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Azioni Parallele

NUMERO  7 - 2020
Azioni Parallele
 
Rivista on line a periodicità annuale, ha ripreso con altre modalità la precedente ultradecennale esperienza di Kainós.
La direzione di Azioni Parallele dal 2014 al 2020 era composta da
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Solitudine

 

Estratto da Solitudine
Utilità e danno per la vita.

 

Tanti sono i volti della solitudine, ma essenzialmente due sono quelli in cui li possiamo raggruppare: c’è chi subisce la solitudine e c’è chi ne va in cerca. Evidentemente non deve trattarsi della stessa cosa.

Ciò che nelle nostre società rende ben radicata la solitudine è il nesso inscindibile che essa intrattiene con l’individualismo moderno.

L’esigenza di contrastare la pandemia di Coronavirus ci ha imposto lunghi periodi di isolamento durante i quali all’individuo in presenza ha fatto seguito l’individuo in remoto. L’epidemia virale è venuta ad innestarsi in una epidemia sociale già in corso che vedeva il senso di solitudine diffondersi sempre più nelle nostre società.

Ma la solitudine non è solo una modalità del sentire, essa anzi rappresenta il tratto caratteristico della condizione umana odierna.  

 

La solitudine cosmica

«Quando considero la breve durata della mia vita, assorbita nell'eternità che la precede e la segue, il piccolo spazio che riempio e che vedo, inabissato nell'infinita immensità degli spazi che ignoro e che mi ignorano, io mi spavento e mi stupisco di vedermi qui piuttosto che là, perché non vi è motivo perché qui piuttosto che là, perché ora piuttosto che allora. Chi mi ci ha messo? Per ordine e per opera di chi mi è stato destinato questo luogo e questo tempo?». 1

Pascal ha dato voce ad un nuovo sentimento dell’universo, conseguente alla perdita della centralità umana prodottasi con la svolta copernicana. Un tempo fonte di tutte le certezze, modello di regolarità e perfezione, dalla rivoluzione astronomica in poi il cielo è divenuto il luogo di tutti gli enigmi, troppo smisurato per poterci stare, per sentirvisi a proprio agio. Dall’universo chiuso si è passati all’universo infinito. Troppo è il divario tra il minuscolo spazio che possiamo occupare e quello immenso in cui ci troviamo. Nell’universo infinito non sappiamo dove siamo, cosa ci facciamo. Nel tempo infinito la nostra presenza si riduce ad una esistenza umbratile, destinata ben presto a sparire.

L’ignoto ci accoglie e ci avvolge da tutte le parti, e non possiamo sfuggire allo sgomento che esso ci procura. «Vedo da ogni parte solo infinità che mi racchiudono come un atomo e come un’ombra che dura solo un istante senza ritorno»,2 continua ancora Pascal. Tutto è diventato problematico, ci sfugge il senso di questo nuovo disordine delle cose. E conclude: «Il silenzio eterno di questi spazi infiniti mi spaventa»,3 dando voce in questo modo al senso di smarrimento da cui siamo presi di fronte all’immensità dell’universo. Davanti alla voragine cosmica che ci si spalanca sotto i piedi, ci coglie un brivido di terrore. Ha scritto Cioran:

«La vera solitudine ci fa sentire completamente isolati tra cielo e terra. In questo assoluto isolamento, un’intuizione agghiacciante di lucidità ci rivela tutto il dramma della finitudine dell’uomo davanti all’infinito e al nulla del mondo».
4

Tutte le ragioni sono venute meno, non sappiamo più a chi o a che cosa dobbiamo la nostra presenza nel tempo infinitesimo che ci è dato. Non solo ignoriamo che cosa ancora ci possa essere al di là di questo angolino di mondo in cui siamo capitati, ma il mondo stesso ignora noi, la nostra presenza.

Lo stesso sentimento risuona nel Canto notturno di Leopardi:

A che tante facelle?
che fa l’aria infinita, e quel profondo
infinito seren? che vuol dir questa
solitudine immensa? ed io che sono?

Solitudine cosmica, questa di Leopardi, che si ritrova anche nel Dialogo della natura e di un islandese, dove si prospetta la fine dell’umanità, dei viventi, dell’universo.

Un tempo sembrava che tutto fosse fatto per noi, oggi ci troviamo a fare i conti con un mondo che ci ignora, dove ci sentiamo estranei. Questo non è un mondo per umani. Forse c’è Qualcuno a cui si deve tutto questo, che potrebbe dirci le ragioni di tutto questo, ma lo ignoriamo. La presenza divina si è fatta problematica. Il cielo degli scienziati non lo prevede. Perciò, come noi ignoriamo chi o che cosa sta a capo di tutto questo, così anche siamo ignorati da chi ha voluto tutto questo, ammesso che ci sia Qualcuno che l’abbia voluto. Ma se questi governa ancora il mondo non lo sappiamo, perché anche Lui non occupa più il proscenio e si è fatto introvabile, absconditus: Dio ha smesso di rivelarsi nell’universo infinito in cui, noi, la sua creatura, siamo precipitati. La salvezza diviene dubbia, si riduce ad una scommessa. E noi siamo rimasti soli, terribilmente soli, nella solitudine degli spazi siderali che ci sgomenta.

Capita che qualcuno si senta solo nel mondo. Ma la solitudine non è una evenienza casuale, che può esserci come non esserci. Noi siamo costitutivamente caratterizzati dal fatto di essere soli, qui su questa terra e fuori di essa. L’uomo in quanto tale è solo nell’universo, il genere umano in quanto tale si sente abbandonato in sé stesso. E questo non nel senso banale, se ci possa essere un altro pianeta, dove si trovi un equivalente di quello terrestre. Anche se ci fosse un altro pianeta abitato dall’uomo, il genere umano di questa terra, noi abitanti della terra, saremmo ugualmente soli, perché l’universo in cui viviamo non ci è conforme. Siamo soli perché ci troviamo ad esserci senza che la nostra presenza fosse stata prevista, voluta. Siamo i figli non voluti del pianeta terra, gli ospiti indesiderati. La natura matrigna ci ha partorito e abbandonati a ni stessi. Da necessari siamo passati a non previsti, contingenti, casuali, transitori. Non ci sono più ragioni perché l’uomo ci sia. Del resto, non ci sono più ragioni per cui ci sia l’essere piuttosto che il nulla. Da qui il senso di abbandono di cui si nutre la solitudine. È evidente che la solitudine del genere umano è qualcosa di radicato in noi e deriva da un sentimento cosmico di smarrimento, sconforto, inadeguatezza. Nel modo di essere che si rapporta all’universo, l’uomo è solo. Si tratta pertanto di una solitudine cosmica, che afferra l’uomo in quanto egli sente troppo difforme a sé lo spazio infinito in cui è gettato. Ad essa fa riscontro «una solitudine di carattere ontologico-esistenziale, secondo cui l’uomo in quanto uomo “è” solo e che fa pertanto della solitudine fenomeno congenito, connaturale, coessenziale, originario».5

Il genere umano come tale dunque avverte, anche quando rimuove la cosa, che esso è una singolarità abbandonata a se stessa. Viene al mondo in una realtà che non è fatta per lui, che non lo prevede. Figli di Prometeo, siamo riusciti a sopravvivere in un ambiente ostile grazie al furto del fuoco sottratto agli dèi. E non solo ladro, ma, come Odisseo, scaltro e bugiardo è l’uomo. Pertanto, la solitudine è un elemento costitutivo del modo di essere dell’uomo. Un tempo egli si sentiva parte di un universo finito e perciò confortante. Terra e cielo erano in comunicazione tra loro, ciò di cui la prima era manchevole veniva integrato dall’altro. Nel vasto mondo l’uomo era a casa sua, le stelle gli indicavano il cammino e da esse prendeva i suoi auspici.

«Tempi beati: tali, quelli, in cui è il firmamento a costituire la mappa delle vie praticabili e da battere e le cui strade illumina la luce delle stelle. Tutto è nuovo, per essi tempi, e insieme familiare, avventuroso eppure noto. Il mondo è ampio e tuttavia quale la propria casa, ché il fuoco che nell’animo arde è della stessa sostanza delle stelle».6

Dopo, tutto si è fatto buio, il cielo si è svuotato, si è aperta una voragine infinita che ha divorato i numerosi abitatori di un tempo. La solitudine annuncia l’angoscia della finitudine. Questi esseri umani sono vivi e vivono in solitudine, quando ne escono è solo per sparire nel nulla.

Nella visione pre-copernicana, l’uomo aveva il suo posto ben definito nel mondo. Adesso invece abita un punto qualsiasi dell’universo che non è diverso da ogni altro.7 L’uomo ha perduto contemporaneamente la dimora terrena e il suo luogo celeste. L’essere solo diventa costitutivo dell’essere umano e di nessun altro. Ma questa solitudine è dovuta non soltanto al fatto di non incontrare propri simili, altri esseri viventi, quanto invece al vivere in uno spazio ostile e indifferente. È quello che troviamo espresso in diverse Operette morali di Leopardi.

 

La scomparsa del genere umano

Nel suo ultimo romanzo Dissipatio H. G. (dove le due lettere stanno per Humani Generis), Guido Morselli immagina che avvenga la scomparsa del genere umano. A farne il resoconto, un unico e solo sopravvissuto, un Io narrante di cui non sappiamo il nome, ma che per molti versi è l’alterego dell’autore stesso. Solo lui è sopravissuto all’evento, non gli è chiaro però se per privilegio o esclusione. Nel primo caso ne deriverebbe che solo lui sia stato risparmiato in quanto unico giusto, nel secondo che solo lui fosse meritevole di punizione. Ad ogni modo, egli sarebbe il solo, l’unico rimasto. L’idea non è nuova, ci informa il nostro personaggio. Tra i vari tipi di apocalisse che sono stati pensati c’è quella di Giamblico, che, in un’opera dal titolo appunto Dissipatio Humani Generis, parla della fine della nostra specie. Pare che il termine Dissipatio vada inteso nel senso di “evaporazione” “nebulizzazione”. Rispetto a quanto immaginato da altri profeti qui si tratterebbe di un evento «meno catastrofico: niente diluvio, niente olocausto “solvens speculum in favilla” assimilabile oggi a un’ecatombe atomica».8

Il nostro personaggio si mette alla ricerca degli altri, finché, non trovando nessuno, ne deve concludere che sia rimasto solo lui. Tutti quanti gli altri è come se si fossero volatilizzati. Le cose sono rimaste così com’era al momento della scomparsa degli altri. Sembra dispiacersene. «Non vedrò un viso, non udrò una voce», dice a sé stesso. Ma in realtà il suo disappunto è dovuto al fatto che non essendoci più gli altri, adesso non potrà più limitarsi ad essere spettatore della vita altrui, ma bisognerà che si metta in azione anche lui se vuole continuare a vivere.

Il nostro personaggio non sembra aver avuto con gli altri un rapporto intenso, al di là delle frequentazioni ordinarie e dei contatti destinati a rimanere superficiali. Lui è un giornalista, professione che lo porta a stare con gli altri. Ma, in realtà, vive molto appartato, da solo, avendo scartato anche l’idea di vivere con la sua donna nella stessa città. Insomma, possiamo dire che si tratta di un uomo solitario a cui non piace la compagnia degli altri. Per lui potrebbe valere il detto secondo cui non si è mai così soli come si può esserlo quando si sta in mezzo agli altri. Le sue relazioni sociali extra-lavorative sono rarefatte. Della città in cui vive, Crisopoli, dice di non amarla, e aver praticato con essa una sorta di “fuga saeculi”. Dice di averla scelta per vivere separato, per isolarsi dal mondo. La detesta, è un mondo in negativo. Questo ci fa pensare appunto ad uno stato di solitudine, uno starsene lontano dagli altri, l’evitarne il contatto. L’uomo solo, per il quale pure la solitudine è una condanna, cerca di cancellare la presenza altrui. Qui abbiamo finalmente il sogno che si realizza: il non esserci più nessuno, il non dover fuggire gli altri, perché tutti gli altri sono già fuggiti, forse, o qualsiasi altra fine abbiano fatto.

Non c’è indice più chiaro di solitudine che quello di vivere da spettatore, cioè il non poter mai uscire fuori dal proprio Io. Il Nostro si è scelto un’abitazione fuori mano, in modo da starsene solo, tranquillo, e di non dover vedere nessuno. E tanto per essere chiari e scoraggiare qualche visitatore molesto, a casa sua si arriva dopo 50 minuti di sentiero. «Vivere fuori e sopra: siamo sopra i 1400 metri di altitudine. Vivere solo, è questo che cercava».9 Ora che tutti sono scomparsi ha raggiunto quello che aveva sempre desiderato: essere solo – sebbene ne provasse anche paura. Anzi, egli aveva raggiunto un livello più alto: non più semplicemente essere solo, ma essere il solo. Egli poteva così figurarsi come «l’unico pensante in una creazione tutta deserta. […] Hegel ha sognato una realtà in sé e per sé, io sognavo una realtà con me e per me. Dove gli altri non hanno luogo, perché non ci sono».10 L’idea che tutta la realtà sia un prodotto di noi stessi non deve poi risultare così strana se, sul lato opposto, Hegel ha concepito la realtà come qualcosa di per sé sussistente. «Allo stadio finale di una contemplazione abbastanza perversa, riuscivo a persuadermi per davvero di essere solo. Solo nel mondo. In gergo filosofico, ma, salvo errore, solipsismo: l’individuo, Io, e la sua visione delle cose, nessun altro, niente altro».11

A forza di fuggire dagli altri, di cercare la solitudine, di rendersi invisibile, introvabile, di nascondersi, che è un modo di scomparire dagli altri, di isolarsi, quindi di evitarne la presenza, alla fine ci si convince che tutto quello che è stato desiderato si realizza, e però nella forma inversa: e cioè che non sarà più lui a scomparire, a rendersi invisibile, ma saranno gli altri, l’intera umanità, a dissolversi. Stanco di essere costantemente in fuga, finalmente potrà fermarsi, grazie al fatto che l’intero genere umano sarà scomparso al posto suo. E pensare che tutto questo invece era cominciato con il tentativo di suicidio da parte del nostro personaggio: doveva scomparire lui solo, ed invece sono spariti tutti gli altri. Appunto: era solo ed è rimasto il solo. Il sogno solipsistico che si avvera.

 

 

Note

1 B. Pascal, Pensieri, trad. it. e a cura di A. Bausola, Rusconi, Milano, 1993, § 88, p. 75.

2 Ivi, § 335, p. 187.

3 Ivi, § 91, p.75.

4 E. M.Cioran, Al culmine della disperazione, trad. it. di F. Del Fabbro e C. Fantechi, Adelphi, Milano, 1998, p. 24.

5 C. Carrara, Solitudine ed esistenza, Editrice Petite Plaisance, Pistoia, p. 161.

6 G. Lukács, Teoria del romanzo, trad. it. di F. Saba Sardi, Garzanti, Milano, 1974, p. 53.

7 Nella sua opera De docta ignorantia, del 1440, Niccolò Cusano introdusse la visione di un universo infinitamente aperto che aveva il suo centro dappertutto e la circonferenza in nessun luogo.

8 G. Morselli, Dissipatio H.G., Adelphi, Milano, 1977, p. 78.

9 Ivi, p. 16.

10 Ivi, p. 49.

11 Ivi, p. 50.

 

 


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