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Azioni Parallele

NUMERO  7 - 2020
Azioni Parallele
 
Rivista on line a periodicità annuale, ha ripreso con altre modalità la precedente ultradecennale esperienza di Kainós.
La direzione di Azioni Parallele dal 2014 al 2020 era composta da
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Distanza

 

Estratto da Distanza.
Rapporti in lontananza e cura della prossimità.

 

 

Due o tre cose sulla distanza

 

La distanza in matematica viene misurata
come lontananza ma, a differenza della
vita, non ha mai un valore negativo

Sara Rattaro

 

Distanza è una parola familiare e complessa, misteriosa e plurivoca. Ma cosa si potrebbe dire sulla distanza? Molto ma anche pochissimo perché esistono distanze spaziali e distanze temporali, distanze massime e distanze minime.

«Analogamente, nell’infinitamente piccolo come nell’infinitamente grande, la materia si riconferma distante in se stessa, divaricata, instabile, pronta a esplodere o ad annientarsi nel suo contrario. Materia e antimateria confermano che la distanza ci appartiene, ci assomiglia, ci attende, ne siamo intessuti».1

La distanza sta in questa duplicità dell’infinitamente grande e dell’infinitamente piccolo, e tale ambiguità è la sua cifra e la sua ricchezza. La volontà di distanziarci può generare sentimenti contrastanti e ambivalenti: dolore, lutto, perdita, amore, diffidenza, desiderio, inimicizia, paura. Inevitabilmente l’esperienza della distanza entra in collisione in un unico punto che congiunge insieme separazione e contatto. Immancabilmente la distanza, percepita dentro di noi, è ciò che ci separa, provocando un trauma, una traccia indelebile. La distanza dal passato o dal ricordo di ciò che è stato come la perdita dei propri cari o delle persone amate o dei luoghi o degli oggetti più familiari, è inscritta per sempre nel nostro vissuto.

«La perdita e la scomparsa dell’altro, il suo venir meno esigo­no un posizionamento, un disporci a distanza che, con difficoltà, può essere pienamente vissuto e radicalmente attraversato. Dopo aver svolto una riflessione intorno a diversi momenti e condizioni nei quali sperimentare la positività del distanziarsi, sia in ambi­to antropologico che morale, siamo infine giunti dinanzi alla di­stanza estrema, la peggiore, quella che non sembra darci scampo, la più evitata e temuta, eppure, proprio per questo, quella che deve essere maggiormente indagata. Inevitabile e fintamente disponibile, la morte, al contrario del­la vita, è per molti la fine assoluta, per tutti esprime il distacco dall’altro, interrompe la continuità dell’essere e inaugura, solo per coloro che restano, il ricordo di ciò che è stato».2

Nostalgia è uno stato d’animo duro, antico, evocativo ma abbandonarsi al suo flusso può consumare energie vitali. Essa si manifesta attraverso un oggetto evocativo, un luogo, una persona con quale continuiamo, che nella distanza continuano a nutrire i nostri ricordi e la nostra immaginazione. Abbiamo nostalgia delle nostre vite passate, dei nostri amori perduti, dei nostri paesaggi d’infanzia che continuiamo a vedere nella loro immobile distanza, che continuano a vivere nella nostra memoria. Si aprono solo ferite perché la nostalgia è un sentimento incurabile e doloroso, che oscilla tra il passato e il presente, tra il vicino e il lontano.3 La distanza è il luogo naturale della nostalgia.

«La parola “Distanza” sembra agire in uno spazio che si pone al di là di ogni distanza. La parola “Distanza” sembra più forte di qualsiasi lontananza, di qualsiasi prossimità. 
Questo non vuole assolutamente dire che la parola «Distanza» escluda lontananza e prossimità. Al contrario. Ѐ come se esaltasse l’una e l’altra. Come se ne rivelasse il senso, “l’anima”. 
Forse la distanza potremmo pensarla per un momento anche come la grande lingua naturale mediante la quale lo spazio si rappresenta – parla – e agisce. Per noi. A noi. Su di noi. 
Ma forse potremmo dire: nello spazio, intorno a noi, regna in silenzio, la Distanza».4

Per il pittore lombardo Emilio Tadini, la distanza, è qualcosa che si  intorno a noi, e anche dentro di noi, tanto che si potrebbe attribuirle anche una maiuscola – la Distanza – che condiziona il nostro esistere. In che senso? Oggi viviamo la distanza come una coercizione e un obbligo in tempi di pandemia, non avendo avuto familiarità alcuna con questa esperienza che invece può rivelare ricche e inedite potenzialità. Un metro o due sono le misure che gli infettivologi stabiliscono per la “giusta distanza” e porsi al riparo dal contagio. E se la distanza non fosse solo un’esperienza traumatica di separazione ma un nuovo slancio a misurare e a misurarci?

Capire la distanza implica il movimento, o il percorso che consiste nell’avvertire la necessità di costruire qualcosa nello spazio intermedio che la Distanza apre intorno a noi. In questa fase pandemica, esperire la distanza può essere anche una chance per ridefinire le nostre relazioni private e pubbliche o ripensare il sistema di distanze – sociali, economiche, politiche, culturali – che regolano l’attuale assetto del mondo. Tadini offre una pista da seguire: «La distanza non è forse il luogo in cui ogni presenza e ogni assenza sono rese possibili? / La distanza non è forse la scena della rappresentazione – di ogni rappresentazione?».5

La distanza, è innanzitutto lo spazio della «separazione primaria», quella che divide il figlio dalla madre e a partire dalla quale il figlio comincia a vedere la (figura della) madre. E sul modello di quella separazione, dice Tadini, si replicano tutte le successive, tra cui vanno annoverati i molteplici tentativi di dare espressione al nostro stare nel mondo, tutte quelle strategie di sopravvivenza alla solitudine che sono però anche modi con cui l’uomo rende visibile il proprio sistema di distanze. Occorre guardare oltre quel vuoto, quello spazio instabile, quella zona franca in cui qualsiasi costruzione risulterà precaria. La distanza è anche una figura del desiderio6 nel senso che dilata il tempo nell’attesa e precede il contatto che dura invece un tempo circoscritto e ristretto.

Ora il desiderio di prossimità, la necessità di abbracciarsi, sembrano oggi aboliti a causa dei timori che i contatti possano generare veicoli di trasmissione del virus, e siamo costretti a guardare l’altro da lontano, a distanza. Il Covid dissolve la nostalgia della distanza e abbatte la magia dell’attesa. Il vivere nell’attesa di un amore o della morte imminen­te genera tutta una serie di pensieri e di emozioni, a tratti indecifrabili, a tratti lucidi. L’attesa è una specie di distanza temporale che definisce le modalità del nostro essere nel mondo perché siamo sempre in attesa verso gli altri, dove e ogni attesa ci spinge fuori del tempo e dello spazio. L’attesa è una distanza mentale che genera la passione. Essa imprime anche un’attrazione, una spinta al movimento delle passioni e dei sentimenti verso un percorso pratico che conduce dal noto all’ignoto, dal visibile e dal visto verso l’invisibile e il non ancora visto. Scrive Eugenio Borgna:

«Attendere è aspettare, come dicevo, e aspettare è guardare: guardare l’altro e attendere di essere guardati. L’attesa di uno sguardo, che dica qualcosa e dimostri attenzione, è ovviamente fra le attese più semplici e banali, e nondimeno quante volte in un ospedale psichiatrico, ma anche nella vita di ogni giorno, non siamo stati capaci, e non siamo capaci, di riconoscere il senso doloroso e nostalgico di una attesa come questa e di esaudirla. Ascoltare e decifrare gli sguardi nelle loro espressioni e nelle loro allusioni è facile e difficile; ma in ogni caso queste sono alimentate dalle espressioni e dalle allusioni dei nostri sguardi: dal nostro modo di guardare e di mettersi in relazione. Negli sguardi dell’altro-da-noi è possibile rintracciare le ombre e le luci dei nostri sguardi: che non conosciamo se non nel gioco illusionale degli specchi che rimandano la nostra immagine incrinata dalle ansie di ogni giorno. Come riconoscere quali risonanze i nostri sguardi destano negli altri, e in particolare nelle pazienti e nei pazienti che, divorati dalla solitudine e dalla angoscia, attendono sguardi di partecipazione e di comprensione?».7

Si dischiude così la possibilità di vivere nell’attesa, come di un amore tra la consapevolezza di una fine e l’attesa di un compi­mento ulteriore, tra la coscienza di ciò che non dipende da noi e la volontà di andare oltre la scomparsa fisica, il ricordo fino allo stremo per rendere, per sempre, presente l’assente.

La pensatrice francese Simone Weil ha dedicato penetranti e intense pagine al rapporto tra amore di Dio e sventura dalle quali emerge il modo con cui possiamo vivere la distanza come attesa. Di­nanzi alle irrinunciabili sofferenze e alle angosce che dilaniano le nostre vite, seguite dalla possibilità della fine, «si può accettare l’esistenza della sventura solo considerando­la come una distanza».8 Come una rinuncia, anche quella più intima dell’amore, del desiderio, del bello. Solo nella distanza si dà la bellezza. «Bellezza. Un frutto che si guarda senza tender la mano».9 Il modo in cui Simone Weil concepisce le relazioni è la presenza di un vuoto, o di una distanza, di uno spazio estraneo all’interno dell’intimità, dell’affetto, della vicinanza e della comunità. 

«Ogni amicizia è impura se vi affiora, anche solo come traccia, il desiderio di piacere o il desiderio opposto. In un’amicizia perfetta questi due desideri sono completamente assenti. I due amici accettano pienamente di essere due e non uno, rispettano la distanza imposta dal fatto di essere due creature distinte. È con Dio soltanto che l’uomo ha il diritto di desiderare di essere direttamente unito. L’amicizia è il miracolo grazie al quale un essere umano, accetta di guardare a distanza e senza avvicinarsi quello stesso essere che gli è necessario come il nutrimento. È la forza d’animo che Eva non ha avuto, eppure non aveva necessità del frutto. Se avesse avuto fame nel momento in cui contemplava il frutto e se, ciononostante, fosse rimasta per un tempo infinito a contemplarlo senza fare un passo verso di esso, avrebbe compiuto un miracolo analogo a quello della perfetta amicizia».10

La distanza è lo sforzo della massima apertura all’altro, è l’estensione privilegiata per posizionare lo sguardo sulla realtà, è il modo con cui esercitare la facoltà di attenzione al reale.

«Noi siamo nella irrealtà, nel sogno. Rinunciare alla nostra illusione di essere situati al centro, rinunciarvi non solo con l’intelligenza, ma anche con la parte immaginativa dell’anima, significa aprire gli occhi alla realtà, all’eternità, vedere la vera luce, sentire il vero silenzio. Allora si produce una trasformazione alla radice stessa della nostra sensibilità […] una trasformazione analoga a quella che avviene in noi quando, di sera, in una strada di campagna, nel punto in cui avevamo creduto scorgere un uomo accovacciato distinguiamo improvvisamente un albero; o quando, avendo creduto di sentire un bisbiglio, ci accorgiamo che è stato, invece, un fruscio di foglie. Sono gli stessi colori, gli stessi suoni, ma li vediamo e li sentiamo in modo diverso».11

Stare a distanza significa per S. Weil rinunciare all’illusione di essere al centro del mondo.

 

Sensi antiquati

 In un celebre aforisma che estrapoliamo da Minima Moralia, T.W. Adorno, il filosofo più autorevole della Scuola di Francoforte, elogia il tatto «come la sola possibilità di salvezza tra gli uomini estraniati», che poi finisce con l’essere ingabbiato nell’«inumanità del progresso» e di conseguenza col provocare «l’atrofizzazione del soggetto».12 Solo la distanza può mitigare l’estraneità e alleviare la coscienza reificata. La tecnica avvicina l’inumano progresso, rende vicini gli uomini tra loro. Ma la vicinanza è il canale preferenziale della violenza e dell’annientamento totale, mentre la distanza assume la valenza del non identico, mentre l’istanza dell’identico è adornianamente l’istanza della falsificazione.

In quest’ottica, la distanza tra l’uomo e la tecnica è tematizzata in maniera quasi apocalittica da Günther Anders, pensatore ebreo-tedesco, il più irriverente della scena filosofica novecentesca: egli ha parlato con molto anticipo del mondo che ci giunge a domicilio.13 Per Anders non è più l’uomo ad andare nel mondo ma il mondo a venire da lui. Come arriva il mondo? Sotto forma di immagine. Il passaggio epocale è allora proprio questo: la metamorfosi del mondo, nella sua concretezza, nella sua Faktizität, al mondo come immagine. Il mondo allora, come prima cosa, da esterno diventa interno, «ha trovato sede nella mia stanza», ma nella forma depauperata e corrotta di mero eidos. Il passaggio antropologico-filosofico che rileva Anders è questo cambio di vesti del mondo, da realtà a rappresentazione dovuto soprattutto alla televisione.

Il reale si uniforma alla sua riproduzione, fino a diventare la matrice di questa, cancellando o meglio rovesciando la differenza tra essere e apparire, tra realtà e finzione. Il senso dunque è quello di apparenza da un lato ma di messa in scena dall’altro. La copiosità delle immagini e il vuoto del mondo si condizionano a vicenda: dalle immagini sembra effettivamente provenire una forza metafisica che si manifesta come una nuova «ragion in(sufficiente)» delle cose perché senza immagini non vi sono cose, non vi è mondo. Aumenta a dismisura la distanza tra l’uomo e i suoi prodotti.

Oggetto principale dell’analisi andersiana è, però, la televisione che produce un tipo d’uomo, l’«eremita di massa», che consuma in famiglia o da solo i prodotti massificati che l’industria televisiva gli impone. Egli diventa perciò un lavoratore a domicilio. Nasce un nuovo tipo d’uomo: «l’eremita di massa», ciascuno separato dall’altro, anche se ognuno uguale all’altro. Siamo così ridotti tutti a «lavoratori a domicilio», impiegati nella produzione dell’uomo di massa che noi stessi siamo e per la nostra collaborazione non riceviamo nulla in cambio, ma anzi dobbiamo pagare, acquistando i mezzi tramite i quali cooperiamo alla nostra trasformazione in uomini di massa. L’uomo così, senza accorgersene viene privato della sua personalità e della sua individualità per essere omologato, ridotto a un consumatore di immagini.

In un capitolo del primo tomo de L’uomo è antiquato di Anders, leggiamo un’impressionante fenomenologia del fantasma che perfora l’ordito dei rapporti tra l’io e il mondo. Vedere senza andare a vedere sul posto, percepire senza esserci veramente: questo è il segnale di una nuova fase, più perfezionata, della cultura di massa, la vera accidia del nostro tempo. Prima il pubblico di massa si trovava almeno unito dal fatto di assistere insieme a uno spettacolo (pensiamo al teatro o al cinema), di condividere le emozioni. Con la televisione questo non avviene più, poiché s’impone una forma di atomizzazione. Il carattere domesticodel mezzo è il maggior responsabile dell’appiattimento emozionale che caratterizza il nostro essere. Guardiamo tutti le stesse cose, compriamo tutti le stesse cose e di conseguenza parliamo delle stesse cose e pensiamo in blocco le stesse cose: non c’è più spazio per l’originalità, ma solamente per l’omologazione intellettuale.

«Quel che riceviamo non sono mere immagini. Però non siamo nemmeno realmente presenti alla realtà. Effettivamente la domanda: “Siamo presenti o assenti?” non ha fondamento. Ma non perché la risposta «immagine» (e con ciò “assente”) sia ovvia; ma perché la singolarità della situazione creata dalla trasmissione sta nella sua ambiguità ontologica; perché gli avvenimenti trasmessi sono al tempo stesso presenti e assenti, al tempo stesso reali e apparenti, ci sono e al tempo stesso non ci sono: perché sono fantasmi».14

L’uomo ha dimenticato il mondo là fuori, ciò che di esso sperimenta, gli arriva nell’antro attraverso gli schermi. Ogni differenza tra essere e apparire, tra apparenza e realtà è superata. Solo le immagini fantomatiche che arrivano da un altrove (che non è visibile) lo raggiungono. Non sa più nulla del mondo, scambia la copia per l’originale, è condannato a “essere muto”. L’esperienza tace. Il vero problema morale concerne il rischio del soffocamento di ogni impulso morale a opera della tecnica:

«[…] Ora i problemi della morale, e non solo i “problemi”, ma anzitutto le nostre stesse azioni morali e immorali, che lo vogliamo o no, vagano prive di radici nell’oceano dell’essere, moralmente indifferente, per così dire sotto forma di “fiori metafisici recisi […] “Dico prive di radici”, perché abbiamo perduto anche la possibilità che aveva avuto Kant di fare dell’autonomia (o della semiautonomia) proprio il positivo metafisico, la “Libertà”. La vita del moralista non è piacevole ai nostri giorni».15

L’artificialità dell’uomo, della sua «non-appartenenza al mondo» è priva di radici: si materializza nei suoi prodotti, nel suo poter concretamente «astrarre» dal mondo così com’è. L’uomo non è più in grado di afferrare il senso veicolato dei suoi prodotti che assumono una presenza dominante nella vita quotidiana: avverte che il suo sentire arranca dietro il suo agire, percepisce l’incolmabile distanza delle sue facoltà tra il sentire, l’immaginare e il produrre.

Il pensatore tedesco offre un’anteprima impressionante dei tempi che viviamo. La pandemia ha rinvigorito l’età del digitale, contribuendo a realizzare una trasformazione profonda del nostro attuale assetto psico-fisico, delle nostre modalità percettive e di rappresentazione. Siamo dinanzi alla crisi irreversibile di civiltà che vede la trasformazione dell’uomo all’interno dei processi di tecnicizzazione del mondo, laddove lo sguardo critico rivolto alla dimensione corporea si approfondisce fino a cogliere l’annullamento del sentire e l’“antiquatezza” dei sensi.

«Determinante è il fatto che si insegna a “essere creativi” (how to get creative) in corsi collettivi, persino a distanza, per radio; dunque anche gli elementi della creatività vengono forniti a domicilio prefabbricati. Insomma questa tragicommedia non si differenzia per nulla da quella del Robinson artificiale. Anch’essa è un’escursione intrapresa dall’uomo antiquato, fornito di tutto il lusso dei prodotti finiti dell’epoca moderna, verso uno stadio antiquato di produzione e di esistenza; un’escursione che, naturalmente, non può mai giungere in porto, perché modo e stile del viaggio contrastano con la meta del viaggio».16

In tempi di distanziamento sociale, di regime dello smart-working17, di didattica a distanza nel mondo della scuola e dell’università (e-learning)18, di ogni forma di socialità in remoto, c’è da prendere atto con molto disincanto che somigliamo sempre più a dei Robinson artificiali a cui vengono forniti a domicilio tutti gli elementi della creatività. Tale situazione probabilmente rimarrà, passata l’emergenza della pandemia.

 

 

Note

1L. DE LUCA, Elogio della distanza, Armando, Roma 2020, p. 53.

2 D. PAGLIACCI, L’io nella distanza. Essere in relazione oltre la prossimità, Mimesis, Milano 2019, p. 268.

3 Cfr. E. BORGNA, La nostalgia ferita, Einaudi, Torino 2018.

4 E. TADINI, La distanza, Einaudi, Torino 1998, p. 14.

5 Ivi, p. 9.

6 Cfr. M. VOZZA, A debita distanza. Kierkegaard, Kafka, Kleist e le loro fidanzate, Diabasis, Reggio Emilia 2007.

7E. BORGNA, L’attesa e la speranza, Feltrinelli, Milano 2005, p. 66.

8 S. WEIL, L’attesa di Dio, Adelphi, Milano 2014, p. 177.

9 S. WEIL, L’ombra e la grazia, Bompiani, Milano 2002, p. 267.

10 S. WEIL, L’amicizia pura, Castelvecchi, Roma 2013, pp. 136-137.

11 S. WEIL, L’attesa di Dio, cit., pp. 120-121.

12 Ivi, aforisma 16, pp. 30-31.

13G. ANDERS, L’uomo è antiquato, vol.1, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 97.

14 Ivi, p. 126.

15 Ivi, p. 51.

16 Ivi, p. 192.

17 Cfr. M. BENTIVOGLI, In dipendenti. Guida allo smart working, Rubbettino, Soveria Mannelli 2020; C. CARRIERO, Smart-working, Hoepli, Milano 2020; F. DIOZZI, Lavoro a distanza, in “il Tetto”, n. 6/2020, pp. 28-35; M. MARTONE (ed.), Il lavoro daremoto, La Tribuna, Piacenza 2020.

18 Cfr. Didattica a distanza, Laterza, Bari 2020.

 

 


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