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Azioni Parallele

NUMERO  7 - 2020
Azioni Parallele
 
Rivista on line a periodicità annuale, ha ripreso con altre modalità la precedente ultradecennale esperienza di Kainós.
La direzione di Azioni Parallele dal 2014 al 2020 era composta da
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Paura

 

Estratto da Paura
Filosofia, politica, sociologia, psicologia.  

 

Grand Hotel Paura

di Aldo Meccariello

 

Che cos’è la paura? La domanda ci turba perché nomina una situazione che ci minaccia, un evento atavico che ci accompagna lungo il corso della vita e che puntella l’esistenza di ognuno come una specie di seconda natura, un demone invisibile, un’ombra. L’incertezza o il non sapere che cosa ci potrà accadere, questa è la paura. Proviamo a immaginare il nostro mondo pulsionale similmente a una magnifica suite denominata Grand Hotel Paura1 da cui facciamo fatica a uscire o a varcarne la soglia. La nostra vita è tutt’altro che priva di paure, e il contesto liquido-moderno in cui essa è immersa è tutt’altro che esente da pericoli e minacce. L’esistenza umana è percorsa da una lotta contro la paura. Essa può essere vista soprattutto come ricerca e verifica continua di stratagemmi ed espedienti che ci consentano di evitare, anche se solo temporaneamente, l’arrivo di pericoli imminenti che siano catastrofi naturali o umane.

L’umanità del terzo millennio probabilmente dovrà abituarsi a convivere con insicurezze, rischi e crisi di ogni genere: desertificazione, distruzione dell’ecosistema, virus letali che infestano il pianeta. Il futuro sembra profilarsi carico d’incognite soprattutto per le nuove generazioni. L’emergenza pandemica di questi tempi continua a produrre paure irrazionali, frammentazioni sociali che mettono in crisi i valori essenziali della collettività. Il sociologo U. Beck aveva parlato di una società del rischio2 che segnerebbe l’inizio di una seconda modernità: «Come eliminare la paura quando non siamo in grado di eliminare le sue cause? Come vivere sul vulcano della civiltà senza dimenticarlo volutamente, ma anche senza essere soffocati dalle paure prima ancora che dai suoi vapori?».3

Siamo sul vulcano della civiltà”. Una metafora potente che sarebbe piaciuta a Leopardi ma che è stata ampiamente argomentata da G. Anders, il filosofo dell’esagerazione, il creatore del panico come è stato chiamato dai suoi detrattori. In L’uomo è antiquato, egli indica un nome e una data d’inizio: Hiroshima, agosto 1945. Qui si apre il vero mutamento d’epoca, e si spalancano le porte dell’Apocalisse che l’umanità angosciata ancora non vuole vedere, inibita dal diniego e dall’autoinganno. “Creare panico” per denunciare il rischio di nuove catastrofi: questo l’imperativo andersiano, la sua ossessione etica. Solo la paura commisurata alle conseguenze tragiche di una simile eventualità è in grado di far aprire gli occhi a un mondo abitato da uomini sempre più apatici, incapaci di leggere i segni di una catastrofe annunciata: «L’epoca del mutamento d’epoca è finita dal 1945. Ormai viviamo in un’era che non è più un’epoca che ne precede altre ma una «scadenza», nel corso della quale il nostro essere non è più altro che un «esserci-ancora-appena».4

Ma il desiderio di onnipotenza è una dannazione, più che una liberazione, per gli uomini dell’era atomica che vogliono ritornare a provare sentimenti umani. Ciò che rende irrealizzabile questo sogno del Titano-Uomo è proprio l’irrevocabilità delle nostre conoscenze tecnico-scientifiche poiché «noi non viviamo nell’era del materialismo […] ma nella seconda era platonica […] Nel 1945 non siamo entrati nell’era atomica perché avevamo fabbricato tre bombe atomiche, ma perché possedevamo la ricetta non fisica per realizzarne innumerevoli altre».5

Rispetto alle idee del cielo di Platone, il numero delle idee attuali è infinito e infinitamente crescente a causa dell’inflazione d’invenzioni. L’onnipotenza è diventata pericolosa da quando si è trasferita nelle nostre mani. Non esiste ancora una piena consapevolezza dell’imminenza di un’Apocalisse che può cancellare l’uomo dalla faccia della terra. Al posto della proposizione «Tutti gli uomini sono mortali» è subentrata oggi la proposizione: «L’umanità intera è eliminabile».6 Se le epoche precedentiscomparivano per fare posto ad altre, questa possibilità è preclusa all’epoca contemporanea che si presenta come epoca della fine. «Siamo i primi Titani, perciò siamo anche i primi nani o pigmei − o come altro ci si voglia chiamare, noi esseri a cui è posta una scadenza collettiva – che non siamo più mortali come individui, ma come gruppo; la cui esistenza è sottoposta a revoca».7

La creazione della bomba nucleare è lo spettro che Anders evoca in alcune dense pagine di L’uomo è antiquato. L’orrore di Hiroshima cambia i connotati della condizione umana e trasforma il problema morale: alla domanda «Come dobbiamo vivere?» si è sostituita quella: «Vivremo ancora?». All’uomo senza mondo si sostituirà un mondo senza uomo. Il futuro è già finito.8 Della storia non c’è più traccia. Il motivo che restituisce il senso della sua opera è la visione apocalittica di un «mondo senza uomo». Se, infatti, la prima riflessione andersiana era indirizzata allo scenario di estraniazione e di alienazione dell’uomo moderno in un «mondo-che-appartiene-ad-altri», la consapevolezza dell’esistenza dei nuovi e sofisticati mezzi di distruzione di cui l’umanità dispone, dischiude un orizzonte ontologico ben diverso: quello di un paesaggio spettrale. Con l’esautorazione dell’uomo e sotto il dominio della tecnica, l’orizzonte si restringe dopo la storia e prima dell’apocalisse in quello di una “scadenza”, di un “termine” che conosce ormai solo la durata incerta, nessun tempo regolato. La diagnosi della fine della storia intende dunque sia il tempo della fine nel senso di una post-histoire sia la fine dei tempi cioè l’annientamento dell’uomo e del mondo.

Ѐ dunque la consapevolezza della contingenza non solo della nostra vita individuale, ma di quella dell’umanità e del mondo intero, che ci può insegnare ad avere paura. Il tempo della fine sembra sempre più vicino. Al contrario dell’Apocalisse intesa teologicamente come liberazione e inizio di vita nuova, Anders si propone come scopo quello di “spostare” questa fine, prolungando il più possibile quella che rimane per lui “l’ultima epoca”. Solo la voracità dell’homo faber e poi dell’homo creator ha prodotto squilibri ecosistemici, e dissesti globali innescando una spirale distruttiva e autodistruttiva. Analizzando questa scissione tra l’artefice e il mondo degli artefatti, egli ridescrive la conditio humana plasmata e dominata dal dominio della tecnica attraverso un processo di metamorfosi da homo faber, a homo creator e a homo materia. Se lhomo faber è quello della nascita della tecnica, è l’uomo che si congeda dagli dei, «con la denominazione di homo creator intendo il fatto che noi siamo capaci, o meglio, che ci siamo resi capaci, di generare prodotti dalla natura, che non fanno parte (come la casa costruita con il legno) della categoria dei “prodotti culturali”, ma della natura stessa».9

In altri termini, l’uomo è capace di produrre physis per mezzo della techne, vale a dire prodotti naturali, vere e proprie «seconde nature». Basti pensare all’esempio del Plutonio, introdotto in natura come novum dall’uomo «come il veleno più terribile che c’è ora nella natura». Tuttavia la metamorfosi più mostruosa dell’umano è il passaggio da homo creator a homo materia: «La trasformazione dell’uomo in materia prima è invece cominciata (a prescindere dai tempi dei cannibali) ad Auschwitz. È noto che dai cadaveri degli internati dei lager (che, a loro volta, erano già dei prodotti) [...] si estraevano, questo è noto, i capelli e i denti d’oro. [...] Ho visto con i miei occhi sacchetti pieni di denti. [...]».10 Di fatto si può dire che in questi casi l’homo creator e l’homo materia vengono a coincidere, dove però, ovviamente, creator e materia non coincidono mai a livello personale ma l’uno funge da creator e l’altro da materia. L’“homo materia”è creare da esseri viventi altri esseri viventi: inseminazione artificiale e clonazione della vita in provetta, sono le enormi possibilità della genetica che costituiscono uno scacco per l’essere umano e per la sua dignità. La creazione di nuovi generi e nuove specie ha innescato un processo inarrestabile che sta rendendo l’uomo un essere superfluo. Oggi più che mai gli esseri umani devono prendere consapevolezza del pericolo, unire le proprie forze e fronteggiare vecchie e nuove paure globali.

Le nuove forme di paura sono anzitutto la conseguenza degli effetti devastanti che la globalizzazione economica ha avuto sui cosiddetti paesi in via di sviluppo e in modo tutto particolare sulle popolazioni poverissime del pianeta. Gli squilibri economico-sociali di vaste aree del pianeta, la de-regolazione dei mercati finanziari, le lobbies militari-industriali, lo sfruttamento selvaggio delle risorse naturali e la distruzione dell’ambiente, stanno provocando l’eclisse irreversibile della civiltà. Il Covid-19, per esempio, ha sfondato la barriera quasi invalicabile tra specie diverse ed è diventato, in tempi rapidissimi, tra i virus più temuti del mondo. La morte avanza inflessibile minuto dopo minuto e la paura di morire e di veder morire i propri cari è il pane quotidiano di una buona parte dell’umanità che vive nell’insicurezza. Ma sono molti coloro che alla fine preferiscono rinunciare alla vita: la morte fa meno paura. L’umanità deve ora prendere coscienza della sua vulnerabilità e lo può fare esercitando la libertà di provare paura. Ancora una volta Anders lancia un’ennesima provocazione:

«Quando, nell’enumerare le libertà imprescindibili, Roosevelt nominò il freedom from fear e formulò così l’incompatibilità di libertà e angoscia, lo fece (sebbene la formula, in quanto tale, non fosse esistita prima) cinque minuti dopo le dodici nel computo della storia universale: cioè in quel momento in cui questa esigenza cominciava proprio a perdere la sua validità, perché si profilava un nuovo compito, quasi opposto, cioè quello di “imparare ad avere paura” (com’è detto nella fiaba di Grimm). Perché ciò che ci manca soprattutto è freedom to fear, cioè: la capacità di sentire l’angoscia adeguata, quel contributo di angoscia che dovremmo fornire se vogliamo liberarci realmente dal pericolo in cui versiamo, se vogliamo dunque raggiungere realmente freedom from fear. Si tratta dunque: to fear in order to be free; di aver paura per essere liberi; o semplicemente per sopravvivere».11

In gioco non è più solo la libertà ma la stessa sopravvivenza del genere umano. Solo se riattiviamo la paura possiamo riprendere in mano qualche chance di futuro e sottrarci a quei meccanismi anestetizzanti che ci hanno portato alla piena cecità di fronte all’Apocalisse.12 Se la paura nel modello hobbesiano genera la comunità politica a cui gli individui si affidano per la propria sopravvivenza, per Anders la paura provoca il risveglio per l’umanità dinanzi alla soglia dell’abisso. Sopravvivere è il nuovo imperativo categorico per la politica del futuro. Il compito preliminare, però, è re-imparare ad avere paura: «Il tetto che sta per crollare diventa il nostro tetto. Come morituri ora siamo veramente noi. Per la prima volta lo siamo effettivamente».13

 

Psicologia della paura

di Giovanni Chimirri

 

Fisiologia di un’emozione

La paura rientra nel vasto campo delle emozioni ordinarie, basti pensare a quelle dei bimbi, espressioni di un atavico timore di separazione e/o di tutto ciò che, essendo estraneo, minaccia il proprio equilibrio. La paura può essere ereditata o congenita (specie negli animali inferiori), acquisita, indotta dall’educazione, dall’ambiente, anticipata con una previsione, evocata da un ricordo. Emozioni e paure possono essere sia negative sia positive. Tutto dipende dalla loro intensità, dalla capacità di gestirle, dalle contingenze del caso. Sono un sistema d’allarme che attiva difese e servono per marcare i nostri limiti, debolezza, difetti […]. La paura è la reazione alla consapevolezza di un pericolo ed è così importante che non averla mai è segno di squilibrio e incoscienza. Se l’animale attacca o scappa al minimo segnale di pericolo, l’uomo, pur avendo ereditato dall’animale una paura primitiva, è in grado di sublimarla e razionalizzarla. Paure inutili, infatti, bloccano lo sviluppo dell’Io e delle sue potenzialità creative, restringe la coscienza, genera disadattamento, tarpa la libertà, soffoca il sentimento, ecc. […].

 

Paure oggettive e no, costruzione dell’horror

Tutti hanno paura di qualcosa (e di questi tempi, la paura più grande si chiama contagio, malattia, ospedale, morte, disoccupazione), fino a giudicare il mondo intero come un pericoloso nemico; ma mentre il “pericolo” è qualcosa di esterno a noi e imprevedibile, la paura è sempre qualcosa d’interno.Spesso si ha paura di cose che non si conoscono a sufficienza (come certi ragni e serpenti, del tutto innocui) o di cose prodotte dalla nostra immaginazione […]. Ci sono inoltre le “paure ricercate”, come quelle che si affrontano in vari tipi di competizione, sport estremi, giostre, prodotti mass mediali (film, fumetti, videogiochi, ecc.). Si affronta la paura per sentirsi più forti, allenare il coraggio, esorcizzare in sicurezza i drammi della vita. I giovani sono sempre alla ricerca di sensazioni forti perché vogliono conoscere il mondo fino a sperimentarne il male e mettersi volontariamente in situazioni rischiose […].

Molti giovani si cimentano col genere “horror” perché in esso rivivono il desiderio di trasgressione ed evasione (mettere in crisi le norme, scardinare divieti, imporre la propria libertà). Secondo la psicoanalisi, nelle paure ricercate si sperimenta simbolicamente il proprio disagio sessuale, il piacere dello sporco (linguaggio volgare), il tabù del sangue, l’introduzione nell’adultità. La costruzione fittizia delle paure illanguidisce i confini della logica reale e spalanca i “sogni a occhi aperti”. Il gusto dell’horror serve anche per sperimentare emozioni senza rischio; soddisfare una libido rimossa; annullare la censura del super-Io; controllare l’ansia; identificarsi rispettivamente con un mostro (sublimazione di impulsi sadici) o con una vittima (far emergere il “Sé masochista”) o con entrambi (si vive un pericolo e nel contempo ci si protegge) […].

 

Soglia ed espressione della paura

La paura può tendere sia verso una sensibilizzazione che ne abbassa la soglia (dove ci preoccupiamo e spaventiamo troppo), sia verso un’assuefazione (tolleranza)che la alza, dove, non potendo vivere in un perenne allarme, non badiamo più ai pericoli. Vari studiosi hanno proposto il seguente schema di valutazione delle circostanze organizzato su cinque livelli: a) novità dello stimolo; b) grado di piacevolezza/sgradevolezza dello stimolo; c) rilevanza dello stimolo in relazione ai bisogni e scopi del soggetto; d) capacità di far fronte allo stimolo; e) esame di compatibilità con le norme sociali e l’immagine di sé […]. La paura si sente sul piano fisico (tremore, sudore, tachicardia, stimoli escretori, ipertensione, contrazioni muscolari, analgesia, mancanza di salivazione, ecc.) e si esprime (grido, rossore, pallore, esibizione, dilatazione delle pupille, spalancare la bocca, aggressività, alterazione del linguaggio, chiusura degli occhi, fuga, sottomissione, ecc.).

 

Paura e potere

A chi detiene poteri, serve uno che lo tema; sebbene il primo tema poi di perdere proprio chi lo teme. Nessun tiranno è sicuro dell’obbedienza/fedeltà del suddito, percependo sempre una precarietà che lo spinge a essere tanto più tiranno quanto più ha paura; cosa questa che non succede invece quando il potere è concepito ed esercitato come responsabilità, servizio, comunione. Tra i vari ruoli del potere, c’è anche quello di dover gestire disordini, ma quando non rispetta i principi che lo legittimano (per esempio, con libere elezioni, con la sottomissione dei regnanti alla stessa legge), rinforza e allarga la paura stessa (tipica, appunto, dei cittadini dominati), che prima o dopo trovano la forza di ribellarsi (dissidenza, rivoluzioni, terrorismo) e incutere loro paura al despota di turno, che a sua volta diventa ancora più crudele in un circolo vizioso/tragico (Hitler, Stalin, Mao, Franco, Pol Pot, Pinochet, Bokassa, Amin Dada, Gheddafi, Saddam) […].

L’uomo è il più pauroso fra gli esseri viventi, ma buona parte di questa paura è generata dall’uomo stesso contro l’uomo, dalla sua sete di dominio in una gara a chi fa più paura all’altro! Etnologici e antropologi hanno analizzato soprattutto le paure collettive, viste come scongiuro, rito propiziatorio, pratica sovra-razionale, dominio dell’angoscia, fuga dalle calamità, strumento apocalittico, ecc.; e sebbene nelle società moderne molte paure del passato siano scomparse (carestie, eclissi, invasioni barbariche), ne hanno però prodotte di nuove: guerre atomiche, nuove povertà, terrorismo, disoccupazione, inquinamento, migrazioni, manipolazioni genetiche, ecc.

 

Paura e pandemia

Preoccupazioni e disorientamenti per la salute occasionate dalla SARS-CoV-2 non sono apparse sempre giustificate, e si è sentito parlare di tutto: “trincee di guerra”, “orlo angosciante dell’abisso”, “ciclone che ha travolto il mondo”, “cigno nero che ha cambiato la storia dividendola in due”, “emergenza sanitaria più importante del secondo dopo guerra”, “senza le misure adottate in Italia avremmo avuto 250.000 persone in terapia intensiva e mezzo milione di morti”, ecc.! […]. Ora, noi non sottovalutiamo il virus, tuttavia osserviamo che esso è cugino di altri coronavirus che circolano nel mondo facendo ammalare ogni anno milioni d’individui con centinaia di migliaia di morti; e che le malattie infettive sono una presenza costante nella storia dell’umanità, con milioni e milioni di decessi.

Dunque, vien da chiedere ai “paurosi” se fino a ieri hanno vissuto sotto qualche campana di vetro o se non vedono quanta sofferenza e morte c’è nel mondo quotidianamente per mille altri motivi! Del resto: a) su oltre 50 milioni d’infettati, la maggioranza è rimasta asintomatica o facilmente guaribile; b) i danni più gravi si sono avuti nella maggioranza dei casi con persone molto anziane e già malate; c) i morti totali (oltre due milioni) sono solo lo 0,025 della popolazione mondiale; d) solo alcune decine di migliaia di persone sono morte per causa diretta e unica del virus […]. Dunque, anziché lasciarsi andare a catastrofiche fobie, si colga invece l’occasione per migliorare il sistema sanitario; favorire corresponsabilità politiche; riscoprire il silenzio e i valori della famiglia e della solidarietà; sperimentare un po’ di sobrietà; sensibilizzare alla bellezza delle piccole cose; seguire sempre norme di prevenzione igieniche (parlarci sempre a una certa distanza, non vivere in ambienti chiusi e affollati, evitare contagi fra malati negli ospedali, ecc.). Insomma: acquisire una maggiore consapevolezza della preziosità di quella vita che ci è donata e che non va sprecata […].

 

 

 

Note

1 L’espressione mima la definizione di G. Lukacs, Grand Hotel Abisso. Il filosofo ungherese giudicava i francofortesi residenti in una lussuosa suite del metaforico Grand Hotel Abyss, nel quale potevano dedicarsi a contemplare l’abisso che si apriva sotto di loro, la crisi della modernità che stavano attivamente accelerando, seduti in comode poltrone “tra pasti eccellenti e intrattenimenti artistici”.

2U. BECK, La società del rischio, Carocci, Roma 2005.

3 Ibid, p. 100.

4 G. ANDERS, L’uomo è antiquato, vol. 2, Bollati Boringhieri, Torino 2010, p. 14.

5 Ibid., p. 30.

6 Ibid., vol. 1, Bollati Boringhieri, Torino 2010, p. 229.

7 Ibid., p. 225.

8 G. ANDERS, L’uomo è antiquato, vol. 2, cit., p. 257.

9 Ibid., p. 15.

10 Ibid, p. 16.

11 G. ANDERS, L’uomo è antiquato, vol.1, cit., p. 250.

12 Cfr. E. PULCINI, La cura del mondo. Paura e responsabilità nell’età globale, Bollati Boringhieri, Torino, 2009, pp.187-219.

13ANDERS, L’uomo è antiquato, vol.1, cit., p.288.

 

 


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