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Azioni Parallele

NUMERO  7 - 2020
Azioni Parallele
 
Rivista on line a periodicità annuale, ha ripreso con altre modalità la precedente ultradecennale esperienza di Kainós.
La direzione di Azioni Parallele dal 2014 al 2020 era composta da
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Da Spaventa a Gentile: Il lungo percorso della Filosofia della prassi

 

Introduzione

Nell’elaborare la stesura del presente lavoro, abbiamo tenuto presente soprattutto e peculiarmente i luoghi piuttosto ripetuti nel corso dei diversi tempi storici dalla storiografia relativa allo svolgimento della teoria della pratica, meglio qualificata ed esposta come dottrina marxiana della prassi. Con la medesima intenzione abbiamo tentato di esplicarla secondo i luoghi e le circostanze più diffusi del suo intrinseco significato che dal punto di vista della mera giurisprudenza viene designata come attuazione perentoria degli scopi individuali ed universali secondo una regola che può ascriversi alla realizzazione dei diritti esatti dal proletariato in quanto essa costituisce, per così dire, la norma abitudinaria per mezzo della quale gli operatori del diritto, in generale, si conformano ad esso. E se questa non si distingue da quella filosofica che, invece, più estesamente e riflessivamente la ripensa, di là dalle abitudini instaurate da individui che agiscono normalmente e giustamente in difesa dei propri peculiari interessi, non si deve, tuttavia, dimenticare che lo svolgimento di quella, intemporalmente ed aspazialmente descritta da Marx, ha avuto bisogno, invece, come di solito accade nel corso delle vicende storiche umane, del relativo tempo nel quale estrinsecarsi. Ragione utile e necessaria per individuare il progetto marxiano che consta nel condurre alla felicità esaustiva tutte le classi sociali e che esso si doveva manifestare, pertanto, come atto temporalmente necessario che vede agenti, in quanto costruttori del processo storico materiale, tutti coloro che vengono individuati come attori del proprio tempo storico. Bertrando SpaventaCiò legittima, pertanto, l’azione degli stessi relativamente al tempo testé considerato, ma li priva ancora una volta della riflessione per mezzo della quale si preparano le rivoluzioni normalmente, che, sull’esempio di quella francese, hanno configurato una preparazione intellettuale e morale, in quanto ideologicamente descritta dai medesimi fautori del Materialismo Storico. Che se esso appare come la pura e semplice attuazione della prassi consolidata empiricamente e storicamente, come prescrivono altresì le circostanze necessariamente intervenute, si deve concludere che l’atto rivoluzionario, o semplicemente l’atto in generale, come elemento assoluto e volontario, determina semplicemente gli scopi descritti, che né distingue né estingue gli stessi, come avviene, invece, in Spaventa, nel quale la distinzione nella estinzione esercitata dalla mentalità, in quanto pure atto della stessa, sono suffragati dalla dialettica processuale di chiara origine hegeliana.1 Il lessico marxiano, in ogni caso, di là dalle protensioni dello stesso Spaventa, si addice in ogni caso a Gentile, che non muta una virgola dell’assetto rivoluzionario predisposto dall’apparato investigativo marxiano contenuto nel Materialismo Storico e nella realizzazione della prassi, originariamente interpretata come mera prosecuzione dell’Idea hegeliana nel suo dinamismo cosmico-storico, capace, cioè, di generare le infinite pulsioni orizzontali contemplanti la diversità infinita degli stessi nell’ambito dei progetti cui gli individui sono chiamati, secondo la direzione generale dello Spirito, così configurata, che non ha fretta in ogni tempo di realizzare. La rivoluzione hegelo-marxiana, intesa come attuazione di una prassi dicotomica omogeneo-eterogenea contemplante giustappunto i propri fini da realizzare, è realmente descritta da Gentile nel suo libro su Marx nel quale accentua altresì la testuale distinzione tra soggetto ed oggetto, in costante riferimento a quella kantiana notissima che ha, tuttavia, per il significato che le compete, tutt’altra fisionomia in quanto per Kant essa sta ad individuare l’attività perenne della soggettività che si muove nell’ambito della sintesi a priori come mirabile connessione del concetto con la sua intuizione corrispondente e procedente al contempo verso ulteriori sintesi originarie, mentre l’atto rimane vincolato alla pregnante volontà esaustiva del suo promotore.

Il soggetto – scrive infatti Gentile – l’attività pratica di Marx è la tesi; le circostanze, l’educazione sono l’antitesi; il soggetto modificato dalle circostanze e dall’educazione, la sintesi. E poiché il soggetto è l’attività originaria che pone l’oggetto, esso è pure l’essere, che nega sé ponendo l’oggetto, in quanto questa posizione è una determinazione singola della sua attività e, come diceva Spinoza, omnis determinatio est negatio. L’oggetto, quindi (le circostanze, l’educazione), equivale al non-essere hegeliano; la cui contraddizione intrinseca all’essere produce il divenire dell’essere stesso, cioè del soggetto che viene, come s’è detto, modificato dall’oggetto (circostanze, educazione).2

La prassi si avvale, così, ed ulteriormente del metodo sociologico-storico per ricostituire il metodo sintetico originario kantiano contemplante aprioristicamente l’unità categoriale conoscitiva che non viene per nulla modificata dal mondo esterno fenomenico, essendo, invece, quello il suo sempiterno ricostruttore che unifica il molteplice esterno per caratterizzarlo come sua essenza interiore realizzata non esaustivamente. Il carattere o lo statuto della volontà, intesa come atto assoluto suo esprimente la determinazione dello Spirito come tale, è completamente diverso dalla sintesi originaria kantiana in quanto per Gentile quella costituisce la prassi designata come svolgimento della sua abituale attività, così determinata, tale da realizzare ciò che essa esige come unico scopo reale da raggiungere. Essa si estingue, perciò, in questo, e così ogni attività distintiva, in quanto riflessione pervicace sui modi e sui tempi richiesti, invece, dalla preparazione dell’azione che diviene in Gentile, in stretto connubio con le teorie di Marx, solo esercizio pratico attuativo della volontà. Il dissidio con lo stesso Croce, suo amico ottimo ed esegeta primario delle iniziali partiture riflessive sui processi storici umani e dei suoi ideali svolgimenti, viene con La filosofia di Marx completamente realizzato, poiché la volontà dell’atto, prassisticamente descritta come inevitabilmente compiuta, supera tutte le distinzioni che il filosofo di Castelvetrano si era impegnato, invece, negli istantanei contatti originari, ad individuare con l’amico, soprattutto nelle dispute sulla letteratura italiana nelle quali Gentile palesava, per il lungo discepolato letterario con il suo maestro Alessandro D’Ancona, maggiore competenza rispetto a Croce. Questo atteggiamento è sintomatico, infatti, in Gentile, che mostra all’amico la necessità del valore processuale della filologia quando è chiamata a giudicare i contenuti da esporre, frutto della volontà dello scrittore impegnato a descrivere la competenza dei singoli autori che individuano le circostanze ed i relativi contesti intellettuali e morali in cui i medesimi si esprimono; a Croce, invece, ineriscono i contenuti in quanto esplicazione dell’attività svolta dai singoli autori nei diversi contesti storico-operativi dei medesimi che, in virtù della licenza espressiva, si distinguono contenutisticamente pure dagli altri, ma ad essi si possono, pertanto, collegare, anche se la diversità dei tempi è inevitabile per taluni casi, in modo da formare un solo organismo culturale esatto dalla continuità storica dei diversi contesti operativi. L’unità nella distinzione e nella diversità di tutto l’apparato produttivo contenutistico decreta, per così dire, più esplicativamente il concetto della contemporaneità della storia, nel corso della quale il passato emerge sempre come eterno presente, ovvero con il presente storico con cui di solito sono trattati i generi letterari e gli autori che la storia filosofica riferisce come il loro stare insieme, nel segno della continuità con quelli di un passato storico, costituenti, così, per tali rispetti, i precursori di questi per il tempo storico presente. Ci piace, pertanto, prima di rinviare alla lettura della nostra breve riflessione, citare quanto Croce scrive a Gentile per un’altra polemica intervenuta tra i due pensatori a proposito di De Sanctis circa il rapporto tra il contenuto e la forma letteraria, che si collega inevitabilmente alla concezione della prassi individuata ed esposta dai medesimi:

Vi sono grato di avermi fatto – scrive Croce a Gentile nella lettera dell’8 ottobre 1898 – le vostre osservazioni sulla questione del contenuto non interessante. Al solito le vostre obiezioni entrano nell’intimo della questione. Ho messo per iscritto nel foglietto aggiunto le idee mie sul proposito. Soggiungo a chiarimento che il contenuto non interessante di cui parlo è differente dal contenuto inestetico dello Zumbini, in ciò che quello di cui io parlo può dar luogo ad un’opera d’arte vera e propria, benché non interessante, laddove il contenuto inestetico dello Zumbini non si presta ad essere elaborato esteticamente. Leggete, vi prego, le mie osservazioni e ripensateci.3

Per un’esposizione più concreta della concezione della prassi intesa come svolgimento della volontà operativa dell’atto, rinviamo, così alla redazione del capitolo unico successivo in cui quella, entro limiti descrittivi possibili, potrà essere autenticamente individuata.

 

Capitolo Unico: Per una valida interpretazione della concezione della prassi

Riprendiamo repentinamente, ma non pretestuosamente, per fini non obsoleti inclusi nella presente ricerca, le parole di Spaventa contenute nella lunga annotazione esposta nel Frammento Inedito datato 1880, desunto dal Manoscritto intitolato Protagora, che non sono altro che una esposizione, nonché un chiarimento sulla dottrina dell’essere e del pensare considerati nella loro aporetica connessione, quando essi – per così dire – si confrontano dialetticamente, risultando in tal modo i costruttori del divenire del libero pensare che è il fondamento, ma non una inclinazione, della riscoperta dell’essere nella sua genuina autenticità.

Non ho voglia, – scrive infatti Spaventa – di fare il pedante perché ho avuto sempre una naturale ripugnanza per questo mestiere, né ho il diritto di farlo perché non posseggo una cognizione piena e soda del tedesco e del francese. Ma, con tutto ciò, non posso fare a meno di osservare che il testo dice: dialektisch in sein Entgegensetzen umschlägt, e il se change solo non rende l’umschlägt, e salta a piè pari il dialektisch, parola tecnica e sacramentale nell’hegelismo.4

 

Al di là dei luoghi prediletti linguistici, diversi secondo il loro uso ed il relativo legittimo significato, la tendenza all’hegelismo costituisce un dato di fatto incontrovertibile in quanto sta ad indicare altresì la capacità insita in ogni verace interpretazione dello svolgimento e della realizzazione della prassi che dal punto di vista teoretico è individuata come comprensione ed attuazione del testo che si esplica normalmente in un determinato contesto operativo. Che l’umschlägt sia concretamente diverso dal change sta a significare che il primo contiene il concetto di mutamento essenziale di ciò che cambia in un altro da sé, che – per così dire – lo assimila comprendendolo, in quanto essere divenuto altro, che non è, cioè, più ciò che era prima, procedente eternamente, per ritornare, tuttavia, a configurarsi in altro modo, venendo, pertanto, ancora capovolto dall’impeto che gli è proprio in un nuovo ordine che questo si dà. Questa capacità di comprendere e di farsi sempre nuovo è, secondo noi, il ravvisato capovolgimento, che non è il suo concetto astratto, ma il suo pensiero concreto che ha operato ed opera continuamente e diversamente dal change che implica, invece, un mutamento di cui non tutti si accorgono che sia realmente accaduto in quanto è solo di facciata, poiché presuppone che, una volta modificato il reale, tutto torni ad essere come prima, essendo solo e semplicemente mutate le circostanze, la spazialità e la temporalità esteriori degli avvenimenti in quello contenute, ma non la loro interiore e contestuale essenzialità storica. L’umschlägt è, perciò, e per tali rispetti, il risvolto operato dalla prassi che non è abilitata ad agire arbitrariamente, ma secondo i moduli che essa individua per rendere operativi gli astratti ed apparenti semantici verbali che, se fossero prolungati all’infinito, produrrebbero solo infinite astrazioni che rischierebbero di divenire tali, mentre essa le configura nei loro limiti, rendendo – per così dire – l’ideale reale, così come avviene per la storia empirica che trascorre nella propria realtà, pur conservando la propria idealità. Essa, pertanto, come prassi ideale, è giustappunto quella descritta da Spaventa che si esprime a questo punto in tal modo: 

Tutto questo discorso torna a dire – egli scrive – ciò che ho ricordato sin da principio: la categoria, la determinazione logica, e perciò l’essere, il non-essere etc., è essenzialmente attualità mentale; e su questa attualità si fonda il processo dialettico. Questa è l’assoluta esigenza qui; io non devo stare a guardare, e ripetere poi ciò che avviene nell’essere, nel non essere etc. (se pur avviene) e in generale nell’Ente, nell’oggetto del pensiero; ma l’atto dell’Ente è l’atto mio, in quanto io dico di ripensare, sono uno e medesimo atto: vediamo ora finalmente se questa esigenza è adempita.5

 

L’atto del pensare o l’assoluta mentalità che distingue l’essere nella sua indifferente differenza, tanto da impossessarsi dell’Ente del quale è al contempo divenuto sua potenza, costituisce la prassi rovesciata che nell’umschlagen la rinnova puntualmente ad ogni piè sospinto, implicativamente diverso, per l’appunto, dal change il cui termine, come abbiamo testé già sottolineato in generale viene osservato dalla prassi abituale che è solita distinguere ogni elemento, come il pensare ed il pensato, l’actus e l’actum (considerato questo come oggetto), ma mai la designazione dell’atto che diviene atto assoluto mentalmente in grado di sapere distinguere ed estinguere ogni essere (ma più probabilmente solo estinguere), o l’Essere medesimo che, come sola potenza, risulta implicativamente e non complicatamente atto assoluto. Ogni astrazione, in quanto pure deduzione, viene superata poiché estinguere e distinguere sono considerati comunemente dall’essere come funzione del pensare, che ha sempre, tuttavia, da pensare e da distinguere, ma non all’atto assoluto del pensare che si configura, invece, come attuazione non più astratta, ma concreta del pensare medesimo nel quale è compreso pure l’Essere che non può, pertanto, più essere ripensato, essendo divenuto la nota assoluta e dominante dell’atto del pensare. La trasformazione della prassi abituale in quella concreta è sentenziata, così, da Gentile che, nel commentare l’epilogo di tale assoluto mutamento intervenuto nel ripensamento spaventiano arroccato negli anni ’60 ancora alla abituale distinzione tra il pensare ed il ripensare, osserva nel cap. VII, dedicato a La riforma della Dialettica hegeliana tentata da Spaventa,che il tentativo di modificare la dialettica hegeliana è riuscito solo in parte, sin dal lontano 1864, allorché apparve la sua prima Memoria edita sugli «Atti della Accademia Pontaniana», soprattutto a livello storiografico per l’apparato delle distinzioni logiche che facevano in lui presagire un allontanamento dal panlogismo hegeliano sotto l’influenza di Werder e di Fischer. La Logica del 1867 a Spaventa prescrive la redazione dell’elemento monolitico dell’atto assoluto che si allontana, pertanto, dalla distinzione e dalla estinzione predicate per lungo tempo, anche se continuano a coesistere in modo frammentario, per consegnarsi alla prassi assoluta che né distingue né estingue.

Lo Spaventa – scrive Gentile – invece, non solo non indietreggiò più nella coscienza dell’errore hegeliano e della necessità di una riforma della nuova dialettica, ma progredì e da un suo scritto inedito, ora scoperto, si può arguire che abbia anche raggiunto la meta, instaurando davvero il principio della dialettica come Wissenschaftslehre. Già nella sua memoria del 1864 aveva approfondito molto l’intuizione del Werder e del Fischer dell’attualità logica o mentale della categoria. L’essere era ancora per lui il pensato, e non il pensare: cioè pensare come pensato. Ma in questo pensato stesso s’intravvedeva il pensare, quantunque l’oggettivarsi del soggetto a se stesso apparisse ancora piuttosto come un’impotenza (motivo svolto dall’altro hegeliano d’Italia Antonio Tari) anziché come la celebrazione della reale potenza del pensare.6 

L’umschlagen, insomma, per Gentile ha sortito nello Spaventa un impeto rivoluzionario che ha efficacemente acquisito il proprio impatto come volontà e come moto in atto, quale movimento che investe tutta l’attività dello spirito che solo apparentemente si palesa come prassi abitudinaria, mentre in realtà comprende, in quanto in piena e totale sintonia con essa, la scienza, la Wissenschaftslehre che è nella sua peculiarità la Dottrina intesa non come somma di porzioni scientifiche, ma come elemento organico della totalità che si muove in tutte le direzioni dello Spirito. Gentile è tanto più convinto che compie una operazione mirabile desunta dalla pubblicazione delle opere di Spaventa, talora inedite, con l’ausilio di Croce che avrebbe desiderato addirittura essere l’editore, non tanto per pubblicizzare gli scritti di Spaventa, ma per aiutare il proprio amico Gentile, col quale aveva stabilito già da alcuni anni un sodalizio intellettuale. A Spaventa, infatti, come è noto alla storiografia ufficiale filosofica, inerisce ogni approccio intellettuale, mentre per Croce è il Teologo-Monaco, che serbava il ricordo negativo giovanile dovuto ad alcune incomprensioni familiari (Croce era, infatti, imparentato con i fratelli Spaventa) che lo conducono ad abiurare la sua dottrina filosofica la quale, perciò e di contro, è consegnata a Gentile nella sua purezza, non essendo stata minimamente scalfita, se non da semplici, ma approfondite osservazioni analitiche determinanti l’impianto polemico che, tuttavia, e ciò nonostante, restituivano allo stesso la struttura totale delle opere del filosofo di Bomba. La riedizione delle opere spaventiane, desunta nei suoi tratti caratteristici dai manoscritti, ora posseduti in larghissima parte dalla Biblioteca Civica Angelo Mai di Bergamo, è sicuro indizio delle future scelte editoriali di Gentile, che non tralascia occasione particolare per polemizzare non solo con Croce, ma per dedicarsi altresì agli studi sul Materialismo Storico di Marx ed al vagheggiato Socialismo Utopistico, argomenti prediletti di quest’ultimo, nel tentativo di dichiararne presumibilmente l’autentica connotazione scientifica e rivoluzionaria al contempo. La filosofia di Marx, apparsa editorialmente per la prima volta nel 1899, mentre la seconda è del gennaio 1937, contiene nell’Avvertenza dell’opera una importante annotazione che la conclude, nella quale Gentile sottolinea la necessità della sua ristampa, in quanto nel libro non si tratta semplicemente di cose passate di un secolo passato, ma di cose che, in quanto provate, sono state abbondantemente pensate e spaventianamente ripensate, perché fondate sui documenti (e di qui il richiamo a Croce). Il Materialismo Storico, come nucleo rivoluzionario in sé contenuto, non è, dunque, per il Nostro mera utopia, poiché contempla efficacemente il dialettismo hegeliano di cui dichiara la continuità storico-ideale, ed in piena sintonia con Hegel, Marx rivendica la reale capacità dei bisogni umani materiali che si conformano alle loro diverse esigenze e alle istanze cicliche della storia ideale eterna umana con la quale gli individui fanno, per così dire, sempre i conti, contrapposti, come sono, alla rispettiva diversa collocazione gerarchica della struttura sociale nella quale sono posti. Le loro necessità, pertanto, in quanto materialmente acclarate, li spingono a dichiararsi per tali rispetti individui liberi e non più soggiogati ad altri, per ripensare l’ordine esistente in quanto già pensato anteriormente da altri; da qui l’actus spaventiano che ricerca ciò che fa, distinto comunque dall’actum, in quanto oggetto dell’azione che da quello la riceve, qualificandosi meglio come prassi autentica in quanto modificatrice del reale. Essa è tale che, così instaurata, prevale sul pensare che non ha il benché minimo tempo di prepararla adeguatamente con la dovuta riflessione, tanto da nientificare pure gli sforzi spaventiani pur sempre protesi a salvaguardare l’actus che è il semplice agire non ancora divenuto atto volontario, trasformato in prassi esaustiva che traduce in azione qualunque contenuto operativo che gli si presenta davanti. Il Materialismo Storico, esposto nella sua prassi reale, risulta egemone in tutte le pratiche manifestazioni che vengono esplicate dalla originaria teoria dialettica della storia che procede essenzialmente ad individuare i mutamenti epocali dei bisogni umani, configurandosi, pertanto, come actus in costante e perenne ricerca dell’actum da quello sempre predicato, contrariamente alla teoria crociana che lo definisce come canone di interpretazione storica intesa come ricerca dei fatti e degli avvenimenti che vengono narrati in conformità con lo svolgimento del diverso contesto epocale che si modifica sempre per esplicare, così, costantemente nuove esigenze per mezzo delle quali gli individui palesano la necessità di essere gli interpreti liberi del proprio contesto storico autentico. In realtà il contrasto tra Croce e Gentile avviene per il confronto sulla teoria della Filosofia della Storia, ovvero se essa sia deterministicamente realizzabile nel contesto del Materialismo Storico, o se esso si presti ad essere semplicemente un canone di interpretazione teoretico in cui la storia si esplica autenticamente come storiografia dei fatti storici narrati, scevri dalla prassi che, invece, per così dire, li annulla, facendoli pertanto essere ciò che essa dispone arbitrariamente che siano. E se tanto più lo storico che svolge al contempo il ruolo di filosofo si richiama costantemente e pervicacemente alle analogie, ciò non significa per Croce confondere i contesti che saranno, così, sempre compresi sia dagli autori, sia dai loro interpreti, come nei casi precedentemente citati; quelle, infatti, sono rese necessarie per comprendere che all’interno di un contesto storico originario si esplicano forze interpretative libere che, nel loro sostanziale e perenne sviluppo, si modificano e pervengono a determinate soluzioni di problemi, agitate pure dalla sana riflessione e che, pertanto, verranno costantemente in seguito ripensate. Gli esempi, a questo punto, si sprecherebbero se per un solo istante si potesse pensare alla teoria platonica delle idee e dei suoi sviluppi contestuali successivi. Ci basta, invece, citare una lettera di Croce a Gentile del 23 maggio 1897 nella quale Croce ritorna a polemizzare con l’amico sul ruolo della Filosofia della Storia, osservando quanto segue: 

Non le dico niente sulle considerazioni ch’Ella fa intorno alla filosofia della storia. Problema difficile nel quale mi accorgo di non essere ancora maturo. E provo il bisogno di studiarlo da capo, e con agio. Mi pare però che non si possa per nessun conto sottrarre dalle attribuzioni dello storico lo strumento dell’analogia: non si può fare un passo nella critica storica senza lo strumento dell’analogia. O lo storico sarà sempre un filosofo della storia?7

 

Il filosofo della storia, come Croce sentenzierà solo più tardi, nella prima edizione della Logica del 1905, parlando giustappunto del Filosofismo, è nutrito di logicismo, che è la capacità degli Autori di descrivere il carattere logico, quale suo svolgimento, così disegnato, della storia che si comprende nel suo esplicarsi come pura causalità e non secondo quello della imprevedibilità, nella quale ultima, invece, si feconda il ruolo della interpretazione intesa come canone autentico usato dagli Autori, come dai loro Interpreti non per egemonizzare il reale, ma di scorrerlo, invece, nella diversità dei suoi orizzonti nei quali i fatti e gli avvenimenti sono narrati e caratterizzati al contempo nella loro diversità prospettica. Il logicismo è, pertanto, solo la riduzione schematica del molteplice all’uno, come è riscontrabile puntualmente pure in Spaventa del quale, tuttavia, egli lascia, per così dire, la porta aperta, alla estinzione che dialetticamente diviene di nuovo distinzione del fatto o degli avvenimenti narrati da parte del pensare. Gentile, invece, non si spinge oltre la datità del fatto che non viene, pertanto, sottoposto ad ulteriori accertamenti, rimanendo solo un mero dato schematico privo del suo fondamento problematico, incanalato nella sua pertinenza schematica, dalla quale non si esce se non per inorgoglire gli Autori di avere sviluppato il contesto materialistico della storia, come nell’esempio della Glossa XI contenuta nel libro sulla Filosofia di Marx, desunta dal Manifesto del Partito Comunista,8 nel quale Gentile coglie e comprende la nota dominante dello svolgimento della filosofia della prassi con la quale dichiara la perfetta sintonia d’intenti, soprattutto in riferimento allo svolgimento del sistema logico di cui essa è latrice. Logicizzare il sistema equivale, per il filosofo di Castelvetrano, a realizzarlo nella sua determinante esposizione progressiva nella quale intervengono fatti empirici storicamente implicanti il divenire degli individui relativamente alle loro esigenze qualificate come solo mero stato di necessità convenuto, conformemente pure a ciò che accade nello stato di natura, che si svolge attraverso la realizzazione di oggetti singoli secondo generi e specie, implicativi del loro stato di necessità esatto, sia nella universale, sia nella particolare consuetudine acclarata. L’intervento del filosofo della storia è rivolto, di conseguenza, solo per esplicare la consuetudine della prassi che si esercita, per così dire, ancora una volta nel logicizzare, mercé gli schemi individuati, la raccolta molteplice dei sistemi storico-politici degli organismi individuali ed universali sotto la esatta unità totale, divenuta nel frattempo totalizzante, che li comprende senza esclusioni evidenti, in modo tale che la dialettica originaria di Hegel, o meglio il suo peculiare dialettismo, contemplante il movimento autentico del divenire, sia finalmente ricondotto alla esaustiva meta finale, così come essa è descritta e realizzata nelle sue meccaniche funzioni esplicatrici. Il meccanismo è, inoltre, per Gentile, particolarmente e soprattutto un prodotto dello spirito, per così dire, geniale, autentico nella sua fisionomia in quanto si dirige puntualmente nella direzione dello svolgimento della storia ideale eterna, tutta vichiana, degli individui che presagiscono sempre i suoi indirizzi futuri in quanto ineriscono esplicitamente al destino storico del mondo. Va, tuttavia, annoverata, sempre a proposito dello svolgimento della filosofia della prassi, l’ulteriore osservazione, che è pur sempre una critica, puntualizzata dal Croce, circa il comune destino dei libri sulla filosofia della natura e quelli sulla filosofia della storia, che vanno oltre il loro pregnante significato analogico richiamato in precedenza a proposito della articolata funzione esercitata dallo storico il quale si avvale proprio delle analogie per cogliere, nella qualità di interprete, i fondamenti correlativi della diversità delle situazioni umane, che nel loro perpetuo sviluppo sottolineano la capacità di ricercare, pur nella medesima diversità temporale, indirizzi comuni tra il tempo storico trascorso e quello presente. La contemporaneità della storia costituisce, così, l’essenza mutevole presente del rilievo utile del tempo inaugurato dagli individui autori del corso storico degli eventi, mentre la filosofia della natura e quella della storia si avvalgono di miriadi di astrazioni intese come necessario presupposto dello svolgimento necessitato dalla determinazione unica dell’azione esercitata dallo spirito, che ha come scopo il conseguimento del fine necessario esatto per la felicità di tutti gli uomini nello stato intemporale dell’umanità. E se questo fine è condiviso pienamente da Gentile in completo raccordo anulare con Marx, ciò significa che la Filosofia dello Spirito, per il filosofo di Castelvetrano, è riconosciuta nella sua azione permanente, opportunamente da realizzarsi, come accade per l’alchimismo, le cui forze occulte devono sortire sugli individui impressioni infinite, irrazionalmente ed intemporalmente disposte, che nulla hanno a che fare con l’esercizio pratico di laboratorio nel quale la ricerca delle cause naturali dei fenomeni deve essere individuata mercé la fatica dell’esperimento e della conseguente legge esposta. La Filosofia della Storia, intesa pure come determinismo storico, nonché come Filosofia della prassi, s’intende giustamente come il rivoltarsi contro le teorie che sono di preparazione all’azione pratica, la quale è, pertanto, per i filosofi-storici di professione, l’unica che conta nel panorama del procedere storico intemporale degli individui, che intendono altresì il conseguimento immediato degli scopi. Osservando, così, ulteriormente la natura e gli scopi contemplati dallo svolgimento del Filosofismo, Croce scrive ancora: 

Infine anche pei libri di filosofia della natura sono da ripetere le riserve fatte per quelli di filosofia della storia: anche in essi c’è qualcosa di più e di diverso delle sterili esercitazioni analogiche che abbiamo criticate. Alcuni dei filosofi della natura, perseguendo le loro illusioni, si sono incontrati in qualche scoperta scientifica, al modo stesso che gli alchimisti, cercando la pietra filosofale, fecero scoperte di chimica; e sebbene quelle scoperte di scienza fisica e naturale non giovino ad avvalorar l’indirizzo della filosofia della natura, come la chimica non avvalora l’alchimia, nondimeno conferiscono pregio ai libri intitolati dalla filosofia della natura e fanno onore ai loro autori.9

 

Lo Storicismo assoluto, invece, per Croce, non ha bisogno di edulcorazioni speciali in quanto è ricondotto alla concezione peculiare della vita e della storia, nelle quali il trapasso dall’essere al non-essere è suffragato in ogni tempo utile dalle permanenti affermazioni e negazioni che costituiscono il sano operare dello Spirito, che, sostenuto dalla volontà, diviene, pertanto, spirito pratico che ha la capacità di tradurre in azione, avendola adeguatamente preparata, ciò che in teoria esso ha già individuato come possibile suo svolgimento, di contro all’impossibile che è di per sé nullo e che il suo eventuale e proponibile realizzarsi, è ugualmente tale, visto pure che la meta generale dello Spirito, intesa come mera azione preparatoria, è, invece, quella di realizzare fini conformi alla decisa buona volontà degli individui chiamati ad operare nei diversi contesti della vita civile. L’Atto unico della volontà che sortisce di contro disciplinatamente la prassi, intesa ancora una volta come solerte ed indiscutibile azione degli scopi presupposti e sottoposti alla volontà dello Spirito unico, nel Gentile si estingue più che distinguersi ancora, segnando in tal modo la fine del connubio originario con lo Spaventa medesimo che continua, per così dire, a distinguere l’estinto, in modo tale da far risorgere la distinzione che per la mentalità assoluta costituisce l’arma vincente nella pur tentata revisione della dialettica hegeliana e del suo parentale connubio col dialettismo. All’Atto unico manca, pertanto, per il Croce il tempo storico che scandisce l’azione di uomini diversi che hanno da superare, nel perenne e faticoso slancio dei propri ideali, la negatività del procedere storico in positività non assoluta, pronta così a configurarsi come opposta negatività, in quanto nulla è da ascriversi alla quiete assoluta, cui è contrapposto in ogni tempo il suo legittimo contrario, che è l’assoluto movimento. La prassi crociana “così intesa” va, quindi, in una direzione completamente diversa da quella di Gentile, in quanto le ineriscono le diverse situazioni dello Spirito che si travaglia nella sua operante dialettica negativa contemplante la conservazione ed il progresso generale del mondo. L’essenza del mondo storico e delle nazioni, pur sotto l’egida dell’imperante vichismo relativamente alla sana concezione storica esposta, costituisce, pertanto, il travaglio della prassi che si avvale della perpetua fatica degli operanti, in quanto individui non più isolatamente cosmico-storici, secondo la originaria formula bene descritta da Hegel, né tanto meno di quella marxiana, in quanto essi sono ricondotti a determinare i fini del mondo, capovolgendo ogni norma ed istituzione civile, che si debbono, invece, ricomporre nella prassi comportamentale di tutti gli individui agenti, e non più solo di alcuni deliberatamente scelti e al contempo preselezionati in grado da soli di muovere la storia ed il destino del mondo in una direzione già prestabilita. Il mutamento del suddetto equilibrio storico è, in realtà, un incentivo per la sana ragione umana che ha la possibilità di dispiegare tutte le proprie capacità intellettuali e le proprie energie libere al contempo, latrici dell’autentico progredire degli individui e delle istituzioni civili, onde il progresso e la sua nozione fondamentale si innestano nella virtù del sapere storico consolidato che entra perennemente in conflitto con le divergenti e sane opinioni di altri individui cui ineriscono i medesimi diritti di esercitare l’opposizione. 

Diversamente da questo primo modo di estremo attivismo – scrive Croce – il quale se rigetta la storia passata, sembra ammettere una storia futura – una storia a dir vero, che non è storia, ma una corsa a rompicollo a una ridda da ebbri, – il secondo modo di antistoricismo aborre l’idea stessa della storia come il regno del relativo e del contingente, del mobile e diverso del vario e individuale, e sospira e aspira e si sforza all’assoluto, al fermo, all’uno, a trarsi fuori della storia, a superare lo storicismo, per acquistare sicurezza e pace.10 

La prassi gentiliana viene, così, contrapposta a quella di Croce, come il regno dell’immobile e dell’identico, o del totalmente identico nel quale sono abolite le diversità individuali, per fare posto, conformemente pure alla prassi marxista, ad uno sparuto gruppo di individui, raccolti e disciplinati sotto la classe di appartenenza o al medesimo gruppo, animati dall’unico scopo di rovesciare il mondo costituito mercé una penetrante rivoluzione universale onde costituire una società di tutti uguali o di solo alcuni uguali privilegiati al contempo i quali sono – beninteso – completamente e radicalmente contrapposti al regno della assoluta libertà degli individui singoli cui appartiene, invece, la saldezza degli istituti politici, oltreché quelli speculativo-teoretici esaltati dalla Religione della libertà, intesi pure come fondamenti essenziali liberi ed esplicativi, come per dire che l’unico fondamento della vita dello spirito è la sua essenziale ed assoluta libertà che si svolge, che è quella dell’unire e del distinguere le moltitudini divenienti uno, come del loro legittimo e palese contrario. L’unità nella distinzione perenne non può più generare equivoci nel suo stesso concetto poiché implica al contempo lo svolgimento della volontà che prepara l’azione morale poiché essa discende dal pensare o dal pensiero che è preparante, ma non determinante l’azione, tale che essa va nella direzione dei fini possibili cui si riferiscono i desideri sconfinati degli individui in ragione della esplicazione assoluta della libertà. Diversamente considerata, essa coinciderebbe con l’unico fine determinato ed esaustivo, fautore dell’attività teoretica assoluta di molti individui, o di qualcuno solitario, inteso a disciplinare regolativamente ed assolutamente quelli di tutti indistintamente sotto l’egida di una norma altrettanto assoluta, i cui fini sarebbero costretti semplicemente ad assuefarsi ad essa. Di fronte a questo peculiare aspetto della filosofia della prassi marxiano-gentiliana, esaltata in tutte le forme attive e volontarie, nonché dai medesimi atteggiamenti contenuti nella filosofia della storia filosofica che è, in verità, l’aspetto settico dello storicizzare filosofico che è prettamente – da come si può arguire – una diversa e consolidata prospettiva della filosofia della prassi che richiede, invece, non fondamenti unici ed assoluti, come pure per il Materialismo Storico e per l’Atto puro, chiamati sempre a realizzare i fini assoluti di una comunità sociale, necessariamente convergenti, o dal singolo particolare individuo che si fa portavoce di atti assoluti, ma di prospettive di indirizzi individuali diversi e liberi, conformi alle singole libertà del volere che in ogni tempo consacrano la propria azione in ragione delle singole aspirazioni da coniugare. La prassi dello svolgimento storico della libertà è – per così dire – decretata da Croce che, nella considerazione dei movimenti storici e politici, descrive non solo i puntuali avanzamenti loro progressivi, ma anche i loro regressi e le stasi che devono essere, pertanto, considerate come momenti negativi che contengono, tuttavia, anche quelli positivi in quanto si accordano con la riflessione ed i ripensamenti degli individui. Ciò in conformità, come abbiamo avuto occasione di ribadire già precedentemente, al pensare che distingue ed estingue spaventianamente, secondo l’accezione hegeliana, la determinazione e la negazione, in modo tale che esse siano sempre ripensate come determinazioni negate, foriere di nuovi ed ulteriori ripensamenti in quanto sono già state pensate, ed al contempo latrici della ulteriore individuazione di nuovi e costanti progressi, come degli opposti regressi umani. Ci è sembrato, così, opportuno, a conclusione di questo nostro lungo intervento, tracciare più appropriatamente il valore esplicativo della prassi in Croce, in una lettera dal medesimo indirizzata a Gentile il 28 ottobre 1897, in cui, parlando ancora una volta del Materialismo Storico e della sua collegata idea di progresso, scrive: 

Egualmente, parlando della sua soluzione possibile intendevo: la sola possibile nell’ipotesi del progresso (accrescimento di ricchezza, benessere diffuso, diffusione di coltura, sanificazione morale, ecc.), non escludendo la possibilità del regresso, o della stazionarietà di cui la storia ci porge tanti esempi. E sottintendendo anche un’altra limitazione: “date le forze che ora sono in giuoco e i calcoli di probabilità su quelle che si svolgeranno nell’avvenire”. Del resto può darsi che le esperienze da me usate in quel punto fossero troppo concise e quindi si prestassero ad equivoco.11 

Del ruolo delle ideologie speculative crociane ci occuperemo in un prossimo lavoro nel quale tenteremo di mettere in piedi l’articolato svolgimento della prassi teoretica che è, – sebbene fosse stata ribadita più volte – a nostro modesto parere, la preparazione dell’azione pratica che non perde assolutamente il suo costante riferimento a quella teoretica, completamente diversa in Gentile, in cui quella si è palesata come volontà assoluta dello spirito definente tutti i fini umani nell’ambito della loro realizzazione finale esaustiva.

 

 

Note con rimando automatico al testo 

1 Cfr. B. Spaventa, Le Prime Categorie della Logica di Hegel, Memoria di Bertrando Spaventa, in «Atti della Reale Accademia di Scienze Morali e Politiche di Napoli», 1863, pp. 123-185. Parlando più adeguatamente dell’Essere che si contraddistingue in completo disaccordo anulare con le teorie della mera identità, priva della sua reale opposizione, oltreché contrarietà a quello, Spaventa scrive, osservando a tal proposito: «L’Essere si contraddice, perché questo estinguersi del Pensare nell’Essere – e solo così è possibile l’Essere – è non estinguersi: è distinguersi, è vivere. Pensare di non pensare, fare astrazione dal pensare – fissare l’Essere – è pensare; è astrazione, cioè pensare. L’essere è l’Astratto, l’assoluto Astratto. Per avere l’astratto, solo l’Astratto, io fo astrazione dall’astrazione, cioè sono astrazione, assoluta astrazione. Prima io ero l’assoluto Astratto; ora sono l’assoluta astrazione, e non già il semplice assoluto Astratto. Così l’Essere, l’Essere logico (l’Astratto) nega sé stesso». Ivi, p. 133.

2 G. Gentile, La Filosofia di Marx, Premessa di Jonathan Salina, Scuola Normale di Pisa, IV, 2014, p. 139.

3 B. Croce, G. Gentile, Carteggio (1896-1900), a cura di C. Cassani e C. Castellani, Introduzione di G. Sasso, Torino, Aragno, 2014, pp. 141-142. Analoghe osservazioni compie il Croce a proposito della dialettica hegeliana nella quale egli individua l’incapacità del filosofo di Jena di considerare il ruolo dell’opposizione suscitato dall’antitesi che in Hegel si configura più come un mero meccanismo seriale ripetitivo che essere, invece, la realizzazione di un travaglio interiore con cui lo Spirito supera sé medesimo nel prendere, così, consapevolezza del ruolo diadico affermazione-negazione e del loro superamento sintetico. Un meccanismo, questo, a quanto pare, di cui si è impossessato il suo prosecutore dottrinario, Marx, allorché ha esposto il fondamento della concezione materialistica della storia che viene ad essere non solo l’autentica realizzazione della prassi individuale, ma anche quella di tutti gli individui che da iniziati pervengono, mercé il medesimo meccanismo, a realizzare i fini totali ed universalmente ascritti e coniugati dalla loro sapienza pratica volontaria ed attiva. Nel polemizzare argutamente con De Ruggiero a proposito della relazione sussistente in Hegel tra il razionale ed il reale, in quanto pure assoluti epigoni, secondo il nostro parere, della formazione e dell’attuazione pratica del già citato meccanismo, oltreché della concezione materialistica della storia in Marx, Croce scrive: «Ma io, avendo a cuore gl’interessi della dialettica, avvertivo che quella sentenza è vera se si riferisce alla storia in quanto pensiero, dove vale solo il Sein e solo il Sein è razionale, ma non già alla storia in quanto, alla vita pratica e morale, perché qui dove si attende non a conoscere ma a modificare il mondo, vale solo il Sollen. Anzi, notavo che lo Hegel infiacchiva il suo detto, gli toglieva dirittura, con gl’indebiti temperamenti che soggiungeva. Tutto ciò mi pare che resti saldo, ancorché lo Hegel di quel detto abusasse nella sua Filosofia della storia e altrove». Cfr. B. Croce, Hegel e la Logica dello Storicismo, in Scritti Vari. Nuove Pagine Sparse, Bari, Laterza, 1966, vol. I, VII, II, p. 16. Tuttavia, per chiarire oltremodo il proprio punto di vista rispetto alla dialettica hegeliana, Croce osserva in una pagina precedente a questo scritto quanto segue: «Per lo Hegel il movimento dialettico è, per così dire, non circolare, ma cuspidale, cioè un succedersi di errori o contradizioni, di cui il susseguente corregge il precedente, ma che non s’acqueta se non nel termine ultimo, l’Idea, la quale vien fuori residuo secco, come il caput mortuum dei chimici, perché col raggiungimento di essa cade il processo della vita e della realtà». Ivi, p. 161.

4 Cfr. G. Gentile, Frammento Inedito, in La Riforma della Dialettica Hegeliana, 3a ed., Firenze, Sansoni, 1954, p. 49. Nel richiamare il concetto di dialettica, ma soprattutto per convalidare il ruolo del dialettismo, epistemologicamente contenuto nella prassi hegeliana con tutti i rilevi critici prodotti da Spaventa, notiamo come egli la dispieghi attraverso la realizzazione del processo dialettico che non può essere considerato più astrattivo in quanto i contrari e i contraddittori si intersecano per qualificarsi come mera e concreta attività dello Spirito: «Non si tratti di un cangiamento qualunque, – scrive Spaventa, ripercorrendo la teoria dei minimi e dei massimi, bruniana nella sua origine, – del massimo che si possa pensare: dell’essere in non essere. È vero che dicendo “en son contraire”, il cangiamento viene determinato appunto così, come umschlagen (soudain, brusquement), e questo correre per contrari è dialettica. Ma ciò si vede argomentando, e non già nella percezione immediata, dirò così, delle parole. Ora da questo si misura l’esattezza, la precisione dei vocaboli» (ibid.). Il mutamento generato dal procedere dei contrari controvertibili nei propri opposti e distinti a loro modo dal dialettismo che speditamente li rende sempre più concreti rispetto alla loro astratta determinazione, intesa come tendenza altresì necessaria, se pure liberamente procedente, è stato altresì posto da noi in un recentissimo lavoro nel quale abbiamo sostenuto: «Il ritorno dello spirito in se stesso non è altro se non il raccoglimento hegeliano sopra se stesso dopo avere distinto i suoi momenti e le sue forme mercé la disposizione di se medesimo che si esteriorizza interiorizzandosi, e viceversa, conforme pure all’intuito filosofico dei giovani cui inerisce la creazione in quanto spontaneità che deve germinare, così, in un crescendo dialettico inesaustivo, ciò che esso ritiene implicabile ed esplicabile e che non è, pertanto, riconducibile alla teoria crociana del filosofare che attende di costruire piuttosto con la pratica del metodo storico, invece di costituirsi come astratto compito del filosofare fine a se stesso». Cfr. G. Origo, Oltre Spaventa: Croce e Gentile, in «Azioni Parallele. Quaderni d’aria», 12 luglio 2015, in rete all’indirizzo: http://www.azioniparallele.it/30-eventi/atti,-contributi/82-oltre-spaventa-croce-e-gentile.html.

5 Cfr. G. Gentile, Frammento Inedito, cit., p. 55. «L’essere, – scrive ancora lo Spaventa – dunque, non è altro che l’essere, niente di più niente di meno, se dicendo essere, è possibile pensare un che di meno dell’essere. Ma l’essere così, l’essere di cui non si può dire nemmeno che è, è attualità mentale? Se fosse attualità mentale, dovrebbe essere un pensato, il primo pensato: dovrebbe ammettere la distinzione: pensare e pensato. Ora pare che l’essere non sia pensiero così: giacché il commento dice: “Se è un pensiero” (dunque non è certo che sia; o se è, è in un senso particolare ed eccezionale), “in questo pensiero non vi ha altro che l’essere”. E se non vi ha altro che l’essere, dove è la distinzione di pensare; dove è l’atto mentale? Dunque io dico essere, e intanto non lo penso? E se lo penso, siam da capo; io dico pensare e essere, l’essere non è più essere, ma l’Ente». Ivi, pp. 55-56.

6 G. Gentile, La Riforma della Dialettica Hegeliana, cit., p. 30. Nel caratterizzare il ruolo delle categorie hegeliane ed il loro ridursi in Spaventa alla funzione monistica assoluta dello spirito che non si esplica tanto nella triplicità delle sue funzioni, ma nell’unità assoluta dello spirito che le contiene e, tuttavia, le esclude definitivamente rispetto alle precedenti riflessioni nelle quali la triplicità o la triadica funzione loro era sussunta sotto l’unità dello spirito che le conteneva e le includeva, Gentile osserva altresì, parlando più appropriatamente della mente o della mentalità assoluta nella quale – a nostro parere – Spaventa palesa apertamente, senza, tuttavia, citarla nominalmente, la concezione della prassi, in quanto spirito che si fa, ovvero diviene, superando il nulla e qualificandosi come attività della volontà di tutto il pensare divenuto assoluto pensato, in quanto pure actus che va verso l’actum col quale si incontra per non retrocedere più: «Questo dire: – scrive egli – io sono il pensare, e non potermi afferrare come pensare – questa inquietezza, quest’essere che è la stessa inquietezza – questo è, il divenire (Io non posso afferrar l’atto come atto, come energia, come, direi, agens: l’atto afferrato non è più atto: è actum). Il gran difetto qui è questo non vedere nell’actum lo stesso actus dell’energia attiva, nel non sapere scorgere l’unità di pensare e pensato (questo come quello stesso). Ma è già dato che nell’actum bisognerà vedere l’actus e scoprire insomma come il pensato sia lo stesso pensare». Ivi, p. 31.

7 B. Croce, G. Gentile, Carteggio, cit., p. 47. Sulla concezione della filosofia della storia, ovvero se essa sia esplicativamente deterministica, Gentile risponde pienamente nel volume sulla Filosofia di Marx del 1899 prendendo le distanze dall’amico Croce, che non si è ancora convinto che tale concezione per Gentile ormai riveste il carattere di determinismo storico che ha eliminato pure i tentennamenti di Spaventa circa il pensare ed il ripensare, in quanto actus ridotto all’actum, e che non può essere, pertanto, più ripensato in quanto si è completamente estinto, tanto da sottolineare, a commento della Glossa XI di Marx contenuta nella Ideologia Tedesca, il cambiamento radicale del mondo da parte di coloro che, in quanto filosofi, semplicemente lo hanno interpretato, quanto segue: «In questi pensieri fedelmente tradotti – scrive Gentile – non ci par difficile scorgere il disegno di tutto un nuovo sistema speculativo col suo storico addentellato a una filosofia anteriore e con accenni sicuri a un programma pratico ad esso logicamente conseguente: tutto lo scheletro insomma di quella filosofia che si vuole insita nella concezione materialistica della storia, posta a fondamento della dottrina comunista. E noi tenteremo con l’aiuto di cotesti pensieri uno schizzo del nuovo filosofare. Cfr. G. Gentile, La Filosofia di Marx, Premessa di Jonathan Salina, Pisa, Ed. Scuola Normale, 2014, p. 120.

8 Cfr. K. Marx, F. Engels, Manifesto del Partito Comunista, Prefazione di L. Caracciolo, Introduzione di L. Colletti, Milano, Mondadori, 1999, p. 52. Singolare è l’affermazione totale della nuova classe egemone, quella del proletariato, che si avvarrà di tutte le forze operative poste in atto per attuare la nuova rivoluzione che non si configura più come interpretazione e comprensione del mondo, ma del suo mutamento radicale e violento esercitato dalla nuova classe che abolirà per questo tutte le altri classi in modo tale che tutti gli individui risultino indifferentemente uno. «Al posto della vecchia società borghese – scrive Marx – con le sue classi e le sue contrapposizioni di classe, subentra un’associazione in cui il libero sviluppo di ciascuno è condizione del libero sviluppo di tutti». Proletari e Comunisti, in ivi.

9 B. Croce, Logica come Scienza del Concetto Puro, Bari, Laterza, 3a edizione, 1981, p. 256. Rileggendo, ora, le pagine introduttive di Jonathan Salina per la terza edizione gentiliana della Filosofia di Marx, vale la pena di puntualizzare l’articolazione dello svolgimento della filosofia della prassi nel filosofo di Castelvetrano, che ancora una volta coglie l’occasione per occuparsi totalmente di questo tema che non aveva trovato così attuativo sviluppo in Marx. Altro rilievo utile potrebbe da Gentile essere stato esatto per descrivere più adeguatamente il ruolo della filosofia della storia intesa come essenziale e correlativa filosofia della prassi che organizza il mondo storico, dopo averlo – per così dire – prima interpretato, pregustando, a nostro modesto parere, la rivoluzione non solo teoricamente descritta da Marx, ma anche quella individuata un cinquantennio prima dal suo vero Maestro Bertrando Spaventa che, come si ricorderà, aveva compreso adeguatamente il concetto dell’umschlagen, inteso come mutamento immediato rivoluzionario per ciò che semplicemente inerisce all’attività del pensare in quanto realizzatosi come pensato, se pur non esaustivamente. «Senonché – scrive Solina – le considerazioni tradizionalmente ritenute le più interessanti e feconde proposte da Gentile, quelle sul tema della prassi, sono una disamina di una superfetazione, a suo giudizio, del pensiero di Marx. Non vi è un reale motivo per dubitare dell’affermazione introduttiva di Gentile o per tentare di ridimensionarne la portata, ritenendo che tutto il saggio contraddica le proprie premesse. Il carattere filosofico del principio della prassi, in effetti, non verrebbe negato per il fatto di essere stato in Marx un qualcosa di non completamente sviluppato». Cfr. J. Solina, Introduzione, in G. Gentile, La Filosofia di Marx, cit., p. 25. In piena sintonia, pertanto, col carattere rivoluzionario operato dalla filosofia della prassi in Spaventa, prima ancora di averla sugellata nel libro su Marx, Gentile conferisce al pensare una tale peculiarità sull’essere considerato ancora immobile ed indeterminato per il suo inevitabile primario riferimento hegeliano, il quale riceve, invece, la spinta risolutiva dal pensare il quale lo fa essere nella sua mobilità, facendogli – per così dire – perdere il carattere di “indeterminato astratto”. «Perché tutto non è essere? – scrive, così, il Gentile – Perché non è solo il se? Perché tutto non è essere? Questo è lo stesso problema del mondo, lo stesso enigma della vita, nella sua massima semplicità logica. Quel che sappiamo è, che senza il pensare non sarebbe il no, non sarebbe il non-essere; e chi nega, quegli che vince l’invincibile e fende l’indivisibile, cioè l’essere che distingue e contrappone nell’essere medesimo, in quanto medesimo, ciò che è e ciò che non è: la generazione o geminazione dell’essere, quegli che turba la tranquilla immobilità, l’oscuro impenetrabile sonno dell’assoluto e ingenito essere, questa infinita potenza, questo gran prevaricatore è il pensare. Se non fosse altro che l’essere, non sarebbe il no». Cfr. G. Gentile, La Riforma della dialettica Hegeliana, cit., pp. 31-32.

10 B. Croce, G. Gentile, Carteggio, cit., p. 62. «Ad ogni modo, – scrive ancora Croce, polemizzando con Gentile – letto il suo articolo, ripeto ciò che le scrissi quando lessi le lettere sue. Il nostro dissenso, a me sembra non è nella questione teorica, ma nella interpretazione dei testi degli scrittori di materialismo storico. La mia interpretazione tiene scarso conto della formulazione verbale: la sua è più rigorosa nell’attenersi alle parole. Anche qui forse io ho un po’ di torto, ma quelli che hanno più torto, sono gli scrittori come Marx ed Engels, ed anche un po’ il nostro Labriola, che non elaborano sufficientemente il loro pensiero, e lo lasciano in forma imprecisa e contraddittoria. Ella vedrà, in un altro volumetto del Labriola, che pubblicherò fra breve, e che contiene cose bellissime, che anche il Labriola, nel fondo del suo pensiero, intende le aspettazioni del socialismo in modo tutt’altro che assoluto e filosofico». Ivi, p. 63. Il dissenso con Gentile è, così, frutto della interpretazione dei testi sul Materialismo Storico, e non sulle parole, come per dire che i contenuti sono quelli che incidono sulla loro comprensione e che la teoria, come preparazione dell’azione pratica, non è inevitabilmente vincolata alle espressioni verbali citate nelle diverse opere, ma alla sostanza del programma in quello esposto, che sortisce, pertanto, lo svolgimento storico di esso, non contemplando, pertanto, quello unico, articolato ed esaustivo della prassi che si conforma, invece, superate tutte le differenze, alla volontà unica assoluta e collettiva o a una sola semplicemente per disciplinare gli obiettivi cui gli individui tutti sono stati chiamati a realizzare senza ulteriori indugi e ripensamenti e di là pure da ogni esatta e concreta idea di progresso che si possa sempre manifestare nella scienza. Essa, così, compie il proprio ufficio, in quanto si conforma alla necessità di coloro che comprendono lo svolgimento del reale solo meccanicamente, prefigurando al contempo un modello di predeterminismo e di costante e palese indeterminazione dell’azione che risulta conforme alla scepsi originaria hegeliana, che si è ancora una volta rivelata la astratta indeterminazione dell’essere rispetto alla sua opposta determinazione. Su questa scia, e senza ritornare alla lezione dello Spaventa critico dell’hegelismo, ci piace altresì citare la polemica anticrociana di Gramsci, che si conforma pure nei suoi tratti caratteristici a quella di Gentile a proposito dello svolgimento della teoria della prassi che in Croce, invece, ha solo valore speculativo, ma non pratico, il che consente a Gramsci di sintonizzarsi col reale significato della prassi intesa pure quale operazione conclusiva del concetto pratico esatto necessariamente dall’azione. «Anche da questo punto appare come il Croce abbia saputo mettere bene a profitto il suo studio della filosofia della praxis. Cosa è infatti – scrive Gramsci – la tesi crociana della identità di filosofia e storia se non un modo, il modo crociano, di presentare lo stesso problema posto dalle glosse al Feuerbach e confermato dall’Engels nel suo opuscolo su Feuerbach. Per Engels “storia” è pratica (l’esperimento, l’industria) per Croce Storia è ancora un concetto speculativo, cioè Croce ha rifatto a rovescio il cammino – dalla filosofia speculativa si era giunti a una filosofia “concreta e storica”, la filosofia della praxis, il Croce ha ritradotto in linguaggio speculativo le acquisizioni progressive della filosofia della praxis, e in questa ritraduzione è il meglio del suo pensiero». Cfr. A. Gramsci, Le Opere, La prima antologia di tutti gli scritti, a cura di A. Santucci, Roma, Editori Riuniti, 1997, p. 291.

11 B. Croce, G. Gentile, Carteggio, cit.