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Azioni Parallele

NUMERO  7 - 2020
Azioni Parallele
 
Rivista on line a periodicità annuale, ha ripreso con altre modalità la precedente ultradecennale esperienza di Kainós.
La direzione di Azioni Parallele dal 2014 al 2020 era composta da
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Choc

 

Estratto da Choc.
Scotimento del senso e problematicità

 

 

Lo choc ha un senso?

Qual è il significato che attribuiamo comunemente alla parola choc? Che si provi a fare una veloce ricerca sul web o si decida, armati di maggiore pazienza e pervicacia, di andare a spulciare i più accreditati dizionari della lingua italiana, si noterà come al termine venga primariamente accordata una valenza significativa di tipo medico-sanitario. Pare che, in effetti, il lemma occorra soprattutto per descrivere uno stato, una condizione di carattere fisico o psichico a insorgenza improvvisa che fa seguito a uno sconvolgimento, a un evento che mina la stabilità di determinati parametri vitali. In questo senso, choc rinvia senz’altro a quella sua accezione etimologica più immediatamente riconoscibile, la quale tenta di rappresentare, letteralmente, un forte impatto, una scossa violenta1.

Choc, tuttavia, si dice in più sensi. È indubbiamente possibile parlarne come condizione conseguente a un deficit di natura fisiologica che può essere provocato dalle più svariate cause: perdite significative di fluidi, insufficiente apporto di ossigeno, infezioni, incidenti e traumi di ogni genere; ma se ne può anche parlare per descrivere un cambiamento termico improvviso. In ogni caso, l’elemento che risalta maggiormente, anche nell’utilizzo più risolutamente “tecnico” dell’accezione, è quello della gravità e dell’intensità del mutamento che lo choc provoca rispetto alla condizione che lo precede.

Il termine choc sembrerebbe rimandare, in definitiva, a qualcosa di potente, che tendenzialmente crea sconcerto e instabilità – a qualcosa che senz’altro si subisce, ma che può essere altresì provocato. Certo, se lo si induce, è quasi sempre per cercare di rispondere a una situazione complessa e talvolta disperata per cui ne va, quantomeno, della vita. Si può, in ogni caso, sostenere che il vocabolo venga utilizzato, un po’ in tutti gli ambiti succitati, per descrivere una situazione sintomatica che si manifesta come improvvisa compromissione di un equilibrio durevole e persistente, a cui fa generalmente seguito un profondo turbamento.

Come reagire a uno choc? Non è detto che lo si possa sempre fare. Se intendiamo il termine nell’accezione prevalentemente medica, bisogna tener conto proprio della sintomatologia e di tutto l’ampio spettro delle classificazioni eziologiche e patologiche a cui si applicano i più disparati protocolli sanitari. Se siamo affetti, ad esempio, da uno choc anafilattico o cardiogenico, si proverà a porre rimedio allo scompensoper evitarne l’irreversibilità. Si dovrà, poi, risalire alle cause fisiologiche e, se la risposta terapica nel tempo si sarà rivelata sufficientemente affidabile ed efficace, vi sarà molto probabilmente un ricovero e forse anche un ritorno alla “normalità”.

Questa interpretazione clinica ha una sua valenza non solo dal punto di vista fisico, ma anche psicologico, e si può sostenere senza troppe difficoltà che ogni reazione a choc di siffatta natura determini uno sconvolgimento del decorso ordinario del vivere. È interessante, però, notare come la maggior parte dei dizionari segnalino solo secondariamente, per estensione, quell’accezione di choc per cui lo si debba intendere anche quale “turbamento psichico”. Per quale motivo? Non sembra plausibile credere che ciò possa dipendere dal desiderio di stigmatizzare una maggiore serietà (tutta da verificare) delle condizioni in cui versa chi subisce uno choc fisico rispetto a chi, invece, ne subisce uno psicologico. Tuttavia, se lasciamo un attimo da parte i motori di ricerca e il loro accurato conteggio delle occorrenze, le evidenze intuitive che ci vengono dal vivere in una qualsiasi quotidianità media ci suggeriscono come choc venga adoperato, non senza abusi ed eccessi, più che altro per descrivere la peculiare condizione emotiva di turbamento che investe l’umano allorché qualcosa sconvolge le trame più profonde di quel complesso dinamico che chiamiamo io. Questo è evidente anche e soprattutto se teniamo conto nel valore aggettivale che pure viene ascritto alla parola, allo scopo di nominare diversi episodi di sconvolgimento che possono a ogni momento insinuarsi nell’ovvietà irriflessa di ogni umana consuetudine, tanto biologica quanto psicologica.

Vi sono eventi che possono lambire il nucleo più intimo del nostro essere, così come vi sono cose di cui ci curiamo troppo o troppo poco, a seconda del livello di importanza e interesse che assumono per noi. Ma cos’è che provoca un cambiamento, uno scompiglio esistenziale in virtù del quale, da un momento all’altro, non siamo più in grado di fronteggiare la realtà e ci scopriamo addirittura incapaci di affidarci alle pratiche ormai consolidate del nostro vivere? Senz’altro, si tratterà di qualcosa che quantomeno ci avrà inquietato: una notizia, un incontro, un’evenienza di particolare importanza o gravità, una scoperta o qualcosa di inaudito che d’un tratto si presenta, scombussolando le nostre esistenze e il significato che fino a quel momento avevamo placidamente e ingenuamente attribuito loro.

Un disastro ambientale, una guerra straziante, una qualsiasi ecatombe che ha luogo dall’altra parte del mondo può certamente destare una grande impressione e segnare profondamente il nostro essere, anche per un considerevole lasso di tempo. Ciò nondimeno, in che modo cambia la nostra esistenza? Siamo sicuri di trovarci di fronte a qualcosa che ci scuote per davvero? Se i motivi dello scotimento, a un certo punto, finiscono nel dimenticatoio, o diventano semplicemente qualcosa che riesco a riportare alla mente con sufficiente pathos della distanza – se, cioè, lo choc può essere superato e io sono in grado di ritornare alla condizione precedente, a una situazione in cui mi sento nuovamente al sicuro e al riparo da ciò che mi aveva sconvolto, è possibile ancora dire che si sia trattato effettivamente di choc? Certo, una scossa profonda può generarsi anche e soprattutto in risposta a stimoli che vengono dall’esterno, ma diviene costitutiva solo nel momento in cui siamo costretti a farcene carico interiormente, nel momento in cui la nostra psiche deve farci i conti – nel momento in cui, cioè, quella che ci piace ancora chiamare la “dimensione spirituale” dell’umano viene inesorabilmente interpellata ed esposta alla problematicità.

Che cosa facciamo quando l’inatteso sconvolge improvvisamente l’ovvietà irriflessa del nostro vivere quotidiano? Cerchiamo di darvi un senso, di farcene una ragione. Cerchiamo cioè di recuperare un suolo saldo, una certa stabilità, tentando di ricondurre la nostra esistenza nel porto sicuro della normalità. Ma questo è davvero possibile? Se la nostra vita è stata sconvolta, se la nostra dimensione più autenticamente spirituale ha subito veramente uno choc, non sarà in alcun modo possibile ritornare alla condizione precedente. Chi avverte profondamente lo sconvolgimento provocato da uno choc non è più lo stesso, il suo modo di vedere sarà mutato inesorabilmente. Sarà certamente la stessa persona, ma guarderà al mondo, a sé e agli altri con occhi diversi. Il significato che la realtà circostante e la sua vita avevano assunto fino a quel momento impallidirà, svanirà sullo sfondo per lasciare spazio a una nuova consapevolezza, tanto ovvia quanto inappellabile: tutto è cambiato. Quel sensodato precedentemente al reale si rivela ormai indisponibile. Non vi è più alcuna sicurezza, stabilità, equilibrio nell’esistenza di chi attraversa un’esperienza del genere. La rottura, la lacerazione che segna indelebilmente chi avverte una scossa siffatta è insanabile. Eppure, è precisamente nell’apertura, in quello stesso squarcio che marca quel rivolgimento radicale, che si può anche istituire una nuova possibilità di riflessione.

Ogni evento scioccante, nella sua traumaticità, è potenzialmente in grado di aprire nuovi orizzonti significativi per l’umano. Non a caso, i momenti più critici della storia sono sempre accompagnati da diagnosi, riflessioni e tentativi di comprensione attraverso cui si cerca di orientare l’agire individuale e collettivo. Nondimeno, interrogarsi sullo sconvolgimento dell’ordinarietà del nostro essere – prima, durante o dopo il precipitare degli eventi – significa già essere nella problematicità, abitare lo choc e comprendere che nulla sarà più come prima.

Durante gli ultimi mesi, il termine choc ha fatto spesso capolino in titoli di giornali, notiziari televisivi e generalmente presso ogni canale di informazione, nel tentativo di descrivere le reazioni più comuni allo sconvolgimento provocato dalla pandemia da coronavirus che ha segnato in modo indelebile l’umanità, stravolgendone e mettendone radicalmente in discussione usi, abitudini, pratiche e diritti consolidati da secoli. Anche nelle discussioni e nelle analisi più o meno preoccupate e opportune che ci hanno accompagnato nella nostra quotidianità, almeno a partire dal momento in cui il coronavirus si è rivelato essere anche un “nostro” problema, si è dato ampio e significativo spazio all’utilizzo del termine2. Abbiamo sentito parlare continuamente dello “choc mondiale” provocato dalla diffusione vertiginosa della pandemia e dall’impossibilità di farvi fronte in modo efficace e tempestivo. Abbiamo anche assistito alle terribili conseguenze del contagio, che i media hanno spesso descritto parlando di choc economico, di choc emotivo, di nazioni e relativi sistemi sanitari sotto choc. Continuiamo ancora oggi a vedere immagini, ascoltare interviste e racconti, seguire reportage e sciorinare numeri che sono letteralmente scioccanti. E possiamo ben dire di essere sotto choc per tutto ciò che è accaduto e che sta ancora accadendo – per tutto quello con cui, molto probabilmente, dovremo fare i conti ancora a lungo.

Il coronavirus e la sua perniciosa diffusione hanno cambiato radicalmente il modus vivendi degli esseri umani, a ogni latitudine. Le nostre vite non potranno essere più le stesse in seguito ai milioni di casi di contagio e all’imprecisato numero di morti che, molto probabilmente, non saremo mai in grado di conteggiare esattamente. E non potrà essere più la stessa neanche la vita di chi pensa che la soluzione più immediata al problema sia negarne semplicemente l’esistenza, giacché nessuna visione distorta della realtà, nessun complotto, così come nessuna scrupolosità statistica, futuro successo scientifico o auspicata soluzione immunizzante, potrà cancellare quel senso di precarietà che le nostre esistenze hanno esperito da un giorno all’altro, al punto di farci paragonare la nostra condizione, soprattutto durante i momenti più difficili della pandemia, a uno stato di guerra. Resta da capire cosa resterà di questa esperienza nell’immaginario collettivo allorché tutto questo finirà e diventerà storia contemporanea. Sicuramente nessuno sarà in grado di comprendere adeguatamente ciò che sta accadendo fin quando non si conosceranno le effettive conseguenze del coronavirus sulle funzionalità organiche e psicologiche di chi ne rimane affetto. Eppure, se proveremo già adesso a porre la questione non unicamente in termini medico-scientifici, ma anche a partire da una riflessione profonda sul senso di quello che stiamo vivendo a livello morale, avremo forse il vantaggio di riuscire a interrogare la situazione critica in cui oggi versa l’umanità intera, e non semplicemente quella di chi è stato colpito in prima persona dal morbo.

Rivolgere interrogativi profondi, scomodi e intricati alla condizione umana è da sempre stato il compito più autentico della filosofia. Sarebbe, allora, interessante chiedersi se quell’attitudine riflessiva non possa essere in qualche modo di ausilio all’umanità nell’urgenza e nella tragicità del momento, nella nostra inedita quotidianità minacciata inesorabilmentedall’indigenza, dal bisogno e da quella peculiare miseria che ci attanaglia anche nel nucleo più intimo del nostro essere. Certo, si potrebbe obiettare che una reazione eminentemente riflessiva alla condizione inappellabile di choc in cui versa attualmente l’umano non sortirà alcun effetto concreto e immediato. Nondimeno, considerare la filosofia come uno sterile e ozioso esercizio di erudizione può essere vero solo per chi non si rende conto di un fatto fondamentale: l’indigenza, la minaccia, la miseria e lo choc investono e interpellano, in prima istanza, proprio quella dimensione spirituale dell’esistenza da cui dipende anche il nostro essere nel mondo.

Il pensatore boemo Jan Patočka, in una delle sue opere fondamentali, ha scritto che «la riflessione filosofica dovrebbe aiutarci nella nostra condizione misera»3. Questo non significa, tuttavia, che la filosofia debba essere intesa quale disciplina meramente consolatoria, buona da recuperare unicamente per dare conforto all’umanità durante i “tempi bui”, ma come tentativo di comprensione del senso delle cose e della realtà che può dirci qualcosa di indifferibile sul nostro essere nel mondo, e dunque sulla situazione di choc in cui ci troviamo. Proprio perché lo choc è un elemento costitutivo, anzi: la condizione di possibilità di quella stessa esperienza filosofica che, nella sua originarietà, interpella radicalmente il nostro rapporto al reale, svelandone la problematicità.

 

Note

1 Dal punto di vista etimologico, non vi è alcuna differenza tra la variante di origine francese (choc)e quella di origine inglese (shock), in quanto entrambe riproducono, anche a livello onomatopeico, l’idea dell’urto. Inoltre, entrambe derivano da un verbo (choquer per il francese, to shock per l’inglese) traducibile con percuotere. Qui si è scelto di utilizzare la variante francese (della quale l’inglese costituirebbe una derivazione), nonostante alcuni dizionari sottolineino come sia ormai più comune l’utilizzo di shock nella lingua italiana. Questa scelta risponde unicamente al criterio “genealogico”, e non reca nessuna particolare valenza teorica. Sull’utilizzo delle due varianti nella lingua italiana si veda l’interessante approfondimento alla pagina web: https://accademiadellacrusca.it/ (link consultato il 29 settembre 2020).

2 Facendo un’altra ricerca sul web, adoperando questa volta, a fianco al termine choc, la parola chiave coronavirus, si scoprirà come, ad esempio, il motore di ricerca Google fornisca, come primo risultato, una scheda-resoconto sulla diffusione della malattia e sul suo impatto nel luogo da cui si fa la ricerca (laddove sia attiva la geo-localizzazione della propria posizione), con tanto di informazioni relative ai sintomi, alla prevenzione e alle cure.

3 J. Patočka, Platón a Evropa, Praha 1973, ora in Id., Peče o duši II, a cura I. Chvatík, P. Kouba, Oikoymenh, Praha 1999, pp. 149-355, tr. it. M. Cajthaml, G. Girgenti, Platone e l’Europa,a cura G. Reale, Vita e Pensiero, Milano 1997, p. 32. In questa e nelle successive citazioni da questo testo, la traduzione italiana è stata modificata sulla base dell’originale ceco.

 

 

 

 


 

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