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Azioni Parallele

NUMERO  7 - 2020
Azioni Parallele
 
Rivista on line a periodicità annuale, ha ripreso con altre modalità la precedente ultradecennale esperienza di Kainós.
La direzione di Azioni Parallele dal 2014 al 2020 era composta da
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di A. Bonavoglia
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Mnimi mou se lene Ponto / La mia memoria si chiama Ponto

 

 

 

Maria Tatsos

La ragazza del Mar Nero

 

 

Milano, Paoline Editoriale Libri, 2016

ISBN 978-88-315-4707-9, pp. 224, € 15.00

 

 

 

Mnimi mou se lene Ponto / La mia memoria si chiama Ponto 

Il Novecento, Il secolo del male1, non ha visto all’opera solo Hitler e Stalin. Nelle pieghe della storia, così come negli anfratti della geografia, si sono rintanate altre “opere” meno enfaticamente tràdite, altrettanto nefaste; opportunamente celate dalla menzogna geopolitica, esse tuttavia sono scavate e riportate in luce e diffuse, come i canti dissepolti e dispersi che Ungaretti rinviene nel porto di Alessandria d’Egitto2: Nella loro ostinatezza i fatti sono superiori al potere; essi sono meno transitori delle formazioni di potere, che nascono quando gli uomini si riuniscono per un fine ma scompaiono quando il fine è raggiunto o mancato3.

Nello stesso anno in cui il fante Ungaretti dava alle stampe il suo primo libro di versi a Udine, nel 1916, incominciava nelle regioni dei Mariandini, dei Paflagoni e dei Colchi – fra l’altro, e più notoriamente, cantate da Apollonio Rodio il genocidio dei cristiani ortodossi del Ponto, discendenti dagli antichi coloni greci che iniziarono l’esplorazione del Mar Nero e l’insediamento dei primi centri ionici tra VIII e VII secolo a.C.; in concomitanza con questi fenomeni, si trasforma l’antica immagine del Ponto: da “mare aperto”, come l’intende genericamente Omero, a “mare chiuso” collegato con l’Oceano, ovvero con il Mar Mediterraneo4.

Benché siano ormai documentati indizi di frequentazione delle coste pontiche dalla fine del secondo millennio5, i Greci ortodossi consideravano quelle terre come loro patria, sicché di vero e proprio genocidio si tratta dal momento in cui i Giovani Turchi, reduci dal recente genocidio degli Armeni, decretarono «di farla finita con i greci, come precedentemente è stato con gli armeni» (p. 124), cominciando ad attuare le deliberazioni del congresso di Thessaloniki del 1911: «La Turchia deve diventare uno Stato musulmano, dove la religione e la visione musulmana devono essere dominanti» (p. 99). Intrecciandosi con la prima guerra mondiale, con la guerra tra Grecia e Turchia, nonché con le conseguenze della rivoluzione russa, all’interno dell’ampia trama della dissoluzione dell’impero ottomano, lo sterminio poté essere praticato nella modalità della «carneficina bianca» (p. 125), attraverso deportazioni di massa, campi di lavoro, marce forzate dei romiì, che, da «discendenti dei bizantini e dell’Impero Romano d’Oriente», si videro costretti a trasformarsi in pondii, ovvero in profughi provenienti da quell’area (p. 82, n. 1).

Oscillando tra storiografia, memorialistica e romanzo storico, il libro di Maria Tatsos, giornalista di padre greco e di madre greca della Macedonia, è indubbiamente un documento necessario da un punto di vista generale, data l’assoluta ignoranza dei fatti narrati, per quanto presenti in romanzi greci e turchi, e nello stesso tempo sul piano personale e privato, poiché l’autrice riesce perfettamente a coniugare il microcosmo familiare e i destini individuali con i grandi fatti della storia, i frammenti e le esperienze singolari con la totalità compiuta dell’umanità, in un continuo confronto tra mnēmosýnē e lḗthē alla ricerca dell’alḗtheia raggiungibile solo con il disvelamento, lo smascheramento, che fanno apparire e recano in luce ciò che era prima nascosto nei segreti del cuore e nelle segrete delle verità ufficiali indiscutibili.

La rimozione e la reticenza dei familiari non sono dissimili da quelle del potere: con determinazione e tenacia il viaggio dell’Autrice conquista alfine la voce, riuscendo a far parlare chi per così tanto tempo e per ragioni di natura diversa aveva optato per un silenzio rappacificante. Da Ghiannitsà, nell’attuale Macedonia centrale, parte la sua quȇte, la sua catabasi nell’orrore avìto, sulle orme dell’unica antica superstite, zia Elpìda, grazie alla quale le è finalmente consentito di «ricamare la memoria», come recita il motto del museo edificato nel 2005 a Thessaloniki per custodire pizzi e manufatti delle famiglie pontiche (p. 63), e di raggiungere Eratò, la capostipite, la musa di casa Tàtsos e del villaggio di Kotyora, in turco Ordu, la “ragazza del Mar Nero” che dà il titolo al libro. È lei il tramite della ricostruzione degli eventi, della messa in scena del popolo greco sulle rive meridionali del Mar Nero: dalla serena operosità del villaggio marino alla catastrofe della scomparsa e della migrazione nella terra greca inizialmente inospitale, risarcita poi tardivamente con l’offerta di appezzamenti di terreno sui quali edificare le nuove abitazioni e di lì ricominciare l’esistenza (pp. 195-196). Il trattato di Losanna del 1923 sanzionò definitivamente lo “scambio di popolazioni”, giustificando così tanto il principio, e i metodi criminali, della pulizia etnica quanto l’assunzione del marcatore identitario a fondamento geopolitico.

Quanto vana sia stata, e sia, la celeberrima sententia ciceroniana «historia magistra vitae»6 era nuovamente dimostrato, tant’è che a fronte dell’istituzione nel 1994 della “Giornata della Memoria per il Genocidio dei Greci del Ponto” da parte del Parlamento greco in data 19 maggio (il giorno in cui Mustafà Kemal a Sampsounta prese la decisione di eliminare la presenza greca dall’Anatolia), a fronte della risoluzione adottata nel 2007 dall’International Association of Genocide Scholars (Iags), che riconosce il genocidio dei greci ottomani, la Turchia non ammette ancora oggi le proprie responsabilità: la vulgata dell’occidentalizzazione “laica” del “padre della patria” è contraddetta sin dalla nascita della nuova repubblica (tacendo degli orientamenti attuali in itinere).

L’Autrice non dispera: «Questo libro vuole essere un tributo alla memoria […]. Ma è anche un inno alla speranza» (p. 11). La sua memoria si chiama Ponto (p. 210), «per non lasciare vincere l’odio, mai» (p. 11)7.

 

 

Note con rimando automatico al testo

1 M. Martelli, Il secolo del male. Riflessioni sul Novecento,Roma, Manifestolibri, 2004.

2 G. Ungaretti, Il porto sepolto,1916.

3 H. Arendt, Verità e politica, Torino, Bollati Boringhieri, 1995, p. 70.

4 A. Baccarin, Il “Mare Ospitale”: l’arcaica concezione greca del Ponto Eusino nella stratificazione delle tradizioni antiche,in «Dialogues d’histoire ancienne», vol. 23, n. 1, 1997, pp. 89-118. Cfr. L. Braccesi, Sulle rotte di Ulisse. L’invenzione della geografia omerica, Roma-Bari, Laterza, 2010, pp. 39-46.

5 Ivi, pp. 107-108.

6 Anche se essa è inserita in un contesto più complesso ad esaltazione del ruolo dell’oratore: Historia vero testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae, nuntia vetustatis, qua voce alia nisi oratoris immortalitati commendatur? (De oratore II 9, 36).

7 Non mi pare del tutto fuori luogo sottolineare in questa sede il fatto che la purificazione della memoria debba passare anche attraverso la revisione del linguaggio, non escluso il lessico religioso e propriamente liturgico. Non ho sufficienti informazioni per esprimermi sulla liturgia ortodossa. Nella liturgia romana, ad es., durante la grande veglia pasquale, che costituisce il più complesso repertorio eucologico, si cantano alcuni versetti tratti dall’Esodo (15, 1): Voglio cantare al Signore, / perché ha mirabilmente trionfato: / cavallo e cavaliere / ha gettato nel mare. L’affermazione acritica dell’idea di un Signore potente, violento e battagliero, comprensibile nel contesto storico, è del tutto inopportuna in sede liturgica, specialmente al giorno d’oggi.