sui balconi; le bandiere esposte e le lenzuola con le scritte "ce la faremo"...

È passato appena un anno da quell'esperienza che ci appare già lontana, già entrata nelle pagine di storia, eppure così vera, commovente. Dopo la Cina abbiamo subito per primi in Europa gli effetti dell'isolamento, dell'incertezza, dei bollettini quotidiani dei contagi e delle vittime, reagendo spaventati, ma composti, inconsapevoli e talvolta attoniti, impotenti, e poi sconcertati dagli effetti destabilizzanti della pandemia nell'esistenza individuale e collettiva dell'intera nazione. Ecco perché Fuori era primavera è un prezioso documentario che ci restituisce una sorprendente testimonianza di solidarietà, che ancora una volta ricorda la nostra travagliata e controversa identità, il senso più vero e meno retorico della parola "patria".

Altrettanto toccante è 76 giornidi Hao Wu (regista cinese che vive a New York) e di due suoi collaboratori, Weixi Chen e un altro che ha preferito rimanere anonimo. Si tratta di un documento di rilevanza internazionale girato a Wuhan, il primo focolaio della pandemia, che si è poi esteso in tutta la Cina, e quindi in Italia e nel resto del mondo. Presentato il 14 settembre 2020 alla prima serata del Festival di Toronto, 76 giorni ha sconvolto spettatori e critici per la crudezza delle immagini raccolte durante il lockdown di Wuhan, epicentro della pandemia. Una sorta di cinema-verità girato tra le corsie dell'ospedale di Wuhan in tempi in cui poco o nulla si conosceva dell'aggressività della malattia, della velocità dei contagi e degli esiti drammatici che si apprestava a determinare. Dunque, il ritmo ossessivo e concitato di una continua corsa contro il tempo per aiutare a guarire i pazienti colpiti dal virus; il coraggio e la dedizione di medici e infermieri per contrastare e debellare l'avanzata della malattia; le tante storie di morte e guarigione; l'isolamento totale patito dalla città e dai suoi abitanti. E poi le innumerevoli situazioni che abbiamo imparato a conoscere anche da noi nei momenti più critici della diffusione del coronavirus: il personale sanitario integralmente coperto dalle tute protettive; i cadaveri, a centinaia, trascinati in sacchi di plastica che non riceveranno l'estremo saluto dei parenti; le numerose istantanee di medici e infermieri esausti, ma sempre affettuosi e generosi, che si aggirano come automi tra le corsie e i letti d'ospedale; i tanti malati rimandati a curarsi a casa perché non c'è più posto...

L'eroismo e l'orrore, entrambi in scena, quindi, senza commenti o interviste, né drammatizzazioni musicali in sottofondo, né voci off. Solo gli esseri umani e il proprio dolore. Vissuto anche in prima persona dal regista, il cui nonno si è spento in Cina subito dopo il lockdown. Ancora vietato da Pechino, a causa della censura sul Covid-19, 76 giorni finoraè stato distribuito soltanto negli USA.

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- Appendice. Breve nota sui virus e le pandemie in sceneggiati e serie tv

 Addentrarsi nella giungla degli sceneggiati e delle serie televisive che hanno trattato, e si occupano tuttora, dei virus e delle pandemie comporta il rischio di perdersi in decine di titoli e di storie tutte dotate di una propria peculiarità. In seconda analisi le opere trasmesse attraverso il mezzo televisivo richiederebbero di per sé lo spazio e l'attenzione di un corposo saggio appositamente imperniato su tali produzioni che hanno caratterizzato in molti casi la storia stessa dei racconti e dei romanzi in tv. Perciò sfileremo piuttosto rapidamente su quelle che riteniamo le migliori fiction realizzate per il piccolo schermo dagli anni Sessanta fino ai tempi nostri.

Apriamo, dunque, con la fiorente stagione degli sceneggiati e delle miniserie tradotte dai classici, che ebbero, specialmente in Italia, un'incredibile popolarità, e contribuirono alla diffusione tra la popolazione delle biografie storiche e dei romanzi più noti e importanti della letteratura italiana e straniera. L'incipit non può che essere dedicato a I promessi sposi, film che ha conosciuto diverse versioni prodotte dalla RAI, ed è stato più volte trasmesso in replica sui canali della tv di stato. La serie andata in onda in 8 puntate nel 1967, per la regia di Sandro Bolchi, il quale, ne scrisse l'adattamento insieme a Riccardo Bacchelli, è stata una di quelle di maggior successo della storia della televisione italiana, anche grazie all'estrema fedeltà al testo manzoniano. Il racconto si avvale di un cast di prim'ordine, accuratamente scelto tra interpreti di teatro (Salvo Randone, Luigi Vannucchi e Tino Carraro) e attori di cinema (Massimo Girotti, Lea Massari), tra i quali citiamo i giovani Nino Castelnuovo e Paola Pitagora nel ruolo di Renzo e Lucia, e di un narratore esterno (Giancarlo Sbragia) che segue le scene leggendo sovente brani del testo originale.

Pure l'edizione del 1989, diretta da Salvatore Nocita, in 5 episodi, ha ottenuto una grande popolarità avvalendosi di un notevolissimo gruppo di interpreti, italiani e internazionali, come Alberto Sordi e Burt Lancaster, Franco Nero e Fernando Rey, Dario Fo e Murray Abraham, Walter Chiari ed Helmut Berger, Valentina Cortese e Renzo Montagnani. Anche in questo caso, in cui si evidenzia una minore fedeltà al romanzo storico (ad esempio Don Rodrigo che muore di peste dopo una folle cavalcata!) la parte dei protagonisti è stata assegnata a due giovani attori, Danny Quinn e Delphine Forest, mentre va segnalata la partecipazione dell'ex calciatore Roberto Boninsegna nel ruolo di un monatto, e quella del giornalista Oliviero Beha in quello di un commissario di sanità durante l'epidemia di peste. Da apprezzare il fatto che appena l'anno successivo (1990) la RAI otteneva ancora un bel successo di pubblico con la divertente versione parodistica de I promessi sposi, scritta, diretta e interpretata dal Trio Solenghi, Marchesini e Lopez.

Più recentemente, invece, la serie Romanzo Criminale, tratta dall'omonimo romanzo di Giancarlo De Cataldo, ideata e diretta da Stefano Sollima, e trasmessa in 22 episodi su Sky Cinema 1 tra il 2008 e il 2010, salutata come una delle migliori serie televisive mai prodotte in Europa, conteneva un riferimento all'AIDS allorché il personaggio detto "Ranocchia" (Fausto Paradivino) si spegneva in ospedale aggredito da un male oscuro, che negli anni Ottanta si stava pian piano diffondendo anche in Italia, a partire dagli ambienti omosessuali.

Tornando indietro nel tempo, va segnalata l'ottima serie tv britannica in 38 puntate, non tutte trasmesse in Italia, creata e prodotta da Terry Nation, e intitolata I sopravvissuti (1975-1977), che narra la vicenda di un gruppetto di persone sfuggite a un'epidemia gravissima che ha sterminato quasi interamente il genere umano. Focolaio del contagio - curiosa coincidenza - anche in questo caso, la Cina, dove il virus killer si era propagato per errore da un laboratorio di ricerca.

Ha suscitato sicuro interesse la miniserie uscita negli USA (6 episodi) The Hot Zone - Area di contagio (2019) creata da James V. Hart, e basata sull'omonimo romanzo di Richard Preston, che si occupa dell'Ebola e dell'ipotesi che il temibile virus, proveniente dall'Africa, e diffuso specialmente nelle foreste equatoriali, potesse essere sfuggito al controllo degli scienziati. In Italia essa è andata in onda sulla rete National Geographic.

Comunque, tra le serie di maggior successo internazionale (11 stagioni e oltre 150 puntate in onda dal 2010) che trattano di epidemie catastrofiche, e descrivono contesti post apocalittici, va di certo segnalata The Walking Dead, ideata da Frank Darabont (regista di significative opere ambientate nei penitenziari, quali Le ali della libertà e Il miglio verde), e tratta dall'omonima serie di fumetti scritta da Robert Kirkman. Protagonista un vice-sceriffo entrato in coma a seguito di uno scontro armato, che al suo risveglio si troverà in un ospedale pieno di cadaveri. Un virus ha contagiato gran parte della popolazione trasformandola in zombie. Così l'uomo cercherà i superstiti iniziando una disperata battaglia per rimanere in vita. Di detta serie esistono pure due spin-off: un prequel intitolato Fear the Walking Dead, e un seguito, The Walking Dead: World Beyond.

Temi ricorrenti di svariate serie televisive quelli dei virus letali, delle popolazioni in quarantena e della strenua lotta per la sopravvivenza. Recentemente (2015-2016), è comparsa su Netflix la serie canadese ideata da Michael McGowan, Between, ambientata a Pretty Lake, una cittadina americana finita in quarantena dopo che una misteriosa malattia ha ucciso chi aveva più di 21 anni. Anche Z Nation, una sessantina di episodi trasmessi da Netflix e da altre reti tv negli ultimi anni, presenta uno scenario apocalittico in cui un gruppo di persone rischia la vita per scortare in California, attraverso gli Stati Uniti, un uomo sopravvissuto a una misteriosa contaminazione zombie, unica speranza per la creazione di un vaccino. The Rain, invece, è stata la prima serie danese prodotta da Netflix, e trasmessa in una ventina di puntate tra il 2018 e il 2020. Brevemente la trama: la Danimarca è falcidiata da una pioggia catastrofica, che inizia a decimare la popolazione. I figli di uno scienziato, fratello e sorella, rimangono per 6 anni chiusi nel bunker costruito dal padre. Dovendo uscirne per ritrovare i resti della civiltà incontrano un gruppo di giovani sopravvissuti, e insieme si mettono in viaggio attraverso il Paese abbandonato, alla ricerca di un'umanità che reputavano scomparsa in quella pioggia apocalittica.

In V-Wars, tratta dall'omonima serie di fumetti, stavolta, protagonista è un virus che si diffonde rapidamente trasformando le vittime in vampiri. Se 12 Monkeys è una serie tv ispirata dal film del 1995 L’esercito delle 12 scimmie, Containment (trasmessa nel 2016) è una miniserie statunitense di 13 episodi basata sull'affine serie televisiva belga Cordon. Ad Atlanta, in Georgia, scoppia un’epidemia che costringe la metropoli in quarantena. La vicenda descrive le vicissitudini e la lotta per la sopravvivenza di alcune tra le 4000 persone rimaste bloccate all'interno della zona delimitata.

Tra virus mortali e vaccini, pandemie e quarantene, zombi e vampiri generati da originalissimi agenti infettivi, verosimiglianza e fantascienza, si possono classificare una certa quantità di realizzazioni, non solo americane, andate in onda con esiti differenti sulle reti televisive di mezzo mondo nell'ultimo decennio, da The Last Ship a Swamp Thing, da The StrainaHelix, da ReGenesis a To the Lake...

Un discorso a parte merita, però, Pandemia Globale, una produzione Netflix in 6 episodi da circa 50 minuti ciascuno, andata in onda a partire dal 22 gennaio 2020, proprio quando l'epidemia da COVID-19, sviluppatasi in Cina, andava trasformandosi in piena emergenza pandemica in ogni angolo del pianeta. Pur non trattando nello specifico del coronavirus, questa docu-serie racconta scientificamente, e senza toni allarmistici, i rischi e i drastici cambiamenti nella vita delle persone quando si verificano delle epidemie, e segue le vite di veri medici e ricercatori impegnati in prima linea nella lotta contro le influenze e le altre malattie contagiose in tutto il mondo al fine di arrestare le possibili pandemie. Dagli USA all'Africa, dal Canada all'India, vengono narrate le storie di medici, del personale sanitario e degli studiosi impegnati giorno e notte, e talvolta a rischio della vita, in una lotta contro un nemico invisibile e pericoloso. Ogni puntata è composta da varie testimonianze e interviste, di commovente e interessante attualità. Proprio per questo Pandemia Globale ha acquisito grande visibilità e successo internazionale.

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- Repertori. Bibliografia e sitografia essenziale. Filmografia.
 

Bibliografia

AA.VV., Enciclopedia del Cinema Treccani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani S.p.A., 2003

AA.VV., a cura di Gian Piero Brunetta, Storia del cinema mondiale, Torino, Einaudi, 1999

AA.VV., L'Enciclopedia del Cinema, a cura di Gianni Canova, Milano, Garzanti, (Le Garzantine"), 2003

Fernaldo Di Giammatteo, Storia del cinema, Milano, Marsilio/Feltrinelli, 1998

Gian Piero Brunetta, Guida alla Storia del Cinema Italiano (1905-2003), Torino, Einaudi, 2003

Paolo Mereghetti, Dizionario dei film 2021, Baldini & Castoldi, 2021

Laura, Luisa, Morando Morandini, Il Morandini 2020. Dizionario dei film e delle serie televisive. Con fascicolo di aggiornamento 2021, Bologna, Zanichelli, 2021

Franco Ferrini, John Ford, Il Castoro, Milano, 2005

Sergio Trasatti, Ingmar Bergman,Il Castoro, Milano, 2011

MarioVerdone, L'artefice del film, Roma, Carocci/La Nuova Italia scientifica (NIS), 1993

 

Sitografia

https://it.wikipedia.org

https://www.rottentomatoes.com

https://www.metacritic.com

https://www.imdb.com

https://www.mymovies.it

https://movieplayer.it

https://www.cinematografo.it

https://www.film.it

https://www.filmtv.it

https://www.comingsoon.it

 

Filmografia

I dieci comandamenti (1923) di Cecil B. De Mille

I dieci comandamenti (1956) di Cecil B. De Mille

Ben-Hur (1959) di William Wyler

Le crociate (2005) di Ridley Scott

Il gladiatore (2000) di Ridley Scott

Decameron (1971) di Pier Paolo Pasolini

Maraviglioso Boccaccio (2015) di Paolo e Vittorio Taviani

Navigator: un'odissea nel tempo (1988) di Vincent Ward

La peste a Firenze nel secolo XV (1919) di Otto Rippert

La maschera della morte rossa (1964) di Roger Corman

Il settimo sigillo (1957) di Ingmar Bergman

Andrei Rublev (1966) di Andrej Tarkovskij

L'armata Brancaleone (1959) di Mario Monicelli

Brancaleone alle crociate (1970) di Mario Monicelli

I promessi sposi (1941) di Mario Camerini

La peste (1992) di Luis Puenzo

Morte a Venezia (1971) di Luchino Visconti

Che mi dici di Willy? (1990)di Norman René

Philadelphia (1993) di Jonathan Demme

Forrest Gump (1994) di Robert Zemeckis

Notti selvagge (1993) di Cyril Collard

Amici per sempre(1995) di Peter Horton

Kids (1995) di Larry Clark

Trainspotting (1996) di Danny Boyle

Tutto su mia madre (1999) di Pedro Almodovar

Le fate ignoranti (2001) di Ferzan Ozpetek

All invisible children (2005) di Autori Vari

Dallas Buyers Club (2013) di Jean-Marc Vallée

Bohemian Rhapsody (2018) di Bryan Singer

L’esercito delle 12 scimmie (1995) di Terry Gilliam

Planet of the Apes - Il pianeta delle scimmie (2001) di Tim Burton

L’ultimo uomo sulla terra (1964) di Ubaldo Ragona

The Omega Man (1971) di Boris Sagal

Io sono leggenda (2007) di Francis Lawrence

The Road (2009) di John Hillcoat

28 giorni dopo (2003) di Danny Boyle

La notte dei morti viventi (1968) di George Romero

La città verrà distrutta all’alba (1973) di George Romero

Zombi (1979) di George Romero

World War Z (2013) di Marc Forster

Operazione Alpha (1978) di Bill Rebane

Doomsday (2008) di Neil Marshall

Counterblast (1948) di Paul L. Stein

Virus letale (1995) di Wolfganf Petersen

93 Days (2016) di Steve Gukas

Space Master X-7 (1958) di Edward Bernds

Marte distruggerà la Terra! (1959) di Ib Melchior

Andromeda (1971) di Robert Wise

Contagion (2011) di Steven Soderbergh

Arrowsmith (1931di John Ford

Il prigioniero dell'isola degli squali (1936) di John Ford

La luce verde (1937) di Frank Borzage

La grande pioggia (1939) di Clarence Brown

Le piogge di Ranchipur (1955) di Jean Negulesco

Il velo dipinto (1934) di Richard Boleslawski

Il settimo peccato(1957) di Ronald Neame e Vincente Minnelli

Il velo dipinto (2006) diJohn Curran

Panic in tre Streets (1955) di Elia Kazan

Balto(1995) di Simon Wells

Sicko (2007) di Michael Moore

Common Threads: Stories from the Quilt (1989) di Rob Epstein e Jeffrey Friedman

Fuori era primavera - Viaggio nell'Italia del lockdown (2020) di Gabriele Salvatores

76 giorni (2020) di Hao Wu