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Azioni Parallele

NUMERO  7 - 2020
Azioni Parallele
 
Rivista on line a periodicità annuale, ha ripreso con altre modalità la precedente ultradecennale esperienza di Kainós.
La direzione di Azioni Parallele dal 2014 al 2020 era composta da
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di A. Bonavoglia
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Dimenticare Palermo

 

   

Si può dimenticare Palermo? La domanda appare sicuramente assurda a chi non è palermitano, e anche a un siciliano che non è mai vissuto a Palermo risulta eccessiva. Una cosa è certa: l’autrice di quell’incredibile libro che è Dimenticare Palermo (tr. it. L. Magrini, Milano, Bompiani, 1989, II ed., pp. 366), cioè Edmonde Charles-Roux, non può dimenticare Palermo, non perché la ricordi in forma indelebile, ma perché non l’hai mai conosciuta, eppure ha scritto forse il libro più evocativo su Palermo, ha trasformato la bellissima e struggente capitale della Sicilia in un luogo della memoria, in una sorta di struttura dell’anima dei personaggi del suo romanzo, che vi sono vissuti. Come abbia fatto a narrare una città come una struttura dell’anima, pur non essendoci mai stata, è il segreto dell’arte di Edmonde Charles-Roux. Ma appunto l’ha narrata, perché non poteva descriverla, non avendola mai vista, l’ha in pratica ricreata, sapendone cogliere quel carattere decadente, struggente, ma invasivo dell’anima, quel carattere che riempie lo spirito e non solo gli occhi, perché a Palermo gli occhi, e non solo gli occhi, ma tutti i sensi, sono riempiti di una spiritualità eccessiva. Ecco il senso eccessivo di quella domanda: si può dimenticare Palermo? Se vi si è stati, è difficile dimenticarla; se non vi si è stati è un’arte inventarla. Ma inventarla significa cercarla, cercarla dentro se stessi.     

 Come è noto da quel romanzo, nel 1990, Francesco Rosi trasse un film, a 24 anni dalla pubblicazione del libro. Da quel grande regista che è, ne ha sconvolto la trama, ha fatto sparire l’io narrante del romanzo, ha dato più rilevanza a uno dei protagonisti, Carmine Bonavia, ma ha saputo narrare Palermo con le immagini del film, immagini spesso commoventi, perché riprendevano monumenti importanti della città dal basso, quindi stagliandone alcuni dettagli più elevati sul cielo della città, uno dei cieli più belli del mondo, perché di un azzurro, appunto, celestiale. Una delle riprese, poi, raggiunge il vertice della perfezione filmica: una lunga ripresa su un pavimento a scacchi, poi un balcone, una spiaggia punteggiata di sassi, e infine il mare, dello stesso colore del cielo, cielo e mare si confondono nello stesso celeste, sono la stessa cosa, un colore.

Il film riprende praticamente la terza parte del romanzo, vi aggiunge elementi non presenti nella narrazione, come la legalizzazione della droga avanzata da Carmine Bonavia nella sua campagna elettorale, e personaggi come il principe che vive rinchiuso nell’Hotel delle Palme di Palermo, interpretato superbamente da Vittorio Gassman. In verità questo personaggio è l’unico personaggio effettivamente esistito. Si tratta del barone Giuseppe Di Stefano, che per aver compiuto uno sgarro all’Onorata Società, fu condannato all’esilio nel ricco albergo palermitano e non ne uscì, se non con i piedi davanti, cioè in una bara. Visse per più di cinquant’anni nell’Hotel più lussuoso di Palermo e se ne allontanò solo in incognito e molto raramente. Nel film assume una funzione speciale di memoria corporea dell’esistenza della mafia che nel romanzo è appena citata, visto che se ne nota la terribile esistenza soltanto indirettamente al momento dell’uccisione di Carmine Bonavia, che negli Stati Uniti aveva sempre cercato di evitarla e, appunto, per questa misura di prudenza sarà ucciso a Palermo.

Nel romanzo, invece, i colori e le immagini non si presentano così imperiosamente, anzi ad un lettore attento non sfugge il fatto che Palermo non è mai descritta precisamente come avrebbe fatto chiunque l’avesse conosciuta effettivamente. Palermo è uno stato d’animo, la dimensione psicologica della memoria, di una memoria che si vorrebbe dimenticare, ma che rimane radicata nell’anima come le cozze rimanevano aggrappate agli scogli, come ricorda una felice immagine di Verga a proposito dei siciliani. Nel film si guarda a Palermo con meraviglia e stupore per la sua stranezza, cioè con gli occhi del personaggio della moglie di Carmine Bonavia – Carrie nel film, Babs nel romanzo. Nel romanzo soltanto i personaggi siciliani o di origine siciliana sono ovviamente portatori di questa memoria scomoda, mentre i personaggi statunitensi sono portatori di una cultura dell’effimero e della superficialità, della banalità contro la verità: «Succede spesso che la banalità espressa a voce alta finisca col soffocare così la verità che si tiene segreta» (p. 15). Per essere vera questa situazione richiede che chi esprime la banalità a voce alta sia un essere umano effimero e superficiale, oppure un uomo di potere, cioè deve essere agli estremi della scala sociale, chi è in mezzo è costretto invece a sostenere il potere o a esserne schiacciato, come sarà il caso di Carmine Bonavia, o ad aiutare chi è in basso, come farà Gianna Meri e, soprattutto, suo padre, medico di tutti, ricchi e poveri, che morirà in guerra e non se ne ritroverà più il corpo, stesso destino del fidanzato di Gianna, Antonio: di loro sopravvive soltanto il ricordo di Gianna. Logica conseguenza è che «la verità non è una, muta secondo la bocca che la esprime» (p. 32). I personaggi statunitensi, non hanno queste ricchezze di dimensioni, sono monodimensionali, sono interamente tesi al successo e alla ricchezza – «È il dollaro la vostra cancrena» (p. 101) dirà uno dei personaggi principali del romanzo rivolto agli statunitensi. Il romanzo ha, quindi, uno spessore antropologico molto forte, ma è anche altrettanto psicologicamente forte.

In alcune parti del romanzo c’è un Io narrante, Gianna Meri – che nel film è interpretata da Carolina Rosi, la figlia del regista, a cui cambiano il cognome in Magnardi –, combattuta tra la memoria e la dimenticanza: «Vivevo in agguato delle sorprese che avrebbero saputo rendere infedele la mia memoria» (p. 14). Questa memoria è ingombrante da un lato, ma struggente da un altro, è difficile dimenticarla, piacevole conservarla. Sono gli elementi di una psicologia degli opposti, che spesso si ritrova nell’animo dei siciliani, non perché siciliani, ma perché esclusi o dominati da un potere assoluto che è invisibile, ma potentissimo, che vive intorno a loro e dentro di loro. Carmine Bonavia ne farà mortale esperienza personale, come l’aveva fatta il barone Di Stefano, che accettò la condanna all’esilio in patria a cui Cosa Nostra lo aveva sottoposto. In un mondo – perché la Sicilia è un mondo – così dominato dal potere, l’unica certezza che rimane è quell’immensa menzogna che è la vita (cfr. p. 153), constata il barone di D., altro personaggio del romanzo, a cui è sottratta la moglie e la gioia della vita matrimoniale, nonché la passione per la musica, da Enrico Caruso, il famoso tenore. La storia di questa conquista sentimentale è inventata, l’unico dato certo è il fallimento da tenore di Caruso nella natia Napoli, di cui si narra rapidamente nel romanzo. Altro fallimento da tenore di Caruso, di cui si parla fugacemente nel romanzo, fu Trapani, e chi scrive si ricorda di quanto abbia ascoltato questa narrazione, nella propria infanzia trapanese, come una sorta di mito, un’altra forma di memoria collettiva di una disgrazia, di un incidente professionale.

Rispetto ai personaggi statunitensi, però, nei personaggi siciliani c’è una punta di orgoglio, un riconoscimento di superiorità, atteggiamento tipico di chi autocostruisce psicologicamente una situazione di superiorità a partire dalla propria inferiorità, è una forma di autodifesa della propria dignità, perché non riesce ad uscire da questo stato di minorità, per dirla alla Kant del Che cos’è l’illuminismo. Questa situazione psicologicamente è palese soprattutto in Gianna Meri, l’Io narrante siciliano, quando, riflettendo sulla propria formazione educativa in convento e su quella della sua amica Babs, osserva: «Eravamo libere, sì, lo confermo, mille volte più libere tra i nostri muri ruinanti, sotto le nostre coltri di divieti, che tutte le Babs d’America, ossessionate di riuscire, oppresse da insegnamenti ricevuti non come un arricchimento, ma come mezzo per far fuori l’asso: l’uomo» (p. 32), il maschio da sposare per avere successo sociale e scalare la gerarchia della società statunitense. Gianna sa che non ha fatto parte di una teleologia sociale preordinata e preesistente, non è stata una portatrice di valori estranianti, semmai di oppressione, ma nessuno le impediva di vivere liberamente entro l’oppressione, se veniva accettata. È la libertà che decantava la Alliata a proposito dell’harem islamico, è la riconoscenza verso il padrone che non è perfido, che rispetta i limiti del proprio dominio, è la libertà delle vittime conviventi della mafia.

Nella citazione c’è un accenno allo spazio, “i muri ruinanti”, e proprio sullo spazio ci sono alcune interessanti osservazioni sulla diversa concezione dello spazio urbano e architettonico tra Sicilia e Stati Uniti, tra uno spazio carico di storia e, quindi, di memoria e uno spazio privo di questa dimensione temporale. A Palermo si puntella, cercando di conservare, tutte le vestigia del passato, fosse anche quello con minor valore artistico e architettonico, in modo che il passato sia sempre attuale, e si ricordi sempre che in quello spazio/tempo vigono leggi eterne e immodificabili; mentre a New York si distrugge, in modo che non rimanga nulla del passato, perché si possa ricostruire continuamente il presente, perché il presente sia sempre attuale, e si sia consapevoli che tutto cambia velocemente, che nessuna legge è eterna e immodificabile. Anche chi fugge da quel mondo eterno, come Alfio, il padre di Carmine Bonavia, o il barone di D., o la stessa Gianna Meri, continuano a vivere con la memoria dentro quello spazio/tempo, perché quella memoria è una forma di difesa rispetto al presente estraneo dentro al quale si vive: «Considerare il presente solo il tempo necessario per spogliarsene, evitare il passato prossimo, aggirare l’ieri, dimenticarlo, sottrarsi alle sollecitazioni della pena, affondare sempre più lontano nel passato, incontrare il vuoto, il buco spalancato, l’oblio, credersi perduta e ritrovare come una dimora segreta, il paesaggio dell’infanzia» (p. 27). Qui il ricordo è una riserva di sicurezza, è l’infanzia trasformata in una dimensione temporale mitica in cui viveva incontrastata la serenità.

In conclusione i personaggi siciliani vivono una vita bidimensionale, vivono nella vita quotidiana, o negli Stati Uniti, o in Sicilia, in mezzo agli altri, ma per loro è una vita estraniata; la vita autentica è dentro di loro non in mezzo agli altri o con gli altri, è la vita che hanno vissuto, la vita passata, che rivivono continuamente con la memoria. È una condizione psicologica che permette di vivere in mezzo alle difficoltà e non è una soluzione a una vita estraniata, è scambiata con la stessa condizione umana, come se non si potesse vivere altrimenti. C’è un forte senso di abisso interiore, alla Kierkegaard, perché si vive continuamente in confronto con l’estremo assoluto dell’essere umano, la morte. Il senso della morte è fortissimo nei personaggi siciliani del romanzo, anzi sono soltanto loro a morire; possono anche vivere, ma sono morti dentro, come il barone di D., che, tradito dalla moglie, si sceglie un esilio interno, si richiude nel suo castello di Solánto, e ne esce soltanto alla nascita del nipote, Antonio, il quale morirà in guerra, quindi il barone soffrirà un altro esilio, questa volta a New York. I siciliani vivono perennemente nella condizione di vittime, in attesa di qualche evento mortifero e definitivo e hanno adeguato la loro psicologia a questo modo di vivere. La conseguenza più forte è la totale incomprensione della psicologia monodimensionale dei personaggi statunitensi, che invece vivono sulla superficie della vita, scivolano facilmente da una situazione all’altra, non sentono il peso della vita, perché non hanno passato, né tradizioni, né valori ponderosi, sono semplici, banali, piatti.

Questa situazione psicologica ha anche un corrispettivo nella lingua parlata dai siciliani, che usano il passato remoto e non il passato prossimo, come spesso avviene nell’italiano parlato, che imita in ciò l’inglese degli Stati Uniti. E poi, per chi non lo sappia, rifletta sul fatto che in siciliano sono assenti i verbi che si formano dall’infinito, quindi manca il futuro, espresso da un eterno presente (“tra 30 anni moro”, in italiano: “tra 30 anni morirò”), o ancor peggio il condizionale, espresso dal congiuntivo infinito (“su sapessi u facissi”, in italiano: “se lo sapessi, lo farei”). Quindi ogni siciliano, se pensa nella propria lingua nativa, non ha futuro e non ha alcuna condizione, è totalmente libero, niente lo costringe, anche se vive in una condizione di costrizione.

Chiudo queste note da lettore con un augurio: Dimenticare Palermo è un romanzo talmente bello che non si vede l’ora di dimenticarlo, per poterlo rileggere di nuovo.