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NUMERO  7 - 2020
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Franco Cardini, Quell’antica festa crudele

 

 

 

Franco Cardini

Quell’antica festa crudele.

Guerra e cultura della guerra dall’età feudale alla grande rivoluzione

Firenze, Sansoni Editore, 1982

pp. 386, € 28.00

 

 

 

 

Pubblicato per la prima volta nel 1982, Quell’antica festa crudele di Franco Cardini rappresenta un valido strumento per addentrarsi nel tema che Roger Callois ha definito non come di negazione della civiltà, ma come un fenomeno che la ha accompagnata ed è cresciuto con essa1. Circoscrivendo l’indagine al periodo che va dall’età feudale alla Grande Rivoluzione, circa sette secoli, l’insigne medievista offre al lettore alcune chiavi interpretative sulle specifiche caratteristiche di ogni singola età presa in considerazione, oltre che l’analisi sociopolitica della «cultura della guerra», senza per questo tralasciare anche aspetti economici, tattico-strategici e tecnologici. L’utilizzo del termine festa per descrivere questa antica attività dell’uomo è, per ammissione dello stesso autore, riferita ai concetti espressi da Johan Huizinga a proposito di gioco e lotta. In particolare nell’analisi che Cardini dedica al Medioevo e al ruolo svolto dai tornei cui partecipavano i cavalieri, ritorna nel volume l’esempio proposto dallo stesso Huizinga con la Disfida di Barletta, in cui tredici cavalieri italiani lottarono contro tredici cavalieri francesi, rappresentando così «una sfera mentale vuoi arcaica vuoi romantico barbarica» in cui «sono raccolte insieme in un unico concetto primario di gioco, tanto la lotta cruenta quanto la competizione festiva e il combattere simulato»2. Il duello dunque, come ha brillantemente fatto intendere anche Julien Freund, costituisce la variante razionale del conflitto, sottoposto a regole e convenzioni, è il conflitto in forma, è la lotta «organisée, disciplinée et regulière»3. Partendo da tali premesse, il saggio approfondisce il vasto tema della guerra, concentrandosi sull’ideologia e sulla mentalità che l’hanno contraddistinta nei secoli: come era vissuta dagli uomini che la facevano e la subivano e come percepiva la società questa presenza peraltro consueta, eppure, in fondo, molto meno devastante di quanto saranno le guerre di un’epoca più «umanitaria» e pacifista, successivamente al periodo preso in esame.

 

Dalla guerra cortese dei cavalieri ai fanti borghesi

 

Partendo dall’età feudale, Cardini si concentra sulla figura del cavaliere e sul predominio che questa ha esercitato nella storia occidentale. Evidenziando come il passaggio dalla dinastia merovingia a quella dei Pipinidi abbia sancito la differenziazione fra armati ed inermi sulla base della redistribuzione delle terre effettuate dalla nuova dinastia, l’autoresi sofferma su un aspetto: i cavalieri diventano i guerrieri aristocratici in una società di inermi che dovevano essere difesi. Ci troviamo a confronto con un tipo di guerra che appare come lotta regolata attraverso i tratti convenzionali del gioco. È la guerra cortese che oscilla tra caccia e torneo, in cui la rivalità si orienta verso il duello che si sviluppa secondo leggi ferree4. «Quella feudale è una società demilitarizzata concepita – per quanto ciò in termini moderni possa sembrare un paradosso – per la guerra, cioè una società di inermi a capo della quale vi sono dei guerrieri» (p. 14). Ed in questo contesto la cavalleria con tutto il suo armamentario simbolico si trasforma in fraternitas ammantata della giustificazione religiosa che la chiesa dell’Alto Medioevo gli fornisce: il cavaliere diveniva un sacerdote della guerra. La guerra dei miles era trattata come sfida epica cui dedicare le famose chansons, celeberrima la Chanson de Roland. L’esaltazione della battaglia, il disprezzo per i rustici, tutto il secolo XI è stato caratterizzato dal movimento di questa aristocrazia guerriera su cui si innestò la Chiesa dei rifondatori Ildebrando da Soana (Gregorio VII) e Umberto di Silvacandida. Cardini fissa in quel periodo la codificazione dei precetti e dei limiti cui i cristiani dovevano attenersi per dichiarare una guerra legittima. I concetti di pax e tregua interdicevano così ai combattenti il coinvolgimento di aree specifiche, come mercati ed ospizi, oppure gruppi di persone o giorni stabiliti, in violazione dei quali si era espulsi dal consorzio rappresentato dal corpus christianorum (cfr. p. 26). Dietro quel pacifismo armato c’era un disegno etico-ideologico che voleva tentare di contenere la violenza, basandosi sulla difesa degli inermi e dei più deboli, così come sulla difesa della stessa cristianità. Le crociate, guerre cavalleresche per eccellenza, furono animate proprio da questo spirito, dal combattere nel nome di Cristo. «Il dato qualificante della guerra cavalleresca continuò ad essere la cortesia» (p. 27) almeno fino al Trecento, allorquando la cavalleria fu investita da una vera e propria crisi spirituale o di valori, dovuta in parte al fallimento delle crociate e in parte al disagio provocato dall’avanzata dei nuovi ceti: i mercanti e i borghesi. Anche i sovrani non mancarono di influenzare la discesa della dignità cavalleresca, attraverso un più rigido controllo degli ordini militari e degli addobbamenti. L’irruzione sulla scena dei fanti di origine borghese fece il resto. Se i cavalieri combattevano per la gloria, i bottini e per la concezione che avevano della guerra come gioco-festa, i più rozzi e sguaiati borghesi non combattevano la guerra per professione, ma solo per uccidere e vincere. E se i cavalieri vedevano un pari rango negli avversari, questa nuova forza di pedites (miles fino ad allora erano solamente i cavalieri), lungi dal vedere nel cavaliere un fratello d’arme, lo identificava in definitiva come un nemico da battere. Con l’ascesa dei nuovi ceti dirigenti, le istituzioni feudali, oltre a far via via svanire il prestigio e la funzione delle aristocrazie cavalleresche, favorì in un certo qual senso l’ascesa di una nuova figura di combattente: il mercenario. Le guerre del tempo infatti si caratterizzavano per essere guerre di manovra, di accampamento, molto lunghe e dispendiose per quei vassalli che, secondo le norme feudali, dovevano servire militarmente il loro signore ed erano costretti a rinunciare ai loro affari per il periodo dei lunghi conflitti militari. Le compagnie di ventura furono per tali ragioni utilizzate con sempre maggior frequenza, provocando la dura presa di posizione di chi, come il Machiavelli nell’opera Dell’arte della guerra, stigmatizzava l’utilizzo di truppe mercenarie per la difesa della città5. I condottieri divennero quindi i protagonisti di una stagione in cui le guerre combattute da queste compagnie si caratterizzarono per la loro lunghezza, visti anche gli interessi economici dei mercenari, legati alla lunghezza dei conflitti. Per superare le compagnie di ventura bisognerà attendere la fine della guerra dei Cent’Anni, quando Carlo V compì un primo importante passo verso la creazione di un esercito permanente, fondando quelle armate fedeli alla Corona che avrebbero caratterizzato i secoli a venire. Il periodo definito come quello dei «professionisti della guerra», che fossero cavalieri o mercenari, è stato il migliore, dato che la «guerra la fa chi la vuol fare, chi vi ha una certa propensione, chi crede in qualcuno dei suoi valori. Tutti gli altri, a cominciare dalla massa dei contadini (che all’epoca rappresentano la stragrande maggioranza della popolazione: dall’ottanta al novanta percento), ne sono fuori, non solo nel senso che non vi partecipano, ma anche che, in linea di massima, non ne subiscono le conseguenze, a meno che non abbiano la sfortuna che gli eserciti passino proprio sui loro campi»6.

 

Dal Quattrocento al secolo di ferro

 

Nell’analisi cardiniana sulla cultura della guerra nel periodo che peraltro ancora divide gli storici circa la fine del Medioevo e l’inizio dell’età moderna, un aspetto dirompente fu rappresentato dall’invenzione delle armi da fuoco. Anche se queste non segnarono la vera frattura fra le due epoche, vista la loro iniziale scarsa diffusione, conferirono però ai conflitti un nuovo significato archetipico nell’opposizione fra lancia e pistola. E in tal senso non si può d’altronde non convenire con il Bouthoul, quando afferma che «fu proprio l’entrata in scena dell’artiglieria che mise fine al feudalesimo sino ad allora dominante»7. L’approccio al conflitto cambiò completamente paradigma, trasformandolo nello strumento principale per l’egemonia continentale, conferendo in tal modo alla guerra valore autonomo rispetto alla politica. La diplomazia lasciava così spazio a scontri violenti e sanguinosi, consumati sotto il fuoco delle nuove e potenti armi da fuoco inventate in quel periodo. Nel processo di mutazione dovuto all’innovazione tecnologica e all’introduzione di strumenti per la guerra più sofisticati, il cavaliere continua sicuramente a mantenere uno status del tutto diverso e sovraordinato rispetto ai fanti e agli utilizzatori dei nuovi armamenti, gli artiglieri, che, lungi dall’essere considerati dei soldati, sono più semplicemente degli ingegneri, data la complessità di utilizzo di questi marchingegni. Sdegnosamente rifiutate dal Don Chisciotte di Cervantes come «indemoniati strumenti» e originariamente considerate come armi da villano e da fante, pertanto ripudiate dai nobili, saranno tuttavia adottate largamente dagli eserciti reali composti perlopiù di uomini reclutati e soprattutto pagati dal monarca, che li preferisce certamente alla nobiltà turbolenta che fino ad allora aveva costituito la cavalleria medievale8. Secondo Cardini l’irruzione del fante, oltre alle innovazioni di tipo tattico e militare, conferirà alla guerra alcuni aspetti inediti, derivanti dall’affermarsi dei principi democratici in alcuni paesi quali la Confederazione Elvetica e le Province Unite, dove milizie composte da popolani daranno vita ad organizzazioni militari rigide e disciplinate che soppiantarono gli eserciti medievali. La controprova di questi aspetti è fornita dal tentativo, non riuscito completamente, di Massimiliano I d’Asburgo di trasformare i Lanzichenecchi in un corpo d’élite da affiancare ai nobili. Il secolo di ferro, quello che secondo Cardini va all’incirca dalla seconda metà del Cinquecento alla seconda metà del Seicento, vede così la definitiva trasformazione della guerra in un’attività svolta a tempo pieno da eserciti costituiti a tal fine degli emergenti Stati guidati sia da monarchie di antica discendenza che da moderne monarchie costituzionali perlopiù protestanti, in cui gli armati sono accomunati da una forte connotazione religioso-ideologica, come nel caso di Cromwell e del suo New model army, in cui si delinea perfettamente la figura del soldato politico animato da un profondo afflato rivoluzionario. Nonostante l’estrazione popolare e piccolo borghese di quell’esercito, Cardini lo esamina in profondità cogliendone alcuni tratti che ne hanno fatto un esempio di organizzazione quanto a disciplina, paga alta e fedeltà alla causa. Quel secolo definito del ferro anticipa per certi versi i «conflitti ideologici e totalizzanti» dell’era a noi più contemporanea9, dato che la guerra perse le sue caratteristiche umane e, oltre ad incrudelirsi, vide anche terminare l’antico equilibrio con le altre attività dell’uomo. Un’ulteriore esempiodi esercito organizzato in maniera totalmente nazionale e fortemente connotato in senso religioso fu quello svedese, guidato da quel Gustavo Adolfo che introdusse il reclutamento tramite l’obbligatorietà del servizio militare. Il secolo di ferro – in cui, come sottolinea Cardini, i capi di Stato sono al tempo stesso generali, finanzieri e politici – sarà dominato quindi dai «signori della guerra», accompagnando l’Europa in quell’epoca che terminerà con la fine delle sanguinose guerre di religione e della guerra dei Trent’Anni.

 

Umanizzare la guerra: il bellum iustum

 

Il secolo e mezzo che trascorse a partire dai trattati di Westfalia e dei Pirenei fu un tempo relativamente pacifico e ordinato, in cui le guerre, che comunque continuarono, furono caratterizzate dal tentativo di risparmiare uomini e mezzi, oltreché di evitare battaglie, permettendo il ritorno in auge del paragone medievale della guerra considerata come una partita a scacchi, pur senza la funzione etico-allegorica di quel tempo. La guerra quindi, pur continuando a servire gli Stati, avrebbe visto la progressiva scomparsa dei «signori della guerra», per tornare ad una più rigida separazione dei ruoli fra sovrani e capi militari comunque sottoposti all’autorità regia. Iniziò a diffondersi, seppur in maniera differente, la coscrizione basata su due principi quale il diritto di reclutare in maniera coercitiva oziosi e disoccupati e la riattivazione del sempre utile sistema di leva delle milizie territoriali per difendere le città. Così facendo la coscrizione, secondo Cardini, contribuì all’umanizzazione delle guerre, visto che, a differenza di altri soggetti, spesso disadattati, coinvolti negli eventi bellici, i coscritti avevano un maggiore attaccamento alla vita derivante dagli affetti familiari e dagli interessi cui badare una volta terminate le ostilità. L’avvento dei Lumi e di una diffusa fiducia nel fatto che il mondo si avviasse verso la ragione e la pace fecero invertire nuovamente la tendenza dalla coscrizione alle truppe mercenarie straniere, fino allo scoppio delle rivoluzioni americana e francese, che interruppero queste speranze. Come ha ricordato De Benoist, i Trattati di Westfalia iniziarono a regolamentare il diritto di guerra precisando quali erano le condizioni in cui si poteva fare una guerra e come la si doveva condurre10. L’umanizzazione della guerra coincise con il concetto di bellum iustum,teorizzato per primo da Aurelio Agostino e confermato poi dalla Patristica e dalla Scolastica, diverso dal bellum sacrum utilizzato perlopiù retoricamente in riferimento alle crociate, che ha attraversato i secoli compresi fra l’XI e il XVIII. Il bellum iustum così concepito fu soggetto a rielaborazione sulla base della definizione di guerra legittima, intendendo con essa quella ingaggiata solamente fra stati sovrani e che in qualche modo perfezionava lo jus publicum europeo che dominerà lo scenario internazionale fino al termine del XVIII secolo. Le implicazioni non erano di poco conto, in quanto con tale formalizzazione giuridica aveva luogo una limitazione della guerra e la realizzazione di due obiettivi sostanziali: la trasformazione dell’avversario da nemico (inimicus) a semplice antagonista (hostis) e la separazione definitiva dello status giuridico tra belligeranti e civili coinvolti nel conflitto11 conferivano alla guerra un ruolo eminentemente politico, inteso da Carl Schmitt come realizzazione estrema dell’ostilità12.

 

Condurre il lettore attraverso sette secoli di storia, utilizzando la guerra come chiave di lettura, è stato dunque lo sforzo apprezzabilissimo dell’autore che, rifuggendo da atteggiamenti moralistici o di aprioristica condanna, ne ha voluto sottolineare invece il ruolo di primissimo piano nella storia dell’uomo. Insieme alle accurate descrizioni delle armi, delle tecniche e dell’evoluzione del concetto di soldato, Cardini ha evidenziato anche le trasformazioni di quella che era considerata una festa-gioco, accompagnandola con la disanima degli eventi storici e soprattutto politici che hanno interessato l’Europa fino all’affermazione degli stati nazionali. La ricerca, soffermandosi poi sia sugli elementi giuridici e sociopolitici che su quelli letterari e artistici della cultura della guerra, ha inteso marcare le profonde differenze fra le guerre non ideologiche e pressoché incruente dell’epoca feudale, in cui quasi non vi erano vittime – in tal senso è emblematico il richiamo alla battaglia di Anghiari, in cui su undicimila uomini in campo fra cavalieri e fanti vi sarebbero stati una sessantina di morti –, con le guerre scatenatesi dopo la Rivoluzione francese, in cui venne meno il rispetto del nemico e dei civili e cessò di esistere lo jus publicum europeo, con la conseguente impossibilità di definire il nemico (hostis), nonché di limitare la guerra stessa, trasformandola in una lotta di annientamento estesa purtroppo anche ai non belligeranti. Questi cambiamenti segnarono il ritorno del concetto di guerra giusta in un’altra accezione e cioè quella combattuta in nome dell’umanità, con «il terribile significato che al nemico non viene più riconosciuta la qualità di uomo, sicché la guerra diventa particolarmente disumana»13. Con l’analisi dei parametri mentali degli uomini di guerra nel lungo periodo preso in esame, l’autore riconduce al significato più attinente alcuni termini quali guerrieri, soldati o combattenti mediante lo schema utilizzato dal Dumézil per lo studio delle popolazioni indoeuropee, che suddivideva la società in oratores,laboratores e bellatores,dimostrando, a proposito di questi ultimi, come la mentalità cavalleresca resista pressoché inalterata fino al Settecento. Le conclusioni cui giunge Franco Cardiniescludono realisticamente che le guerre scompaiano dall’orizzonte della storia dell’umanità, auspicando pur tuttavia che gli eventuali e scongiurabili conflitti, che potrebbero verificarsi, siano almeno caratterizzati da quell’etica cavalleresca che in passato li ha regolati e limitati.

 

Note

1 R. Callois,La vertigine della guerra, Brescia, Casa Marrani, 2014, p. 8.

2 J. Huizinga,Homo Ludens,Torino, Einaudi, 2002, p. 114.

3 J. Freund, L’essence du politique, Paris, Sirey, 1983, p. 540.

4 R. Callois, La vertigine della guerra, cit.,p. 18.

5 N. Machiavelli, Dell’arte della guerra, in Tutte le Opere, a cura di M. Martelli, Firenze, Sansoni, 1971, p. 24.

6 M. Fini, Elogio della guerra, Milano, Arnoldo Mondadori, 1989, p. 46.

7 G. Bouthoul, Le guerre, Milano, Longanesi, 1982, p. 153.

8 R. Callois, La vertigine della guerra, cit.,p. 49.

9 M. Fini, Elogio della guerra, cit., p. 38.

10 A. De Benoist, Ripensare la guerra. Dallo scontro cavalleresco allo sterminio di massa,trad. it. di M. Tarchi, Milano, Terziaria, 1999, p. 17.

11 E. Di Rienzo, Il diritto alle armi. Guerra e politica nell’Europa moderna, Milano, Franco Angeli, 2005, p. 21.

12 C. Schmitt, Il concetto del politico, in Stato, Grande spazio, Nomos, Milano, Adelphi, 2015, p. 42.

13 Ivi, p. 57.