La guerra presa sul serio

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 Franz Rosenzweig Emanuel Lévinas

 

 

L’escatologia della pace a partire dalla Stella della Redenzione di Franz Rosenzweig
e Totalità e infinito di Emmanuel Lévinas

    

E quanto più intensamente un popolo ha compiuto in sé
l’unificazione di salus e fides, […] tanto più enigmatica
diviene per lui la possibilità che la guerra gli schiude:
la possibilità di perire. E così la guerra s’insinua
nel punto centrale della sua vita.

Franz Rosenzweig, La stella della redenzione

 

A dire il vero, siccome l’escatologia ha opposto la pace alla guerra,
l’evidenza della guerra si mantiene in una civiltà essenzialmente ipocrita,
cioè legata ad un tempo al Vero e al Bene, […] ai filosofi ed ai profeti.

Emmanuel Lévinas, Totalità e infinito

 

 

1. Introduzione. Il teatro della Prima guerra mondiale e il dramma della “filosofia del tutto”

 

Concepito e abbozzato sul fronte balcanico del primo conflitto mondiale, il capolavorodi Franz Rosenzweig, La stella della redenzione,inizia descrivendo la guerra dal punto di vista più umano e singolare possibile, quello di un soldato appiattito nelle trincee, atterrito dai sibili dei proiettili. In queste circostanze, asserisce il filosofo ebreo, la favola dell’anima scissa dal corpo, che conquista da sola la sua pace eterna nell’aldilà, non convince più. La nebbia cerulea del tutto che ne assicurava l’incantesimo, sotto questi colpi sparati ad altezza uomo, si dirada improvvisamente lasciando scoperto nell’“aldiquà” il dato di fatto irriducibile della propria esistenza e delle proprie paure.

 

L’uomo si appiatti pure come un verme nelle fenditure della nuda terra davanti al sibilare dei colpi della cieca morte implacabile, e poi senta violentemente, inevitabilmente senta quanto altrimenti non avrebbe percepito: che se mai morisse, il suo io sarebbe soltanto un illud e perciò, con tutta la voce che gli resta in gola urli, urli ancora il suo io in faccia all’implacabile che lo minaccia di un così inconcepibile annientamento. A tutta questa miseria la filosofia rivolge il suo vacuo sorriso ed alla creatura, che è squassata in tutte le membra della paura del suo aldiquà, mostra con indice teso un aldilà di cui essa nulla vuol sapere.1

 

La prima grande guerra per Rosenzweig è dunque il teatro in cui è messo in scena il dramma della filosofia del tutto che «dalla Ionia fino a Jena» ha raggirato e illuso chiunque avesse sentito l’angoscia della morte come una domanda vera, personale, inaggirabile. Hegel sarebbe l’ultimo responsabile di questa “epocale” presa in giro, perché ha stretto nella morsa del suo sistema non solo l’individuo, cui ha promesso un destino spirituale dietro il suo sacrifico2, ma anche la sua proiezione nell’entità collettiva in cui si riconosce e si realizza, lo Stato. Quest’ultimo è portatore della stessa volontà di senso e di destino, e non può che lottare per realizzare la sua parte di spirito nell’economia del tutto. La guerra è il mezzo attraverso cui la logica dell’idealismo suggella la vittoria dello spirito. Individuo e popolo sono soggette alla stessa dialettica del progresso3, di cui la guerra è il mezzo “più evidente”. Un’evidenza che mette a nudo il vuoto morale di chi perde di vista la priorità del comandamento del non uccidere. Questo è l’aspetto che sta più a cuore ad un altro filosofo ebreo, Emmanuel Lévinas, che nella prefazione alla sua opera più celebre, Totalità e infinito, si scaglia contro il lato morale del raggiro filosofico ovvero l’ipocrisia, letteralmente la pochezza di giudizio, la mancanza di coraggio nella decisione, l’assenza “totale” di una volontà resistente e critica: tutti significati che sono diventati l’emblema di un’intera epoca.

 

È forse giunto il momento di riconoscere nell’ipocrisia, non solo una spregevole mancanza contingente dell’uomo, ma la lacerazione profonda di un mondo legato ad un tempo ai filosofi ed ai profeti.4

 

Debitore verso il filosofo di Kassel della critica al concetto di totalità5, Levinas prende sul serio il tempo della pace, l’escatologia, per tracciare una possibile via d’uscita dall’ipocrisia. Ne emerge una sorta di iper-crisia, un super giudizio, un tribunale meta-storico inserito nel cuore pulsante dello Stato. Per arrivarci vale la pena ripercorrere brevemente il cammino critico alla totalità e alla guerra compiuto da Franz Rosenzweig.

 

 

2. La guerra santa tra ebraismo e cristianesimo: l’“intrigo religioso” di Franz Rosenzweig

 

La guerra, che teneva il nemico lontano dai confini,
proteggeva certo i patrii altari, ma non era offerta sacrificale,
né azione culturale, né altare essa stessa.

Franz Rosenzweig, La stella della redenzione

 

La guerra che fa da sfondo, come abbiamo visto, all’incipit della Stella della redenzione,torna centrale nella terza parte sotto forma di teoria6, anche se ha una ben più lunga e interessante gestazione. Rosenzweig, infatti, aveva meditato di scrivere un vero e proprio libro sulla guerra già intorno al 1910, mentre lavorava alla compilazione della sua tesi di laurea poi pubblicata con il titolo Hegel e lo Stato7. Se in questo lavoro l’analogia tra individuo e Stato è indagata attraverso le lenti del suo maestro Meinecke, per dimostrare che la guerra è la necessaria lotta per la libertà tra coscienze su scala collettiva, in Globus8 (forse il saggio più significativo sulla guerra poi non pubblicato), Rosenzweig elabora due grandi griglie interpretative, Ecumene e Thalatta, dietro le quali si intravedono all’orizzonte quelle figure che saranno le protagoniste della terza parte della Stella: l’ebraismo e il cristianesimo. Ecumene e Thalatta¸ Terra e Oceano, sono due concetti complementari9 intorno ai quali si possono leggere le vicende, i movimenti e i destini di interi popoli che cercano di conquistare un proprio spazio di azione e organizzazione, affermando e difendendo ogni volta nuovi confini e frontiere.

Siamo di fronte all’affresco di una storia universale che, dal primo atto di delimitazione di terra fino alla Prima guerra mondiale, tenta di spiegare il senso degli eventi come temporanei conflitti terrestri tendenti inevitabilmente all’unità futura, che il fenomeno della continuità fluida del mare anticipa e simbolizza allo stesso tempo. Da una parte la civiltà omerica, in cui un mare centrale è delimitato e identificato dalle terre circostanti, e dove prevale l’organizzazione. Dall’altra, il modello biblico, di una terra centrale delimitata da un mare che orienta da subito all’infinito e all’unità. Se il modello biblico contiene temporalmente il primo, nel senso che il mare è originario e al tempo stesso destinale, quello omerico rappresenta il conflitto verso una sintesi superiore e contenente che rimane sulla scia della dialettica hegeliana. In fondo, la prima guerra a vocazione mondiale può essere letta come un inveramento delle analisi del filosofo di Jena.

Ma ne La stella della redenzione la teoria della guerra prende un’altra direzione e prospettiva. Il seme del cambiamento è piantato una notte di ottobre del 1913 in cui Rosenzweig decise, nonostante le insistenze dell’amico Rosenstock, di non convertirsi al cristianesimo, restando ebreo. Da quel momento, in Rosenzweig comincia a farsi largo un’idea di ribaltamento delle prospettive, spostandosi da una visione spaziale ad una temporale. Se ha ragione Hegel nel sostenere che la storia è fatta dagli Stati che lottano per la loro esistenza, le comunità religiose, invece, secondo Rosenzweig, sono alla ricerca di una identità di fede e di una eternità al di là dei conflitti e della storia. Il centro della questione diviene il rapporto con il tempo, che è vissuto però come qualcosa che ci viene incontro e non che ci sfugge: non si cerca l’immortalità, ma si tenta di accogliere l’eternità che viene incontro. Siamo di fronte all’inversione della freccia del tempo, all’inversione della percezione della morte: da paura per il singolo a destino collettivo e quindi condiviso. La dimensione comunitaria soppianta il problema esistenziale dell’angoscia della morte ben prima di Heidegger; al problema esistenziale Rosenzweig risponde politicamente (la comunità) e messianicamente (l’oggi interpretato da un futuro già redento)10. Con una espressione singolare, che prelude però per analogia al suo discorso “anarchico”11, Lévinas parla qui dell’intrigo religioso12 di Rosenzweig. L’esperienza della guerra subita individualmente e passivamente nelle trincee diviene una teoria della guerra all’interno di un’analisi sociologica in cui si misura la risposta collettiva di un popolo.

Per spiegarla, finalmente, Rosenzweig parte innanzitutto da una premessa fondamentale: per i popoli antichi la guerra in sé non era mai oggetto principale o esclusivo dei loro riti:

 

la guerra, che teneva il nemico lontano dai confini, proteggeva certo i patrii altari, ma non era offerta sacrificale, né azione culturale, né altare essa stessa.13

 

Chi introduce l’idea di una guerra diversa, agita per una causa più alta in qualche modo voluta da Dio, e quindi santa14, è Israele. Rosenzweig si riferisce alla guerra contro i sette popoli di Canaan. Questa fu una lotta per lo spazio vitale di un popolo riconosciuto da Dio, una guerra condotta per “causa” sua.

Il popolo eletto, nel solco dei popoli antichi, vive la guerra come una necessità temporale, relativa, perché il suo senso e il suo destino è vissuto sotto il segno e a garanzia di un patto con Dio. Il popolo ebraico, infatti, essendo stato eletto da Dio e avendo stretto con Lui un patto, sa di essere giunto alla meta e vive il suo tempo come attirato dalla redenzione, dal futuro. Il patto ha rivelato il senso ultimo in modo definitivo, e il fatto «che gli anni si ripetano, vale solo come un attendere, tutt’al più come un peregrinare, ma mai come una crescita»15. La storia è davvero finita per il popolo eterno, perché eternità vuol dire appunto:

 

che tra l’istante presente ed il compimento non c’è tempo alcuno che possa pretendere di avere posto perché nell’“oggi” è già afferrabile tutto il futuro.16

 

Ma a parte questa, tutte le altre guerre di Israele, continua Rosenzweig, non saranno condotte con lo stesso spirito, ma secondo i dettami del diritto pubblico, perché sono guerre affrontate contro popoli “distanti”.

La visione della guerra dei popoli antichi e quella elettiva prenderanno una forma unitaria nel cristianesimo di Agostino, che appunto contesta la classica visione ciceroniana. Contro Cicerone, Agostino sostiene che salus e fides devono vivere sotto un unico cielo, in un’unità concettuale che sacralizza entrambi.

 

Per la chiesa una discrepanza […] tra la propria salvezza e la propria fede consacrata all’unico Essere superiore, non può sorgere, […] per lei salus e fides sono una cosa sola.17

 

Il pensiero del filosofo di Ippona condensa dunque, secondo Rosenzweig, la visione antica e ordinaria della guerra con quella condotta per volere di Dio da parte di Israele. Con il cristianesimo agostiniano, tutti popoli del mondo hanno cominciato a pensarsi e vedersi da una prospettiva più alta18.

È un concetto di elezione non del tutto autentico però, continua Rosenzweig, che vale più come un abito festivo che come un vero indumento da lavoro da usare nei giorni feriali19. La non autenticità di questo sentimento elettivo genera comunque uno stato di ansia, un presentimento di morte. Rosenzweig evidenzia un «senso di peso dolce e insieme doloroso» che si posa sull’amore per il proprio popolo che alimenta e condiziona la percezione della guerra. L’aspetto essenziale della guerra santa diviene il vincolo enigmatico e indissolubile di “vita e senso”. La descrizione merita qui un passaggio fedele per coglierne poi tutta la valenza fenomenologica e politica insieme:

 

La vita del popolo che viene messa in gioco è qualcosa che non si può mettere seriamente in gioco. Quale salvezza potrà conseguire il mondo se l’essenza di questo popolo viene cancellata dalla faccia della terra? E quanto più intensamente un popolo ha compiuto in sé l’unificazione di salus e fides, del proprio esserci e del proprio senso nel mondo, tanto più enigmatica diviene per lui la possibilità che la guerra gli schiude: la possibilità di perire. E così la guerra s’insinua nel punto centrale della sua vita.20

 

Appare evidente qui il debito o il riconoscimento di Rosenzweig verso Hegel, nel vedere una continuità scalare tra l’individuo che ha paura della morte e il popolo che combatte per la propria immortalità. Per Rosenzweig, il connubio individuo e Stato si salda già attraverso la forma dell’Ecclesia che il cristiano mutua dal modello pagano. Il cristianesimo – attraverso la formula dell’adunanza in cui il cristiano si costituisce e si ritrova come popolo per decidere della missione salvifica del mondo – media tra il paganesimo e la cultura giuridica romana forgiandosi nel calco del concetto di elezione ebraica21. La forma ecclesiale cristiana, ereditata del modello politico greco, si secolarizzerà nello Stato moderno, sostiene Rosenzweig, e questa impronta ne diventa il carattere destinale. È di fondamentale importanza cogliere il rapporto mimetico che il cristianesimo avrà nel tempo con il diritto di Cesare, il Sacro romano impero e infine gli Stati per comprendere la missione temporale della Chiesa, ma anche la logica di guerra che inevitabilmente la permea senza risolverla del tutto. La dialettica del cristianesimo con il diritto di Cesare rimane un segno distintivo del suo stare nel mondo, sigillo della sua missione profetica e al tempo stesso testimonianza di un rapporto reciprocamente costitutivo tra Stato e Chiesa. Se il diritto di Cesare riusciva a sottomettere tu\tti i popoli dell’impero, l’ecclesia proprio tramite il diritto riesce a conseguire la sua missione:

 

Nel mondo cristiano stato e chiesa si divisero fin dall’inizio. Nel mantenimento di questa separazione si viene compiendo, da allora, la storia del mondo cristiano. E non che la chiesa soltanto sia cristiana e lo stato non lo sia. Il “Date a Cesare ciò che è di Cesare” nel corso dei secoli non ha pesato di meno della seconda metà del detto evangelico. Infatti da Cesare proveniva il diritto a cui i popoli si inchinano. E nella universale diffusione del diritto sulla terra si compie l’opera dell’onnipotenza divina, la creazione.22

 

La sovrapposizione tra popolo, ecclesia e Stato si conferma dunque nell’appropriazione del tempo in vista dell’eternità. Il modo in cui la volontà divina si esprime nella vita degli Stati rimane però secondo Rosenzweig significativamente vago, perché il singolo cristiano, a differenza dell’ebreo, non saprà mai quanta parte avrà nel progetto “divino” della guerra. La propaganda bellica e interventista evoca un collegamento mistico tra popolo e destino in cui il singolo non ha alcun peso specifico:

 

In merito non decide nulla la coscienza del singolo, decide soltanto la guerra, che infuria senza riguardo al di sopra della coscienza dei singoli.23

 

Se l’ebreo, conservando ancora la distinzione tra guerra santa e guerra ordinaria, è l’unico “pacifista autentico”, perché ha una pace nell’anima che gli consente di vivere da fuori le contraddizioni del mondo24, il cristiano, invece, cerca una pace impossibile nello Stato: «quella forma mutevole sotto la quale il tempo passo passo si muove in direzione dell’eternità».

Ecco l’altra faccia della guerra santa: una sorta di pace sospesa, magica, che lo Stato garantisce temporaneamente in vista dell’eternità. Se il popolo ebraico vive la sua eternità in trazione dal futuro, i popoli del mondo si eternizzano soltanto se si affidano allo Stato. Quest’ultimo ha il compito di arrestare l’incessante flusso del tempo, come un “lago”25. Lo Stato diviene uno strumento di eternizzazione.

 

Nei popoli del mondo vi è temporalità. Ma lo stato è il tentativo che è necessario rinnovare incessantemente, di conferire eternità ai popoli nel tempo.26

 

Ma anche se lo Stato tenta di arrestare la corrente della vita, la vita non si lascia fermare, sottolinea Rosenzweig, perché la vita è come il tempo: conosce solo il movimento e il tempo, citando Eraclito, “non si può fermare”. Certo lo Stato prova a introdurre la sua “legge” del cambiamento, ma questa dura fintantoché dura il popolo che la mantiene in essere. Una lotta costante e inesauribile tra legge e vita contraddistingue la vita dei popoli e dei loro Stati. E se il mutamento vince sempre, allora lo Stato non può che rivelare il suo vero volto: la violenza. Il fiume di Eraclito spiega il senso del frammento sulla paternità di polemos: perché il diritto possa affermarsi deve negarsi nel suo metodo. La violenza dunque è all’origine del diritto:

 

Il senso di ogni violenza è che essa fonda nuovo diritto. Essa non è la negazione del diritto, come si pensa, affascinati dal suo fare sovversivo, ma al contrario ne è la fondazione.27

 

Ecco intravedersi qui il “modo” in cui il popolo mondano si garantisce un senso di eternità. Se all’origine del diritto c’è la violenza, e ogni volta un diritto nuovo sopraggiunge modificando e cambiando un diritto vecchio, è l’istante in cui avviene questo rinnovamento il luogo della contesa e lo spazio intimo in cui si gioca un senso di eternità, il barlume di una redenzione. Tutto dipende dall’effige che riceve questo frammento di tempo cangiante, dal modo in cui viene percepito. È nell’istante, sostiene Rosenzweig, che lo Stato contrappone il suo marchio, trovando così il suo senso e il suo fine ultimo. Sull’interpretazione di questo frammento di tempo si evidenzia la differenza dal modo di vita del popolo ebraico. Quest’ultimo vive l’istante in un contesto normativamente altro, ovvero come espressione di un mondo creaturale che aspira alla redenzione. Quindi è iscritto in un orizzonte di senso in cui l’azione dell’uomo realizza una volontà, un disegno divino. L’ebreo coglie nell’istante la portata, la potenzialità divina:

 

in modo da rendere eterno l’istante in un costume stabilito una volta per tutte ed in una legge immutabile.28

 

Il popolo del mondo, invece, attraverso lo Stato e le sue leggi, vive l’istante come oggetto di dominio, come qualcosa da plasmare a proprio piacimento. Per quanto breve, l’istante ha il tempo di lasciare un segno indelebile del suo passaggio, un punto sul quale il popolo mondano fonda parte della sua identità, assicura la sua memoria, centra un momento significativo della sua narrazione. Il popolo mondano vive la sua epoca come epoché, come un frammento di tempo intervallato da istanti significativi29. Non il singolo punto, dunque, acquista senso, ma lo spazio e il tempo che intercorre tra un punto e l’altro. Illuminante qui appare una frase che troviamo qualche pagina dopo ne La stella in cui Rosenzweig riflette sulla differenza tra ebraismo, identificato come “vita eterna”, e il cristianesimo, via eterna:

 

Vita eterna e via eterna sono diverse come sono diverse l’infinità di un punto e di una linea. L’infinità di un punto può consistere soltanto nel non essere mai cancellato; così esso permane nell’eterna autoconservazione del sangue che continua a generare. L’infinità di una linea invece viene meno appena non è più possibile prolungarla; essa consiste infatti in questa possibilità di prolungamento ininterrotto. Il cristianesimo, come via eterna, deve espandersi sempre di più. Il semplice mantenere le sue posizioni significherebbe per lui la rinuncia alla sua eternità e quindi la morte. La cristianità dev’essere missionaria.30

 

La guerra tra Stati diverrà in Hegel la sanzione e la conferma dei passaggi/istanti epocali della storia universale31.

Lévinas, interprete di Rosenzweig, chiarisce che la storia della salvezza del cristianesimo non si risolve nella logica della guerra. Il Cristianesimo, come l’ebraismo, propone un senso della storia il cui il giudizio universale dirà l’ultima parola. Da questo punto di vista sono entrambi fautori di una teoria dell’istante che libera l’individuo dalla totalità e dall’annichilimento passivo:

 

Il senso ultimo del reale si formula – e la salvezza si gioca – al di sopra delle guerre e delle rivoluzioni che riempiono la storia universale, alla quale Rosenzweig si rifiuta di riconoscere un senso, nel tempo escatologico delle religioni, nel tempo assoluto al quale conviene riferirsi. L’ebraismo e il cristianesimo sarebbero, prima di tutto, due modi di rapportare il tempo dell’individuo, lo scorrere degli istanti, al tempo assoluto, al Giorno del Signore, due modi di rendere vicino o di anticipare il regno di Dio.32

 

Pur tuttavia la sovrapposizione anche solo temporanea di chiesa e Stato, «l’esorcismo guerriero» di uno Stato che tramuta il flusso del tempo in eternità “epocale”, lascia un’ambiguità che sembra dar ragione a Hegel e alla sua storia universale:

 

Senza lo stato non ci sarebbe storia universale.33

 

Un’ambiguità che l’ebraismo spazza via per propria natura, per il fatto di eternizzare l’istante senza procrastinarlo mai, vivendo di fatto fuori dalla storia, incurante del suo senso e delle logiche di eventi altri da quelli del patto. Una riposta fondata sul patto che garantisce al popolo eletto una giurisdizione altra dalla storia e dalla logica degli eventi che invece il cristianesimo in qualche modo insegue:

 

La libertà nei confronti della logica apparente degli eventi, la possibilità di giudicarli: ecco l’eternità. Israele non si arroga la libertà nei confronti della Storia perché è riuscito a sopravvivere miracolosamente. L’ebraismo si è conservato come una coscienza attraverso la storia perché, fin dall’inizio, ha saputo rifiutare la giurisdizione degli eventi. Hegel vuol far giudicare i popoli dalla storia anonima. Il contributo di Rosenzweig è stato quello di dimostrare che i ruoli sono rovesciati. E voler essere ebrei ai giorni nostri vuol dire, prima ancora di credere a Mosè ed ai profeti, rivendicare questo diritto di giudicare la storia, cioè rivendicare la posizione di una coscienza che si pone incondizionatamente, essere membri di un popolo eterno. Solo che, in ultima analisi, questa coscienza non è forse possibile senza Mosé ed i profeti.34

 

Qui si innesta il contributo fenomenologico di Lévinas: la sua riflessione sulla guerra riparte dalla sua “evidenza”. Un’evidenza inaggirabile che sconfessa e denuda le ambiguità e le ipocrisie non solo dei filosofi, ma anche dei profeti. L’invettiva si rivolge anzi proprio contro quei filosofi che si comportano come profeti e a quei profeti che si comportano da filosofi; sullo sfondo si intravede già il tentativo di smascherare un Cristianesimo che ancora indugia su una morale ingenua. Lévinas del resto, a differenza di Rosenzweig, sarà testimone delle appendici nefaste e orrende della Seconda guerra mondiale.

 

 

3. L’evidenza della guerra in una civiltà essenzialmente ipocrita: E. Lévinas

 

La politica si oppone alla morale,
come la filosofia all’ingenuità.

Emmanuel Lévinas, Totalità e infinito

 

Nella prefazione a Totalità e infinito, Lévinas prende avvio dalla constatazione che la morale fa finta di non vedere ciò che è evidente più che mai, anzi l’evidenza stessa, ovvero che la guerra decide tutto:

 

Lo stato di guerra sospende la morale; esso priva le istituzioni e le obbligazioni eterne della loro eternità e, quindi, annulla, nel provvisorio, gli imperativi incondizionali. Esso proietta fin dall’inizio la sua ombra sugli atti degli uomini. La guerra non è solo una delle prove – la più grande, tra l’altro – di cui vive la morale. Ancor di più, la rende irrilevante. L’arte di prevedere e di vincere con tutti i mezzi la guerra – la politica – si impone, quindi, come l’esercizio stesso della ragione. La politica si oppone alla morale, come la filosofia all’ingenuità.35

 

Da subito dunque il campo di battaglia scelto da Lévinas è quello che si apre tra la morale e la politica, uno spazio la cui distanza si misura con le categorie della relazione tra l’io e il tu, e quindi sulla possibilità e la qualità dei gesti, delle azioni libere, della parola. Se la guerra «instaura un ordine nei confronti del quale nessuno può prendere le distanze», sono la distanza e la differenza il vero nemico della guerra, ovvero ciò che è esteriore a se stessa. La critica alla totalità, come concetto inglobante e annichilente la realtà, torna quindi in Lévinas mutuato esplicitamente da Rosenzweig36, ma il taglio fenomenologico scelto dal filosofo di Kaunas ci mette davanti non solo l’elemento preponderante della relazione tra le persone, quanto soprattutto la loro capacità personale di resistere alla violenza bruta della guerra. Dopo i campi di concentramento, Lévinas indaga le cause ultime della sconfitta della volontà, dell’incapacità di ribellarsi all’orrore indicibile.

 

La violenza non consiste tanto nel ferire e nell’annientare, quanto nell’interrompere la continuità delle persone, nel far loro recitare delle parti nelle quali non si ritrovano più, nel far loro mancare, non solo a degli impegni, ma alla loro stessa sostanza, nel far compiere degli atti che finiscono con il distruggere ogni possibilità di atto.37

 

Nel saggio Libertà e comando, dei primi anni ’50, il rapporto tra chi ordina e chi esegue l’ordine è analizzato punto per punto ed emerge innanzitutto il fatto che la guerra tende all’isolamento di chi comanda e all’annientamento di colui che esegue il comando. Subentra qui lo stato d’animo di colui che è vessato dalla guerra, che alla fine accetta «la suprema volenza con suprema dolcezza».

 

Come si sa, le possibilità della tirannide sono ben più ampie. Le risorse di cui dispone sono infinite, dall’amore al denaro, dalla tortura alla fame, dal silenzio alla retorica. Essa può annientare nell’animo tiranneggiato lo stesso potere di essere ostacolato […]. La vera eteronomia comincia quando l’obbedienza smette di essere obbedienza cosciente e diventa inclinazione spontanea. La violenzasuprema sta in questa suprema dolcezza. Avere un animo da schiavo significa non poter essere ostacolato, non poter essere comandato. L’amore del padrone riempie l’animo al punto che esso non prende più le distanze.38

 

Come una Gorgone che pietrifica chi osa guardarla, la guerra, osservata attraverso le lenti della totalità, trasforma la volontà cosciente in inclinazione spontanea e l’angoscia per il futuro diviene dolce acquiescenza nel presente. L’ordine in guerra rivela così il suo aspetto totalizzante nel momento in cui offre un convincente orizzonte di senso per chi lo ascolta.

 

In essa gli individui sono ridotti ad essere i portatori di forze che li comandano a loro insaputa. Gli individui traggono da questa totalità il loro senso.39

 

La morale per Lévinas può accettare che la gravità di atti nell’oggi sia giustificata alla luce di un senso finale (una lettura “teleologica”), ma a patto però che questo senso finale sia la pace. Ma la pace, avverte Lévinas, per queste vie non giunge mai perché da una parte trascina con sé un presente di violenza con cui scende a patti e dall’altra la vita, appena negata nell’istante, non lascia mai veramente “in pace” il singolo.

 

La coscienza morale può tollerare lo sguardo beffardo della politica solo se la certezza della pace domina l’evidenza della guerra. Ma una certezza di questo tipo non si ottiene con un semplice gioco di antitesi. La pace degli imperi prodotti dalla guerra si fonda sulla guerra. Essa non restituisce agli esseri alienati la loro identità perduta.40

 

Il volto dell’essere che si manifesta attraverso la guerra va dunque inquadrato da un altro punto di vista che per Lévinas non può che essere quello escatologico, che posiziona l’osservatore fuori dalla totalità, ma dentro il tempo presente. Fondamentale appare dunque mettere in discussione il concetto hegeliano di storia come il giudice supremo degli eventi, a favore invece di una giurisdizione che veda ogni causa già matura nell’oggi, e la stessa storia come oggetto di giudizio. Il volto dell’essere deve liberarsi della maschera finita della guerra e riacquistare l’idea di infinito attraverso la quale ogni ente ritrova la sua irriducibile singolarità e dignità.

 

L’idea dell’essere che va oltre i confini della storia rende possibili degli ent-i(étant’s) impegnati nell’essere e, nello stesso tempo, personali, chiamati a rispondere al loro processo e, quindi, già adulti, ma, per ciò stesso, degli ent-i che possono parlare, invece di offrire le loro labbra ad una parola anonima della storia. La pace si produce nella forma di questa capacità di parola.41

 

Una parola che, nel caso della guerra, deve testimoniare la verità del presente, suggellare ciò che ha visto, nel volto irriducibile dell’altro, rispondendo al comandamento di non uccidere. E qui si aprono tutte le sfumature della parola, come la declinazione delle passioni tristi che vanno dalla ignavia, alla ipocrisia fino alla negazione e all’indifferenza.

Per Lévinas, però la Seconda guerra mondiale (con l’eccidio di milioni di ebrei e le bombe nucleari), ha evidenziato come l’ipocrisia, da “spregevole mancanza” del singolo, sia divenuta cifra di un’intera epoca:

 

A dire il vero, siccome l’escatologia ha opposto la pace alla guerra, l’evidenza della guerra si mantiene in una civiltà essenzialmente ipocrita, cioè legata ad un tempo al Vero e al Bene, […] ai filosofi ed ai profeti.42

 

Se l’accusa di ipocrisia sembra rivolta immediatamente alla visione platonica della verità e all’idealismo hegeliano, e quindi al pensiero del tutto che va «dalla Ionia a Jena», secondo la definizione di Rosenzweig, l’obbiettivo vero, appena fenomenologicamente velato, è però il cristianesimo e la sua miopia. In un articolo del 1950, a ridosso quindi della fine del conflitto, il giudizio di Lévinas sul cristianesimo era molto più tagliente:

 

In mezzo a tanti altri orrori, lo sterminio di sei milioni di esseri umani senza difesa, in un mondo che il cristianesimo in duemila anni non è riuscito a rendere migliore, sottrae ai nostri occhi molto del prestigio legato alla sua conquista dell’Europa. Certamente non potremo mai dimenticare la purezza degli atti individuali di cristiani […]. Ma non si può contestare l’insuccesso – sul piano politico e sociale – del cristianesimo. […] Il cristianesimo non ha mai contestato che le cose di quaggiù siano importanti. Ma sovrastima e sottostima nello stesso tempo il peso della realtà che vuole migliorare. Lo sovrastima perché vi rintraccia una resistenza totale all’azione umana. I rapporti che l’uomo instaura con se stesso e con il suo prossimo gli sembrano statici, inalterabili, eterni. Lo sottostima perché spera che un intervento miracoloso della divinità trasfiguri totalmente tale brutale pesantezza.43

 

La visione cristiana finge di non vedere la debolezza dell’uomo, crede al rispetto umano per natura e non come compito da perseguire nell’ascolto immediato del comandamento del non uccidere.

L’esito della Seconda guerra mondiale, che ha messo a nudo dinamiche psichiche collettive su cui non si può rimanere indifferenti, induce Lévinas a pensare il ruolo dello Stato diversamente da Rosenzweig, Quest’ultimo, come abbiamo visto, ha una posizione sullo Stato che alcuni commentatori hanno definito “anarchica”44 perché per il filosofo di Kassel il suo vero volto è la violenza. Lévinas, invece, già nei primi anni ’50, ancora sotto l’influenza di un certo hegelismo45, in verità, scrive della necessità dello Stato, in quanto necessario presupposto della libertà.

 

La libertà consiste nell’istituire fuori di sé un ordine della ragione: nell’affidare il ragionevole allo scritto, nel ricorrere all’istituzione. La libertà, nel suo timore della tirannide, ha per esito l’istituzione, un impegno della libertà in nome della libertà, uno Stato. 

La libertà come obbedienza alla legge, dipende certo dall’universalità della massima, ma anche dalla incorruttibilità dell’esistenza esterna della legge, e in tal modo si trova al riparo dal cedimento soggettivo, al riparo dal sentimento. L’opera più alta della libertà sta nel garantire la libertà. Essa può essere garantita soltanto dalla costituzione di un mondo in cui le prove della tirannide siano risparmiate. […] Ecco allora la nostra conclusione provvisoria: imporsi un comando per essere liberi, ma precisamente un comando esterno, non una semplice legge razionale, non un imperativo categorico senza difese contro la tirannide, ma una legge esterna, una legge scritta, munita di forza contro la tirannide: ecco in forma politica il comando come condizione dalla libertà.

 

Il tema dello Stato come garante delle libertà diventerà poi la problematica del “terzo” accennato in Totalità e infinito e sviluppato più diffusamente in Altrimenti che essere46. Ma la necessità dello Stato, per quanto esclude una visione anarchica, non è tuttavia senza condizioni e proprio il tema della guerra consente a Lévinas di fare dei distinguo ai fini di una “seria” escatologia della pace.

 

 

4. L’“intrigo anarchico”: Emmanuel Lévinas contro Hobbes, letto da Miguel Abensour

 

Un aspetto sorprendente di Levinas
è che egli riconosce l’esistenza dello Stato

Miguel Abensour, La comunità politica

 

Il filosofo francese Miguel Abensour47 si è confrontato a lungo con gli scritti più politici di Lévinas. Annoverando il filosofo di Kaunas come un pensatore anti-hobbesiano, Abensour rileva come sorprendente il fatto che Lévinas, pur distinguendo sostanzialmente due tipi di Stato, ne riconosca comunque la necessità48. Da una parte c’è lo stato di Hobbes, in cui vige un costante stato di guerra perché l’uomo è concepito come un animale (homo homini lupus); dall’altro lo Stato di Davide, che si basa sulla giustizia, in cui prioritario è il riconoscimento della responsabilità per l’altro, il suo volto, quindi del prossimo.

Per Lévinas, il primo, lo Stato hobbesiano, è fondato sostanzialmente sul rapporto di forze contrastanti, dove inevitabilmente centrali sono il calcolo e l’astuzia49. La libertà è vista unicamente nella sua caratteristica selvaggia, come forza bruta che non lascia spazio ad alcuna esteriorità, a nessuna dimensione volontaria: volontà che colui che comanda la guerra neutralizza, annichilendo qualsiasi resistenza. Se l’uomo è descritto come un lupo, la guerra non può che essere una guerra di “imboscata”, che tende ad escludere ogni spazio di ascolto, di incontro tra volontà, di riconoscimento del volto.

 

La violenza applicata all’essere libero è, nel senso più generale, la guerra. […]. La guerra non è l’urto di due sostanze, non è l’urto di due intenzioni, ma il tentativo dell’una di dominare l’altra attraverso la sorpresa e l’imboscata. La guerra è l’imboscata. Essa consiste nell’impossessarsi della sostanza dell’altro, di quanto in lui è forte e assoluto, a partire da quanto in lui è debole. La guerra è la ricerca del tallone di Achille; oppure è esaminare altri – l’avversario – con un calcolo logistico, come un ingegnere che misuri lo sforzo necessario per demolire la massa nemica, dal momento che qui altri diventa massa. […] In altri termini, quel che caratterizza l’azione violenta, quel che caratterizza la tirannide, è il fatto di non guardare in faccia ciò a cui si applica l’azione. Detto più precisamente: il fatto di misconoscere la faccia, di vedere l’altrui libertà come forza, come libertà selvaggia, di identificare l’assoluto dell’altro con la sua forza.50

 

Secondo Abensour, questo tipo di Stato, non concependo alcuna forma di “esteriorità”, alcuna volontà altra, non lascia possibilità di critica contro di esso: un giudizio è di fatto negato. Con Hobbes, dice sostanzialmente Lévinas, siamo già di fronte a uno Stato violento in quanto totalitario.

Nell’altro tipo di Stato, basato invece sulla giustizia, Lévinas ipotizza un rapporto con l’alterità che non è identificabile e quantificabile come forza. In questo Stato la prossimità del volto diviene dimensione originaria: «La guerra presuppone la pace, la presenza preliminare e non allergica d’Altri; non rappresenta il primo fatto dell’incontro».

Di qui l’“ipotesi stravagante” sottolineata da Abensour:

 

Come scrive a più riprese, “non è senza importanza sapere” se lo Stato deriva da una limitazione della violenza come sostiene Hobbes, o da una limitazione dell’infinito della relazione per altri. Cos’è che lo Stato va a limitare? La guerra di tutti contro tutti, permettendo un accesso alla sicurezza, oppure “la follia etica” permettendo un accesso alla politica, alla giustizia e alla misura? Lévinas propende per la seconda opzione – e così facendo propone un secondo modello – nella misura in cui secondo lui la guerra non è all’inizio di tutto.51

 

Lévinas scriverà quasi con le stesse parole di Rosenzweig52 della terza parte della Stella: «Non è affatto sicuro che in principio vi fosse la guerra. Prima della guerra vi erano gli altari». Ma se in Rosenzweig una guerra “senza altari” è solo l’origine mitica del fenomeno da cui il popolo ebraico con un intrigo “religioso” si è tirato fuori, in Lévinas diventa un’ipotesi concreta di lavoro per immaginare un altro Stato oltre Hobbes. Si innesta qui l’intrigo anarchico di Lévinas che sviluppa in Altrimenti che essere. Si domanda, infatti, in che modo uno Stato, che deve esercitare la forza per garantire le condizioni stesse della fragile libertà, possa mantenersi non totalitario, ovvero aperto da un lato alla prossimità e dall’altro perseguire le istanze universali di giustizia?

 

Nato da una limitazione dell’infinito della responsabilità per altri, è preso in una traiettoria che procede dall’“al di qua” della responsabilità, della prossimità, e al contempo all’“al di là” della giustizia. In qualche modo combattuto tra questi due poli, esso deve restare fedele alla propria origine. […] Fedeltà tanto più vincolante in quanto la giustizia, a rischio di degenerare, si sforza di mantenere un contatto con la prossimità, nonostante il suo sforzo consista nel limitarla, nell’apportarvi una misura.53

 

Si delinea così uno Stato della giustizia in lotta con se stesso, attirato da due forze centrifughe, che per quanto opposte alla forza centripeta dello Stato totalitario hobbesiano (che tutto controlla), purtuttavia lo sconquassano dall’interno e lo costringono ad andare oltre se stesso. L’“intrigo anarchico”, secondo Abensour, si declina attraverso una originale concezione dell’utopia. Abensour precisa subito che non siamo di fronte ad un’utopia lévinasiana, quanto piuttosto ad un nuovo “pensiero levinasiano sull’utopia”. Si tratterebbe di uno Stato altro sotto il segno di un’utopia intesa non come non-luogo54 ma come “dislivellamento dell’essere”, come “messa in opera di gesti nuovi” per “allontanare l’utopia da ogni inscrizione, da ogni installazione nell’essere”. Sullo sfondo si staglia uno Stato della giustizia che contiene in sé l’infinito del volto, come concetto immemorabile55 di una prossimità che le istituzioni devono salvaguardare. Si insinua nel cuore dello Stato un principio, una archè che scompagina costantemente il sistema che tende a rifondarsi sulla violenza. Un intrigo anarchico protegge lo Stato dal ricadere di fatto sotto il governo della tirannide, costringe le istituzioni a non stagnare sul detto, ma a confrontarsi con il dire:

 

Da questo incancellabile rapporto con la prossimità – che lo Stato di giustizia provvede a limitare, ma senza mai dimenticarla – nasce o piuttosto risorge, un intrigo an-archico, che sfugge a ogni archè […]. Intrigo anarchico prima di ogni principio, prima di ogni comandamento, poiché intrigo originario che va a sconvolgere il tempo degli orologi e il tempo della storia. Intrigo anarchico da non confondere con l’anarchismo, che invece si regge su un principio.56

 

Abensour arriva a coniare lo slogan di uno «Stato che odia lo Stato». Con una operazione linguistica dal forte impatto comunicativo, questa locuzione converte e articola il fenomeno inconciliabile dello Stato-violento di Rosenzweig in funzione dinamica e discorsiva. In fondo non fa altro che introdurre nello Stato hobbesiano il principio montesqueiano dalla divisione dei poteri, in cui i rapporti tra organi costituzionali possono essere definiti da un punto di vista fenomenologico come costante controllo reciproco nella reciproca diffidenza; una sorta di odio controllato e mediato all’interno dello Stato57.

Infine, dunque, che tipo concreto di escatologia della pace abbiamo di fronte? Nel confronto con Montesquieu, possiamo giungere a declinarla nelle forme e procedure del giudizio giuridico, e quindi in chiave di organo costituzionale, ovvero come principio ispirante un potere giurisdizionale magari internazionale? Forse sì, ma a patto che si prenda però sul serio il concetto di “prossimità” che consente e obbliga allo stesso tempo a mediare il rapporto tra violenza e istituzioni, tra libertà e comando, tra il tempo della pace e il tempo della guerra.

 

 

5. Conclusione. L’escatologia della pace come iper-crisia della guerra

 

Lo scarica barile delle responsabilità,
uno scaricabarile pressoché automatico nelle società moderne,
trova sempre un punto di arresto sulla soglia del tribunale.

H. Arendt, Alcune questioni di filosofia morale

 

Solo l’escatologia, insiste Lévinas, vincola il singolo alle sue responsabilità fuori dalle giustificazioni e dal tribunale della storia. Da questo punto di vista la contraddizione interna allo Stato si risolve nella funzione del giudizio che, liberato dalle categorie hegeliane della storia universale, può ricondurre il singolo alla sua responsabilità. I modi con cui il filosofo di Kaunas declina la sua escatologia della pace passano attraverso locuzioni come «Stato oltre lo Stato», «intrigo anarchico», secondo le lungimiranti sottolineature politiche e metapolitiche di Abensour. A nostro avviso, la declinazione dell’escatologia della pace prende una piega ancora più concreta quando si allea con il diritto. Questo infatti, come ricorda Hannah Arendt, appare la misura più idonea a ricondurre la responsabilità penale di un atto alla persona che lo ha commesso:

 

È questa l’innegabile grandezza del diritto: esso ci costringe tutti a focalizzare la nostra attenzione sull’individuo, sulla persona, anche nell’epoca della società di massa, un’epoca in cui tutti si considerano più o meno come ingranaggi di una grande macchina […]. Lo scarica barile delle responsabilità, uno scaricabarile pressoché automatico nelle società moderne, trova sempre un punto di arresto sulla soglia del tribunale. Ogni giustificazione di carattere troppo astratto – dallo Zeit-geist al complesso di Edipo, concetti che fanno di noi tutti, non tanto degli uomini, quanto delle rotelle di qualcosa di più grande – ogni giustificazione di questo tipo vien meno. Non importa quali siano le mode scientifiche del tempo, non importa quanto esse abbiano pervaso e persuaso l’opinione pubblica, influenzando anche i professionisti del diritto: l’istituzione giuridica deve sfidare tutto questo, se vuole continua a esistere.58

 

Il rapporto tra escatologia e diritto, però, non è così lineare come può sembrare a prima vista. La violenza implicita nel diritto, come abbiamo visto nella analisi di Rosenzweig, chiede uno sforzo di immaginazione o di invenzione di formule giurisdizionali che non prestino il fianco a soluzioni posticce, come per esempio il tribunale di Norimberga, che non danno alcuna garanzia di equità e di imparzialità, attese le ragioni politiche che lo hanno fatto nascere, l’egemonia etico-politica dei vincitori che lo hanno condotto, e la mancanza di rispetto dell’uguaglianza di tutti gli imputati59. Le esigenze di una pace reale chiedono il rispetto della non-violenza. La soluzione del tribunale internazionale60 si palesa dietro le quinte del teatro della guerra come l’unica istituzione atta a garantire, a inseguire l’istante per fissarlo per sempre nel futuro di una società giusta. Questa istituzione può sciogliere l’ambiguità di tutte le formule della guerra in un tempo di pace, se coglie le “cause mature” nell’istante in cui accadono, ma senza prescindere da tutte le garanzie della prossimità: quindi garantire un processo equo e giusto a partire dal fatto che persegua indistintamente tutti coloro che si sono macchiati dello stesso reato nello stesso conflitto o azione criminosa. È necessario, inoltre, che i giudici siano imparziali e ben informati sul contesto in cui è maturato l’atto criminoso; e infine che la pena miri alla sola riabilitazione del condannato.

 

La giustizia è impossibile senza che colui che la rende si trovi egli stesso nella prossimità. La sua funzione non si limita alla “funzione del giudizio”, alla sussunzione di casi particolari sotto la regola generale. Il giudice non è esterno al conflitto, ma la legge è in seno alla prossimità. La giustizia, la società, lo Stato e le sue istituzioni […] tutto ciò significa che niente si sottrae al controllo della responsabilità dell’uno per l’altro.61

 

Sono condizioni, a dire il vero, che a detta degli esperti non si sono mai ancora verificate in nessun tribunale internazionale62. Rimane tuttavia la speranza che ciò possa accadere prima o poi. Sta di fatto che siamo in un’epoca segnata dalle logiche economiche dei produttori di armi, dalle logiche fragili e spesso ipocrite63 sui diversi tipi di intervento militare (a scopo umanitario, di peacekeeping, regime change per restaurare o instaurare la democrazia). Gli organismi internazionali che dovrebbero essere delle procedure di pace sono fortemente screditati (l’ONU di fatto subisce il veto del Consiglio di sicurezza controllato da soli cinque Stati). Oltretutto è oggettivamente difficile risalire ai luoghi e agli attori delle decisioni politiche, anche perché sono spesso protetti da schermature diplomatiche e tecnologiche. Tutto ciò premesso, resta il dovere di perseguire il responsabile diretto o indiretto di un’azione criminosa, forse uno dei pochi efficaci deterrenti contro gli eccessi e l’efferatezza della guerra anche in tempo di pace. Comunque l’unico che consenta di mantenere desta una coscienza etica, ovvero che abbia il coraggio di guardare il volto dell’altro e sappia rispondere senza ipocrisie al comandamento del non uccidere, in tempo di pace come in tempo di guerra.

 

Non è perciò senza importanza sapere se lo Stato egualitario e giusto in cui si compie l’uomo (e che si tratta di istituire, e, soprattutto, di mantenere) proceda dalla guerra di tutti contro tutti o dalla responsabilità irriducibile dell’uno per tutti, e se possa fare a meno di amicizie e di volti. Non è senza importanza saperlo affinché la guerra non divenga instaurazione di una guerra con buona coscienza.64

 

 

Note con rimando automatico al testo 

1 F. Rosenzweig, La stella della redenzione, Genova, Marietti, 1985, p. 3.

2 «Certo, un Tutto non morrebbe e nel Tutto nulla morirebbe. Soltanto ciò ch’è singolo può morire, e tutto ciò ch’è mortale è solo. Questo, il fatto che la filosofia debba escludere dal mondo il singolo, codesta esclusione/de-costruzione [Ab-schaffung] del qualcosa è anche il motivo che la costringe ad essere idealistica. Infatti l’“idealismo”, con la sua negazione di tutto quanto separa ciò ch’è singolo dal Tutto, è lo strumento artigianale con cui la filosofia rielabora la materia indocile fino a che essa non oppone più resistenza alcuna alla confusione nebulosa entro il concetto di Uno-Tutto». Ivi, p. 4.

3 Lo stesso vento di cambiamento e di progresso che fa indietreggiare l’angelo di Paul Klee commentato da Benjamin nella nona delle sue famose tesi sulla storia. Cfr. W. Benjamin, Sul concetto di storia, Torino, Einaudi, 1997, p. 35.

4 E. Lévinas, Totalità e infinito, Milano, Jaca Book, 1977, p. 22.

5 «L’opposizione all’idea di totalità ci ha colpito nello Stern der Erlösung di Franz Rosenzweig, troppo spesso presente in questo libro per poter essere citato. Ma la presentazione e lo sviluppo delle nozioni utilizzate devono tutto al metodo fenomenologico». Ivi, p. 26.

6 «Che il popolo ebraico si fondi su quel dato di fatto che esso stesso è, e che la comunità cristiana si fondi sull’evento attorno al quale essa si aduna, conduce là ad una sociologia generale, qui a una sociologia delle arti. Una politica messianica, quindi una teoria della guerra, chiude il primo libro del volume». Cfr. F. Rosenzweig, La scrittura. Saggi dal 1914 al 1929, a cura di G. Bonola, Roma, Città Nuova, 1991, p. 277.

7 F. Rosenzweig, Hegel e lo Stato, Bologna, il Mulino, 1976.

8 Cfr. F. Rosenzweig, Globus. Per una teoria storico-universale dello spazio, Genova, Marietti, 2007 e S. Malka, Le dictionnaire Franz Rosenzweig: Une étoile dans le siècle, Paris, Édition du Cerf, 2016.

9 «Il primo uomo che delimitò per sé e per i suoi un pezzo del suolo terrestre per farne una proprietà inaugurò la storia mondiale […] L’intera storia universale altro non è che il continuo spostamento in avanti di quel confine. […] Dal momento in cui è stata creata, la terra è destinata ad essere attraversata in tutte le epoche da confini. L’essere limitabile è nella sua natura, […] l’illimitatezza, che rimane il fine ultimo della terra, è fin dall’inizio il proprio mare. Nel mare la natura mostra all’uomo l’immagine dell’unità che egli deve imprimere con il suo duro lavoro». Cfr. F. Rosenzweig, Globus. Per una teoria storico-universale dello spazio,cit., p. 35.

10 Ne La stella della redenzione Rosenzweig rilegge le dimensioni del tempo (passato presente e futuro) all’interno di una costante relazione tra gli elementi primordiali di Dio, Mondo e Uomo. Se il passato è interpretato come il luogo costitutivo del Mondo da parte di Dio (creazione); e il presente come la dimensione in cui si può cogliere il senso del rapporto tra uomo e Dio (rivelazione); il futuro è l’ambito proprio dell’azione, del progetto che investe reciprocamente Uomo e mondo (redenzione).

11 Cfr. infra, ilparagrafo: «L’“intrigo anarchico”: Emmanuel Lévinas contro Hobbes, letto da Miguel Abensour».

12 E. Lévinas, Préface a S. Moses, Système et révélation, Paris, Verdier, 1982, p. 8.

13 F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., p. 353.

14 «Quando ti avvicinerai a una città per attaccarla, le offrirai prima la pace». Dt, 20, 10-19.

15 F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., p. 351.

16 Ibidem.

17 Ivi, p. 352.

18 «E, più o meno, proprio grazie al cristianesimo queste idee di elezione si sono dischiuse anche nei singoli popoli, e con esse è passata necessariamente anche un’aspirazione all’eternità». Ibidem.

19 Non possiamo qui non evidenziare un singolare parallelo con il frammento su Capitalismo e religione di Benjamin che descrive il capitalismo come una religione basata su un culto senza redenzione, quindi sul senso di colpa che genera il vivere costantemente un giorno di festa senza la fatica dei giorni feriali. «Nel capitalismo si deve vedere una religione, vale a dire che il capitalismo serve essenzialmente all’appagamento proprio di quelle preoccupazioni, tormenti e inquietudini a cui davano un tempo risposta le cosiddette religioni. […] Tre tratti di questa struttura religiosa sono già presenti e riconoscibili. In primo luogo il capitalismo è una pura religione cultuale […]. Secondo tratto del capitalismo: la durata permanente del culto. Qui non c’è nessun “giorno feriale” […]. Questo culto è, in terzo luogo, generatore di colpa». Cfr. W. Benjamin, Sul concetto di storia, a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Torino, Einaudi, 1997, p. 284. Resta da approfondire il fatto che Benjamin pensi questa struttura religiosa incompleta in relazione alla proprietà e al capitalismo, mentre Rosenzweig la riferisce alla guerra. Ma è lo stesso Benjamin della postilla all’Opera darte a evidenziare come guerra e capitalismo e i rapporti di proprietà si attraggano irresistibilmente: «La guerra, soltanto la guerra, permette di fornire uno scopo ai movimenti di massa di grandi proporzioni, previa conservazione dei tradizionali rapporti di proprietà. […] Soltanto la guerra permette di mobilitare tutti i mezzi tecnici attuali, previa conservazione dei diritti di proprietà». Cfr. W. Benjamin, Lopera darte nellepoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, Einaudi, 1966, pp. 46-47.

20 F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., p. 353.

21 «E così la fede fonda l’unione dei singoli in quanto singoli in vista di un’opera comune, e tale unione a buon diritto viene chiamata ekklesia. Infatti questo nome originario della chiesa è desunto dalla vita delle antiche repubbliche e sta ad indicare i cittadini convocati per deliberare insieme». Ivi, p. 366.

22 Ivi, p. 375. Intorno a questo passo, lo storico Paolo Prodi ha avviato uno studio sul rapporto tra Cristianesimo e la nascita dello stato moderno che lo ha accompagnato per tutta la sua ricerca. Come introduzione ai suoi studi rimandiamo il lettore a P. Prodi, Il sovrano pontefice,Bologna, il Mulino, 1982; Id., Il sacramento del potere, Bologna, il Mulino, 1992; Id., Cristianesimo e potere, Bologna, il Mulino, 2014.

23 F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., p.354. Si sente qui l’eco della prima pagina della Stella della redenzione, che preannunciava un cambio di paradigma, “fotografando” un uomo/soldato in rivolta, finalmente consapevole della sua singola mortalità.

24 Del resto, insiste Rosenzweig, non potrebbe viverle perché rischierebbe di diventare infedele ad una risoluzione finale.

25 «Perché ricevano eternità dallo stato, la corrente dev’essere fermata e farsi lago». Ivi,p. 355.

26 Ibidem.

27 Ivi,p. 356.

28 Ibidem.

29 Rosenzweig chiama “ora” del popolo ogni epoca storica in cui la guerra segna i momenti più significativi di un popolo. Torna qui il senso della lotta per confini intravisto nel saggio Globus, che mantenendo la dinamica identitaria ne muta la dimensione spaziale in temporale. Il confine che viene costantemente spostato nelle guerre tra Stati, diviene in queste pagine de La stella epochè, frammento di una linea temporale. Vedi supra, nota 7.

30 F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., p. 364.

31 La guerra diviene espressione di un percorso missionario di conquista del mondo, delineato in Globus come “Ecumene”, Cfr. supra, nota 7.

32 E. Lévinas, Fuori dal soggetto, Genova, Marietti, 1992, p. 58.

33 F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., p. 357.

34 E. Lévinas, Fuori dal soggetto, cit., p. 67.

35 E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., p. 19.

36 Ivi, p. 26.

37 Ivi, p. 20.

38 E. Levinas, Libertà e comando, in E. Levinas, A. Peperzak, Etica come filosofia prima, Milano, Guerini e Associati, 1989, p. 17.

39 E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., p. 20.

40 Ibidem.

41 Ivi, p. 21.

42 Ivi, p. 22.

43 E. Lévinas, Il luogo e l’utopia, in Difficile libertà. Saggi sul giudaismo, Milano, Jaca Book, 2017, pp. 127-128.

44 M. Loewy, Redenzione e utopia, Torino, Einaudi, 1992, pp. 67-71.

45 «Sia pure attraverso l’accentuazione della necessità di difendersi dalla sempre incombente minaccia della tirannide […] qui il linguaggio e il ragionamento di Levinas sono visibilmente influenzati dall’hegelismo». Si veda il commento di Adriaan Peperzak alla nota 11 di Libertà e comando, in E. Levinas, A. Peperzak, Etica come filosofia prima, cit., p. 19.

46 E. Lévinas, Altrimenti che essere, Milano, Jaca Book, 1993, pp. 200 e ss.

47 L’intera opera di Miguel Abensour è intrisa di un pensiero teso a dimostrare la possibilità di una politica alternativa all’antropologia negativa di stampo hobbesiano, sin dai suoi primi studi su Saint-Just, La Boétie, Thomas More, Mars, Pierre Leroux, William Morris etc. Ma la sua attenzione su Lévinas si focalizza principalmente negli ultimi vent’anni della sua carriera, con la postfazione al saggio di E. Lévinas, Alcune riflessioni sulla filosofia dellhitlerismo, Macerata, Quodlibet, 1996, in un saggio dal titolo Unipotesi stravagante inM. Abensour, Per una filosofia critica, Milano, Jaca Book, 2011, e nei successivi libri intervista M. Abensour, Emmanuel Lévinas. Lintrigo dellumano. Tra metapolitica e politica. Dialoghi con Danielle Cohen-Levinas, Roma, Inschibboleth, 2013 e Id., La comunità politica. Desiderio di libertà, desiderio di utopia. Conversazioni con Michel Enaudeau, Milano, Jaca Book, 2017.

48 «Un aspetto sorprendente di Lévinas è che egli riconosce l’esistenza dello Stato». Cfr. M. Abensour, La comunità politica, cit., p. 74.

49 In Altrimenti che essere, la guerra è descritta come «gesto o dramma dell'interessamento dell’essenza», come scambio e commercio: La lotta di tutti contro tutti diviene scambio e commercio».

50 E. Lévinas, Libertà e comando, cit., p. 22.

51 M. Abensour, La comunità politica, cit., p. 74.

52 Anche nello scritto Globus, come abbiamo visto brevemente, il filosofo di Kassel descrive un mondo omerico in cui prevale il conflitto perenne per la terra e i confini, preceduto da un periodo edenico ed uno messianico in cui prevale l’unità e la pace. La pace dunque è una dimensione metafisica che contiene l’ontologia della guerra, la orienta e la determina. Cfr. supra, nota 7.

53 M. Abensour, La comunità politica,cit., p. 75

54 Sul modo in cui Lévinas è critico verso il concetto corrente di utopia rimandiamo il lettore al breve scritto Il luogo e lutopia, in E. Lévinas, Difficile libertà, cit., pp. 127-130.

55 «Nella prossimità si ode un comandamento venuto da un passato immemorabile: che non fu mai presente, che non è cominciato in alcuna libertà. Questo modo del prossimo è volto». Cfr. E. Lévinas, Altrimenti che essere, cit., p. 110.

56 M. Abensour, La comunità politica,cit., p. 76.

57 Echeggiano chiaramente qui alcune pagine delle Nuove letture talmudiche di Lévinas, in cui si affronta il tema dell’«odio del potere e dell’autorità». Cfr. E. Lévinas, Nuove letture talmudiche, Milano, SE, 2004, p. 66. Su queste pagine Abensour articola una interessantissima differenza tra Marx e Lévinas in relazione alla questione di uno Stato oltre lo Stato. Cfr. M. Abensour, La comunità politica,cit., pp. 77-82. Altrettando suggestive sono le riflessioni di Abensour sul concetto di fraternità in Altrimenti che essere, nel momento in cui Lévinas introduce il concetto del terzo, evocando l’espressione repubblicana e rivoluzionaria della “fraternità” prima di uguaglianza e libertà.

58 H. Arendt, Alcune questioni di filosofia morale,Torino, Einaudi, 2006, p. 12.

59 Non serve qui ricordare come anche gli Stati Uniti, tra i paesi vincitori del conflitto, si siano macchiati di genocidio e delitti contro l’umanità nel momento in cui hanno sganciato due bombe atomiche su città giapponesi.

60 In questo differiamo chiaramente dal punto di vista di Massimo Cacciari che reputa la soluzione del tribunale internazionale invece «come causa della scena attuale»: «Questo pensiero, che pretenderebbe di muoversi nel solco della missione stessa del logos europeo più originario, ignora completamente il significato di quel Principio, Polemos […]. Il grande “realismo” di quest’ultimo consisteva nel vedere opporsi degli essenti a partire dal loro stesso individuo costituirsi, e nel concepire l’armonia come la forma stessa del loro contendere». Cfr. M. Cacciari, L. Caracciolo, E. Galli della Loggia, E. Rasy, Senza la Guerra, Bologna, il Mulino, 2015, pp. 116 e ss.

61 E. Lévinas, Altrimenti che essere, cit., p. 199.

62 Sulla delegittimazione e contraddizione pratica e teorica dei tribunali penali internazionali, si rimanda il lettore al filosofo del diritto recentemente scomparso Danilo Zolo, Cosmopolis. La prospettiva del governo mondiale, Milano, Feltrinelli, 1995; Id., Chi dice umanità. Guerra, diritto e ordine globale, Torino, Einaudi, 2000; Id., La giustizia dei vincitori, Roma-Bari, Laterza, 2006; Id., Il nuovo disordine mondiale, Reggio Emilia, Diabasis, 2011.

63 Cfr. F. Mini, Perché siamo così ipocriti con la guerra, Milano, Chiarelettere, 2012.

64 E. Lévinas, Altrimenti che essere, cit., p. 199.