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Azioni Parallele

NUMERO  7 - 2020
Azioni Parallele
 
Rivista on line a periodicità annuale, ha ripreso con altre modalità la precedente ultradecennale esperienza di Kainós.
La direzione di Azioni Parallele dal 2014 al 2020 era composta da
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Angoscia

 

Estratto da Angoscia
Radiografia e ricognizione del presente.  

 

Noi siamo angoscia

di Aldo Meccariello

 

Se si dovesse cercare un motto per descrivere la condizione contemporanea incalzata dalla pandemia, potrebbe essere questo: oggi viviamo nell’epoca della capacità di sentire l’angoscia. A seguito dell’esplosione dell’epidemia, abbiamo scoperto l’angoscia, ma di essa si parla ancora molto poco, forse perché è un’esperienza traumatica, come Freud ci insegna, un groviglio di contraddizioni, «un punto nodale, nel quale convergono tutti i più svariati e importanti interrogativi, un enigma la cui soluzione è destinata a gettare un fascio di luce su tutta la nostra vita psichica»1. Tuttavia, la percezione è ben reale, ma sembra rimanere a un livello soffuso, senza che sia vissuta direttamente. Tra psicoanalisi e filosofia, tra letteratura e antropologia, la questione dell’angoscia assurge a categoria ideal-tipica dell’epoca presente.

A partire da questo quadro di sospensione della vita comunitaria, da questo grado-zero della civiltà, si era già espresso il grande pensatore tedesco Günther Anders, che lamentava indignato la generale indisponibilità dell’angoscia a farsi sentire, proprio a causa di un deficit emotivo dell’immaginazione: sebbene impegnati in grandiosi programmi per il futuro supportati dalla tecnica, ci troviamo a non avere consapevolezza emotiva delle conseguenze delle nostre azioni. Siamo esseri insensibili ed anestetizzati, tanto che Anders interpreta la nostra come «lepoca dellincapacità a provare angoscia»2.

Oggi siamo immersi nella minaccia del Covid-19 e domani chissà. Viviamo minacce presenti e future: si impone concreta e tangibile quella folgorante immagine leopardiana del formidabile deserto del mondo,evocata in una lettera a Pietro Giordani del 1819. Il variare delle modalità della circolazione epidemica e del contagio pestilenziale (dalla collera degli Dei, nell’Iliade omerica, che sparge la peste nel campo acheo, alla collera della natura in tante fasi della storia) ha influito nelle faccende umane sia nei tempi antichi sia nei tempi moderni. Il pianeta sembra non reggere più: la deregolamentazione ecologica globale, i cui effetti sempre più massicci (riscaldamento climatico, massacro della biodiversità, inquinamento dell’aria e degli oceani, esaurimento delle risorse naturali) già colpiscono l’insieme del vivente e delle società umane. L’ecosistema è impazzito, i confini tra l’umano e il bestiale sono saltati, la natura sembra voglia vendicarsi del genere umano, come se ci stesse buttando con violenza fuori dalle sue ali protettive, dal suo grembo rassicurante.

Ora, dobbiamo recuperare il sentimento dell’angoscia per acquisire piena consapevolezza della nostra fragilità e vulnerabilità, per generare quel significato e quell’attenzione per le cose del mondo, per coabitare con il nostro deficit di esistenza. Dopo Kant, il secolo XX ha conosciuto due guerre mondiali, l’olocausto, l’atomica: eventi traumatici, tellurici, che hanno imposto la necessità di ripartire dalla radice, la necessità di un cambiamento epocale. Quello che è successo dopo il 1945 è stato un mutamento epocale segnato dall’incombente minaccia di morte, estesa all’intero genere umano e all’ecosistema che ne riproduce la vita. Oggi, c’è un nuovo mutamento epocale. Il genere umano è esposto alla furia devastante di una pandemia che può cedere il passo ad altre pandemie, negli anni a venire. Come ammonisce Günther Anders, è il tempo di dismettere la veste di Titani della natura che indossiamo da quando è iniziato il nostro dominio.

Quella che era stata la cosa più importante per i nostri genitori, “ultimi uomini”, è diventata senza valore per noi figli, i “primi Titani”; i loro sentimenti più cari ci sono estranei […]. Noi, uomini d’oggi, siamo i primi uomini a dominare l’Apocalisse, perciò siamo anche i primi a subire senza posa la sua minaccia3.

Dall’Apocalisse atomica all’Apocalisse naturale il passo è stato breve. Sporgiamo sullorlo dellabisso4. Quanto più si è cresciuti in potenza, tanto più si è sviluppata una tecnologia non più dominabile. Il futuro non si presenta più in termini di progresso, ma d’incertezza.

Il pianeta è sovrappopolato, ci siamo presi troppo spazio, siamo penetrati troppo nell’ordine delle cose. Abbiamo turbato troppo l’equilibrio, abbiamo già condannato troppe specie all’estinzione. La tecnica e le scienze naturali ci hanno trasformati da essere dominati dalla natura a dominatori della natura5.

In pericolo è la vita stessa, non esclusivamente la vita umana, bensì l’incolumità del pianeta, dell’ambiente che ci accoglie; tanti sono i problemi globali (il sovraffollamento, l’esaurimento delle materie prime, il danno all’atmosfera per l’emissione di gas nocivi, il degrado del suolo, delle acque e degli ecosistemi vegetali e ora i virus) che minacciano il futuro delle generazioni future e la sopravvivenza della specie. In tempi antichi e meno antichi, ci si metteva al riparo dagli eventi imprevisti della natura, oggi i rischi e i pericoli per l’umanità dipendono dalle nostre decisioni. 

Questo è il punto della questione. Dinanzi ai pericoli e alle minacce che possono indurre facilmente alla disperazione, occorre riabilitare il primato della relazione morale e ritornare a riappropriarci della nostra umanità. Come? Bisogna imparare a sentire l’angoscia, la quale non è un deficit di esistenza, semmai la sua vetta, il suo lato più misterioso e primordiale. Noi siamo angoscia.

  

 

Tra umanizzazione e disumanizzazione

di Giuseppe D’Acunto

 

Secondo il sociologo tedesco Norbert Elias (1897-1990), le trasformazioni del comportamento umano, nel senso della civilizzazione, possono essere comprese solo a una condizione: a patto di saper individuare il mutamento nella struttura delle angosce cui esse si ricollegano. Le angosce fungono così da referenti primi per guadagnare un’intelligenza dei principi che governano la dinamica delle trasformazioni sociali, in virtù del fatto che si dà un nesso strettissimo fra il profilo individuale di esse e i processi collettivi di civilizzazione.

[L]a struttura delle angosce non è che la controparte psichica delle costrizioni che gli uomini esercitano gli uni sugli altri, in forza della loro interdipendenza sociale. Le angosce costituiscono uno dei canali di collegamento piu importanti attraverso i quali la struttura della società si trasmette alle funzioni psichiche dell’individuo. […] [L]’intensità, la forma e la struttura delle angosce che covano o esplodono nell’individuo non dipendono mai soltanto dalla sua natura umana e, soprattutto nelle società più differenziate, non dipendono mai dalla natura in seno alla quale egli vive; in ultima analisi, sono sempre determinate dalla storia e dalla struttura effettiva dei suoi rapporti con i suoi simili, dalla struttura della sua società, trasformandosi con essa1.

Elias pensa di aver individuato così una chiave indispensabile per indagare su tutti quei problemi che si originano dalla regolamentazione del comportamento e dal codice sociale delle prescrizioni e dei divieti. Nessuna società può esistere, infatti, se non irreggimenta le pulsioni e gli affetti individuali, ossia se non provvede a regolare in un certo modo il comportamento dei singoli individui. Cosa che è possibile solo se gli uomini esercitano gli uni sugli altri delle costrizioni: costrizioni, le quali si convertono, in chi le subisce, in angosce di un tipo o dell’altro.

Non solo. Ma – ancora più alla radice – le angosce hanno giocato un ruolo prioritario anche in senso evolutivo. Come rileva lo zoologo svizzero Heini Hediger (1908-1992), la prima cosa che la natura esige dall’animale è proprio quella di imparare a spaventarsi, nel senso che la fuga rapida e mirata davanti al pericolo è il primo dei doveri che compete alla conservazione della specie. In più, il corpo stesso dell’animale, ossia tanto i suoi organi sensoriali e di locomozione quanto tutti gli altri, sarebbe strutturato così com’è, proprio per adempiere a una tale funzione fondamentale2. Lungo questa via, il paleoantropologo tedesco Rudolf Bilz (1898-1976) è arrivato a vedere nell’angoscia, addirittura, l’anello capace di spiegare la transizione dall’animale all’uomo, ossia quel retaggio biologico che noi, consapevoli o meno, ci portiamo sempre dietro, in prospettiva onto- e filogenetica3.

Ma l’angoscia porta in sé anche una componente enigmatica: enigma che noi non riusciremo mai, completamente, a sciogliere e a decifrare. In caso di situazioni conflittuali, essa può facilmente rovesciarsi, infatti, nel suo contrario, nel senso che l’individuo che ne è affetto può arrivare ad agire «contro il proprio interesse all’autoconservazione, fino a distruggersi nel caso estremo»4.

Insomma, l’angoscia non è affatto uno stato d’animo rigido e monolitico, ma presenta un profilo altamente plastico, tant’è che due psichiatri tedeschi, Walter von Baeyer (1904-1987) e Wanda von Baeyer-Katte (1911-1997), hanno parlato di un vero e proprio «divenire dell’angoscia», riferendosi al fatto che, nel quadro di una visione antropologica globale, essa può implicare, a seconda delle circostanze, tanto una umanizzazione quanto una disumanizzazione dell’istinto. 

[N]on si può elaborare uno schema dell’evoluzione dell’angoscia umana […] univoco, mentre si può sostenere la tesi di carattere generale che l’angoscia attraversi, partendo dalla sua base istintiva, un processo di umanizzazione. […] Quando parliamo della storia dello sviluppo dell’angoscia noi ci occupiamo quindi dell’«umanizzazione» di un istinto. Nel contempo però dobbiamo anche parlare delle possibilità e delle realtà delle sue «degenerazioni»5.

Ma l’angoscia è caratterizzata da un aspetto dinamico, anche in quanto, come angoscia reale, essa può essere opportunamente convertita in angoscia fantasmatica. Scrive l’etnopsicoanalista svizzero Mario Erdheim (n. 1940):

Il significato dell’angoscia per la cultura è dato dalla sua straordinaria capacità di poter essere spostata […]. Dal momento che è possibile trasformare l’angoscia reale in angoscia fantasmatica, essa diventa un materiale plastico che trova impiego nella cultura6.

E per trovare un primo esempio di tutto ciò, non abbiamo che da andare al mondo “incantato” delle fiabe, quale è stato studiato, in particolare, dallo psicoanalista austriaco Bruno Bettelheim (1903-1990). Egli muove dalla considerazione secondo cui si produce uno sviluppo difettoso della personalità nel caso in cui una componente di essa – Es, Io o Super-Io – tende a sopraffare le altre, svuotandoci così delle nostre risorse più originali. Quando, ad esempio, qualcuno vive completamente immerso nelle sue fantasie, ebbene, questi è ossessionato da «ruminazioni coatte che ruotano eternamente intorno a pochi temi angusti, stereotipati». Lungi dall’avere una vita fantastica ricca, tali persone «sono come prigioniere, e non possono sfuggire ai loro sogni ad occhi aperti ispirati dall’ansia» e, quindi, «volti al soddisfacimento immaginario di desideri frustrati».

Ora, un modo di evitare tutto ciò è offerto al bambino proprio dalle fiabe, nella misura in cui esse possono «impedire alla sua immaginazione di rimanere bloccata entro gli angusti confini delle poche fantasticherie ansiose»7. Dal momento che la psicoanalisi ha messo in luce quanto ansiosa, distruttiva o, addirittura, violenta possa essere l’immaginazione di un bambino, Bettelheim ne conclude che la frequentazione delle fiabe è proprio ciò che può aiutarlo a trasformare l’angoscia che lo attanaglia nel grande piacere di affrontarla e di dominarla con successo8.

 

 

Note 

1 S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi. Prima e seconda serie di lezioni, tr. it. di M. Tonin Dogana e E. Sagittario, Boringhieri, Torino 1978, p. 355. (La citazione è tratta dalla Lezione 25 dedicata all’angoscia). Cfr. E. Borgna, Angoscia in Aa. Vv., I concetti del male, a cura di P. P. Portinaro, Einaudi, Torino 2002, pp. 19-29. Qui, leggiamo: «Langoscia non è la paura. L’ansia e l’angoscia sono espressioni che rimandano a comuni stati di cose e sono talora usate come sinonimi, e talora come indicatori di emozioni diverse. […] Angst è la sola parola di cui il tedesco dispone per significare gli stati d’animo che corrispondono ad ansia e angoscia; mentre in inglese al termine anxiety, ansia, si accompagna anche il termine anguish, che significa angoscia, tormento interiore» (p. 20).Cfr., inoltre, E. De Martino, Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria,a cura di C. Gallini, Bollati Boringhieri, Torino 2000, pp. 30-31.

2 G. Anders, Luomo è antiquato, 2 voll., Bollati Boringhieri, Torino 2007; vol. I: Considerazioni sullanima nellera dellaseconda rivoluzione industriale, tr. it. di L. Dallapiccola, p. 249.

3 Ivi, pp. 226-227.

4 Cfr. H. Jonas, Sullorlo dellabisso. Conversazioni sul rapporto tra uomo e natura,a cura di P. Becchi, Einaudi, Torino 2000.

5 Ivi, p. 7.

1 N. Elias, Potere e civiltà. Il processo di civilizzazione II, tr. it. di G. Panzieri, il Mulino, Bologna 1983, p. 422.

2 Cfr. H. Hediger, Die Angst des Tieres, in Aa. Vv., Die Angst,Rascher, Zürich 1959, pp. 7-34.

3 Cfr. R. Bilz, Studien über Angst und Schmerz. Paläanthropologie, vol. 1/2, Suhrkamp, Frankfurt/M. 1974.

4 B. Görlich, Angoscia, in Aa. Vv., Le idee dellantropologia, 2 voll., a cura di C. Wulf, ed. it. a cura di A. Borsari, B. Mondadori, Milano 2002, vol. II, p. 894.

5 W. von Baeyer – W. von Baeyer-Katte, Langoscia, tr. it. di G. Bordin e R. Tschrepp, Il Pensiero Scientifico, Roma 1977, p. 7. I due psichiatri proseguono affermando che «da un’angoscia spinta patologicamente all’estremo, deformata e celata dietro i disordini del comportamento ed i malesseri più disparati, può scaturire una redenzione esistenziale, una produttività spirituale elevatissima». Ciò avviene, però, solo in alcuni casi, in quanto «il pericolo di venir da essa guastati è maggiore della possibilità d’elevarsi per mezzo suo» (p. 8).

6 M. Erdheim, Psychoanalyse und Unbewußtheit in der Kultur. Aufsätze 1980-1987, Suhrkamp, Frankfurt/M. 1988, p. 297.

7 B. Bettelheim, Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe, tr. it. di A. D’Anna, Feltrinelli, Milano 1977, p. 117.

8 Cfr. ivi, p. 120.

 


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