AZIONI PARALLELE 
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Azioni Parallele

NUMERO  7 - 2020
Azioni Parallele
 
Rivista on line a periodicità annuale, ha ripreso con altre modalità la precedente ultradecennale esperienza di Kainós.
La direzione di Azioni Parallele dal 2014 al 2020 era composta da
Gabriella Baptist,
Giuseppe D'Acunto,
Aldo Meccariello
e Andrea Bonavoglia.
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Mounier
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Modern/Postmodern
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Solitudine/Moltitudine
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di A. Meccariello e A. Infranca
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L'eone della violenza
di M. Piermarini
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La guerra secondo Francisco Goya
di A. Bonavoglia
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Patrizia Salvetti, Oltremare

 

 

 

Patrizia Salvetti

Oltremare.

Memorie femminili tra antiche radici e nuove identità

 

 

 

Roma, Fattore Umano Edizioni, 2016
(Voci dal mondo)

pp. 219, ISBN  978-88-907228-9-9, € 15,00

 

 

 

 

 

 

 

Il libro riporta la storia di tre donne italiane emigrate in Argentina. Sono storie “normali” di tre donne “normali”, come dichiara l’autrice (cfr. pp. 8 e 30). In realtà più che normali si tratta di storie comuni, comuni a qualche milione di italiane che sono state cacciate dal nostro paese e hanno dovuto cercare un altro paese dove realizzare il proprio progetto di vita. Sono storie di vita quotidiana. Naturalmente le tre donne non hanno compiuto gesti o vissuto esperienze eccezionali, ma se si pensa a che cosa deve aver rappresentato uno sradicamento così radicale dall’Italia – nella fattispecie Treviso e Mola di Bari – a Buenos Aires, allora l’eccezionalità specifica appare in tutta la sua ampiezza. Un altro aspetto della “normalità” delle tre storie è che sono strettamente private, ovviamente nella misura in cui «un privato non è mai solo privato» (p. 9). Infatti le tre donne in Argentina vivono una vita strettamente privata, “normale”, mentre in Italia una di loro aveva partecipato, seppure adolescente, alla Resistenza. L’autrice, che le ha intervistate, ha notato che nessuna di loro ha fatto accenno alla dittatura militare argentina (1976-’83) e alla conseguente guerra sucia (guerra sporca) con migliaia di desaparecidos. In realtà il silenzio delle tre donne è emblematico di una estraneità alla vicenda, che era proprio l’obiettivo che la dittatura cercava. Un tale silenzio sul massacro generalizzato era la forma massima di consenso che i militari argentini sapevano di potere ottenere (cfr. p. 36). Sarebbe stato impossibile un consenso dichiarato su una vicenda umanamente incomunicabile, quindi un silenzio su quanto stava accadendo nel silenzio delle galere argentine era il massimo che si potesse ottenere. Tale silenzio era consenso. 

Un tal genere di libro pone una questione: la rappresentatività del campione scelto – tre donne – rispetto all’universo di appartenenza – i circa due milioni e mezzo di italiani che emigrano in Argentina (cfr. p. 25). Dentro questa gigantesca massa di emigrati, il più alto numero di emigrati italiani verso un singolo paese, le tre donne intervistate non sono affatto rappresentative (cfr. p. 34). Sono, come scrivevo sopra, tre storie “normali” ed eccezionali allo stesso tempo. Fra l’altro il genere di raccolta di dati, scelta da Salvetti, è decisamente poco rappresentativo, come peraltro riconosce la stessa autrice: «Il ruolo dell’intervistatore non è mai neutro» (p. 28); a questa mancanza di neutralità dell’intervistatore va aggiunta la narrazione della propria soggettività da parte dell’intervistata. L’intervista è, quindi, il punto di incontro tra due soggettività. Come è naturale che avvenga, soprattutto tra donne, tra le due soggettività nasce una confidenza, una fiducia, un rapporto quasi affettivo che rende più scorrevole l’auto-narrazione dell’intervistata e la ricerca dell’interiorità dell’altra da parte dell’intervistatrice.

Al di là della rappresentatività, le tre storie sono simili riguardo alla scelta, non disperata, di emigrare, non c’è una sofferenza insuperabile che le spinge a lasciare l’Italia. Le più anziane (Cea e Flora) vogliono ricongiungersi con il marito, mentre la più piccola (Antonia) emigra a quattro anni, quindi senza la coscienza della radicalità del suo gesto, anche se una vicina di casa, quando tornerà la prima volta a Mola di Bari, le narra che lei, seppure una bambina, provò a lanciarsi dal treno, al momento della partenza. Se c’erano state sofferenze, quelle erano risalenti al periodo bellico e all’occupazione nazista. Non c’è dubbio che la separazione dalla famiglia rimasta in Italia crea dolore e solitudine – Cea piangerà per un anno intero –, ma la rete di solidarietà tra immigrati italiani in Argentina presto le integrerà nella nuova realtà sociale. Se le due più anziane non lavoreranno, sarà solo per decisione del marito. I rapporti con le famiglie rimaste in Italia saranno tenuti secondo i mezzi di comunicazione delle varie epoche, cioè lettere, telefono, e-mail. Il rapporto con l’Italia è tenuto con la lettura di giornali – a Buenos Aires si stampa quotidianamente il “Corriere della Sera” –, con libri, programmi televisivi – Rai International –, film; insomma tutto ciò che la modernità offre come mass media.

Questo aspetto è molto importante, perché è il sintomo di un fenomeno più radicale: «La famiglia tradizionale italiana in una grande città come Buenos Aires infatti si “modernizza”, diventa più tollerante e comprensiva nei confronti di situazioni irregolari e di scelte ed esperienze che loro stesse probabilmente non avrebbero accettato prima» (p. 42). Seppure le più anziane rimangano relegate al ruolo di casalinghe, tutte e tre si adeguano facilmente al ritmo moderno dell’Argentina, finendo per sentirsi argentine, per considerare “provinciale” l’ambiente italiano di origine, anche contemporaneo. Infatti con piacere sono tornate varie volte in Italia, ma non riuscirebbero più a vivere in città di provincia come Treviso o Mola di Bari. Semmai trovano più confacente alla loro nuova vita una città come Roma, una città che, seppure con molte difficoltà, tenta di essere cosmopolita e che ha sicuramente un passato cosmopolita. Sostanzialmente non sono più italiane, ma si sentono legate all’Italia, di cui usano ancora la lingua, in fondo la vita trascorsa in Argentina le ha rese estranee ad un passato ormai trascorso. Tuttavia la radice italiane impedisce loro di sentirsi totalmente argentine, almeno le più anziane, per cui rimangono sospese, vivono due realtà culturali. Forse per questo motivo parlano poco dei figli, perché questi sono completamente argentinizzati, parlano spagnolo, sentono l’italianità come un fattore lontano. Ancor più forte questo senso di distacco si avverte nei confronti dei nipoti.

Le tre donne rimangono, quindi, in una situazione di ambivalenza, esse vivono un’identità originaria nell’interiorità della propria casa, coltivano i ricordi legati ancora a un paese lontano, ad abitudini, riti, come la festa del Santo del paese, ancora commemorato a Buenos Aires, ma ormai come parte soltanto della memoria. La festa del Santo è anche il segno della multietnicità dell’Argentina, del suo essere più progressista di quello che è rimasta, invece, l’Italia. Questo aspetto progressista fa aumentare l’attaccamento all’Argentina. La loro identità si manifesta soprattutto nella cucina, non apprezzano molto la cucina argentina, le preferiscono la cucina italiana, che ritualmente propongono in famiglia, soprattutto nel pranzo domenicale.

Il problema dell’identità italiana, l’italianità, che rimane presente nella vita quotidiana delle tre donne, ci pone un’altra fondamentale questione dell’emigrazione italiana soprattutto in Argentina: la civilizzazione dell’Argentina. Come è noto, l’emigrazione italiana in Argentina fu di massa e plasmò in forma radicale la cultura e la società civile argentina, più che in qualsiasi altro paese straniero, più che negli Stati Uniti o in Brasile, dove gli italiani si integrarono in società civili multietniche e multirazziali e non furono mai la maggioranza della popolazione di quei paesi. In Argentina, invece, l’emigrazione italiana compose la maggioranza della popolazione argentina e finì per mettere in atto un processo di civilizzazione. Gli studi dedicati all’emigrazione italiana verso l’Argentina sono numericamente meno diffusi rispetto a quelli dedicati all’emigrazione italiana verso gli Stati Uniti. Senza dubbio questa scelta dei nostri intellettuali risente dell’egemonia culturale che gli Stati Uniti hanno imposto sulla cultura italiana, nonostante che il numero degli immigrati italiani in Argentina sia il secondo al mondo: circa la metà della popolazione argentina è di origine italiana, quindi si può parlare di 20 milioni di oriundi italiani, mentre gli Stati Uniti sono i terzi per numero di oriundi, 17 milioni di immigrati, al Brasile spetta, invece, il primato: 27 milioni. La scelta della Salvetti di dedicare attenzione a tre donne italiane emigrate in Argentina, vista la concentrazione degli studi verso l’emigrazione negli Stati Uniti, è ancor più meritevole di interesse.

 

Due delle tre donne rimangono casalinghe a causa della loro cultura originaria italiana, in particolare quella dei mariti, la terza si inserisce senza problemi nel mondo del lavoro e nella società civile argentina. Apparirebbe, a prima vista, che solo questa vive compiutamente un processo di integrazione, da un lato, e di partecipazione alla civilizzazione dell’Argentina, dall’altro. In realtà anche le due casalinghe partecipano a questo processo di civilizzazione, seppure indirettamente, attraverso la famiglia. Si tenga anche conto che queste tre donne sono parte di quei milioni di italiani che il sistema nazionale produttivo di ricchezza ha espulso dal paese in cui sono nate, l’Italia. Queste tre donne sono gli indesiderati, gli scarti della società italiana, coloro ai quali l’Italia non ha offerto la possibilità di realizzare un progetto di vita.

Se si tiene conto del fatto che i mariti impongono alle due donne più anziane di non lavorare, allora è chiaro che l’elemento maschile dell’emigrazione italiana è stato tradizionalmente quello più conservatore. Le donne, invece, una volta radicatesi nella nuova realtà, hanno rovesciato rapidamente i tradizionali ruoli e si sono trasformate in soggetti più innovatori, approfittando anche delle grandi opportunità che città gigantesche e moderne, le offrivano. In fondo le tre donne sono riuscite a integrarsi in Argentina, il paese le ha accolto, ha offerto la possibilità di realizzare il loro progetto di vita. L’autrice osserva: «È difficile farsi raccontare nelle loro storie episodi di discriminazione sociale o economica, pur sicuramente subita, un fardello di ricordi che evidentemente ancora scotta» (p. 71). Su questo punto va aggiunto che l’Argentina, come il Brasile e l’Uruguay, rappresenta il caso di migliore integrazione dell’immigrazione italiana in un paese straniero, infatti a Buenos Aires non esistono quartieri abitati esclusivamente da italiani. Le difficoltà non vengono raccontate perché sono state definitivamente superate dall’integrazione, appartengono a un passato ormai trascorso. Insomma la scelta di emigrare è stata vincente, la normalità delle loro vite lo dimostra, hanno fatto bene a lasciare un paese che offriva scarse prospettive di un’esistenza migliore; possono coltivare la nostalgia del ricordo degli affetti personali, dei loro cari rimasti in Italia che hanno avuto un’esistenza di cui loro non facevano più parte. L’essere uscite dalla vita degli altri dà il senso della struggente malinconia che l’intervistatrice avverte e registra nelle conversazioni. D’altronde l’Argentina è il paese della malinconia e la malinconia è una forma di nostalgia, è la nostalgia verso esseri umani che mancano nella propria esistenza, non è la saudade dei brasiliani a cui manca la natura, l’ambiente lussureggiante del Brasile. Si pensi al tango argentino e al suo senso del desarraigo (sradicamento, ma anche abbandono) che è uno dei suoi aspetti fondamentali più tipici.

Anche l’Italia, intanto, è cambiata, forse anche grazie al contributo degli italiani che sono emigrati. I giovani italiani sono profondamente diversi da come erano loro, ma rimangono simili nella necessità di emigrare per realizzare un progetto di vita. Le loro storie sono rappresentative di quanto stanno vivendo i giovani italiani di oggi.