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Azioni Parallele

NUMERO  7 - 2020
Azioni Parallele
 
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Il Mediterraneo Filosofo

 

Un ringraziamento particolare a Luciano De Fiore, autore del saggio filosofico Anche il mare sogna. Filosofie dei Flutti, con il quale ho avuto il privilegio di interrogarmi, a largo giro, sulla natura anfibia del mare. E con il quale ho imparato a muovere le prime bracciate nell’oceano del pensiero.

 

Introduzione

Pedrag Matvejievic ci avverte: accedere al mediterraneo è innanzitutto scegliere un punto di partenza. Così come accade per il pensiero. Le acque e la filosofia, accomunate entrambe da una precisa determinazione, la profondità. Quell’unica che permette la metaforizzazione di due esperienze limite per l’uomo: il naufragio e la deriva. Questi devono essere stati anche i pensieri di Albert Camus, quando la Campana il 30 giugno del 1949 si staccava dal porto di Marsiglia per condurlo in una serie di conferenze in America Latina1. Si direbbe la stessa rotta di Cristoforo Colombo e seppure Schmitt privilegia figure più eroiche – il baleniere e il pirata –, per il filosofo e giurista tedesco è proprio il viaggiatore genovese l’archetipo dell’uomo moderno che per primo vive l’esperienza della globalità.

Freud tuttavia è più prudente nei confronti di quel ozeanisches Gefühl, che secondo Rosenzweig costituisce la visione sintetizzante del mondo, di contro a quella omerica differenziante. Per il filosofo austriaco, che ha scritto le prime due parti di GlobusEcumene e Thalatta – su cartoline postali che spediva ai genitori nella terra di una trincea balcanica, «esiste un solo mondo, un solo mare».

E se il mare e l’uno sono in qualche modo in un rapporto di identità, lo è ancor di più quel tipo particolare di mare “chiuso” che è il Mediterraneo. Rimanendo vero che, con Braudel, il Mediterraneo è più plurale che singolare, lo è altrettanto che esso si è sempre fatto carico di sintetizzare queste pluralità, di singolarizzarne le differenze, tanto da essere percepito da Albert Camus sempre come un mare «domestico», metafora di quella “nostalgia di unità” che permea tutta la sua opera.

Difficile individuarne le rotte come anche interpretarne le onde. E Hegel l’aveva capito benissimo quando, nel paragrafo 247 dei Lineamenti della filosofia del diritto, contrappone la terra in quanto principio della vita familiare al mare, l’elemento che spinge l’anima verso l’esterno. E continua scrivendo che il mare «porta terre lontane nella relazione del traffico, di un rapporto giuridico introducente il contratto, nel quale traffico si trova in pari tempo il massimo mezzo di civiltà, e il commercio trova il suo significato storico-mondiale».

Il Mediterraneo allora unisce o divide? Potremmo dire, antropologicamente e per usare un gergo marino, che le sue acque “accostano” le diversità e favoriscono lo scambio. Non è un caso che per Sloterdijk «la questione principale non è che la Terra giri intorno al Sole, bensì che il denaro giri intorno alla terra».

Di certo ha ragione Camus a scrivere che «il Mediterraneo è Altrove», anche da un punto di vista strettamente oceanografico. Verso la fine del Miocene, circa 5-6 milioni di anni fa, l’intero mediterraneo evaporò. Il Mare nostrum allora non era altro che una superficie di due milioni di chilometri quadrati di montuosità, avvallamenti e deserti. Finché lo sbarramento di Gibilterra non cedette e le acque dell’Atlantico vi si riversarono al ritmo di 35.000 km3 per anno.

E se la prima vera carta batimetrica degli oceani viene edita a Parigi nel 1905, a segnare con precisione la profondità del pensiero si rischia il naufragio più efferato. Come è accaduto a Kelvin, lo psicologo mandato su una nave spaziale semi-abbondonata orbitante attorno all’enorme pianeta-oceano Solaris, nell’omonimo romanzo di Stanislaw Lem. La superfice del pianeta è un mare gigantesco che si muove di continuo e nel suo vorticare materializza nella realtà i fantasmi del desiderio. Kelvin ritrova così la sua defunta moglie Hari, morta suicida dopo che lui stesso l’aveva lasciata.

E se il mare fosse anche questo, un enorme catalizzatore di passioni? Se il Mediterraneo di Camus fosse non soltanto quell’idilliaco sogno di unità ma anche, perlomeno, la concausa che ha portato Meursault a quell’assurdità, quando «dal mare è rimontato un soffio denso e bruciante»? Forse allora le acque che bagnavano quella spiaggia custodivano non il pensiero razionale ma, con Nietzsche, il suo es, i sogni del mare.

Il mare dunque ha che fare con la filosofia, ma anche con le passioni e con l’amore, non soltanto per Kelvin ma, di certo, anche per Albert Camus che, in L’esilio di Elena, stacca quelle poche righe che hanno tutta l’aria di essere una confessione, dedicate alle acque del mediterraneo: «Il mare passa e rimane. Così bisognerebbe amare, fedeli e fuggenti. Io sposo il mare».

 

1. La questione dell’origine

Per quello che potremmo chiamare provvisoriamente uno strano scherzo del destino, tutto quello che ha a che fare con l’origine del Mediterraneo esibisce lo stesso scheletro, la stessa struttura logico-ontologica, per dirla in termini più strettamente filosofici, della sua metafora: l’Europa come concetto. Perché il Mediterraneo non è il Mediterraneo esattamente come l’Europa non è l’Europa. Lo stesso DNA per la lettera e l’allegoria.

Nel suo bellissimo testo Europe, or the infinite Task, il fenomenologo Rodolphe Gasché rintraccia due possibili etimologie del nome Europa. Secondo la prima pista, si dovrebbe risalire all’origine semitica della radice ereb, che rimanda alla sera o all’oscurità. Un sostantivo preso a prestito dai fenici: chiamandosi con il nome di un altro, l’Europa guarderebbe e coglierebbe se stessa riflessivamente. Secondo l’altra pista, si risalirebbe al lessico omerico, che fa dell’Europa un aggettivo di Zeus: Zeus europé, vale a dire dallo sguardo ampio.

Il mito poi vuole che Europa sia una fanciulla bellissima, figlia di Agenore e Telefassa, sorella di Cadmo, rapita da Zeus nei panni di un toro bianco. È già Erodoto a sottolineare come Europa fosse questa fanciulla non europea ma asiatica, che non ha mai visitato il paese che noi ora chiamiamo Europa, e che fu portata dalla Fenicia a Creta e da Creta in Licia.

In entrambi i casi, c’è qualcuno che ruba qualcosa. Un popolo una parola, un dio una ragazza.

Jaspers, nel tentativo di definire l’Europa, propone una lista senza fine: una figura secondo Paul Valéry, una categoria secondo Alain Badiou, uno schema secondo Denis Guénoun, una piccola cosa secondo Derrida. Ma se anche riuscissimo a chiudere la lista sorgerebbe un altro problema: cos’è che unificherebbe l’elenco? O in altri termini, quale minimo comun denominatore definirebbe il carattere dell’Europa?

Dall’analisi filologica si è dimostrato che Europa non è un nome proprio in senso stretto. In breve, e questa è la tesi di Gasché, l’Europa è un compito, il compito di pensare e raggiungere l’universalità.

Dovrebbe essere chiaro. Quel che vale per l’Europa vale per il Mediterraneo. Il concetto di universalità ha molto a che fare con il mare nostrum (si veda il cap. 2: L’essenza). ma ancora prima vi ha che fare la stessa logica che ne definisce l’identità: esattamente come l’Europa nasce altrove, filosoficamente parlando allora, e in piena Logica hegeliana, il suo io si struttura nell’atto di negare il suo non-io, così le acque del Mediterraneo non sono quelle comprese dalle colonne d’Ercole ma vengono da fuori. Stando a quanto riporta Hsü, verso la fine del Miocene, l’intero Mediterraneo evaporò a causa di un evento sismico provocato dallo scontro tra la placca euroasiatica e la placca africana. Finché, per un altro evento sismico, lo sbarramento di Gibilterra non cedette e le acque dell’Atlantico vi si riversarono al ritmo di 35.000 km3 per anno. Ad oggi il 70% delle specie viventi nel Mediterraneo è presente anche nell’Atlantico.

La prima prova di brevi traversate marine risale al Paleolitico superiore, cioè verso l’11.000 a.C., quando le prime popolazioni misero piede nell’isola di Melo, alla ricerca del vetro vulcanico di ossidiana, utilizzato per fabbricare utensili litici dal taglio più affilato di quelli in selce2. Ma furono i Greci3 a porsi per primi il problema della natura “originaria” delle acque.

Del mare non conoscevano l’ampiezza, che oggi sappiamo essere 2 milioni e mezzo di km2, l’estensione da ovest a est, di 4.000 km con un perimetro costiero di 22.000 km, e soprattutto ne ignoravano la profondità, che raggiunge i 5.270 m. Eppure nel nostro immaginario i greci sono gente di mare. Ma quale era la sfera dei sentimenti, una volta preso il largo? Che rapporto avevano i greci con il mare? In effetti, al contrario della vulgata che vuole il Mediterraneo come quel mare calmo e costantemente benedetto dal sole, se si prova a seguire il perimetro della costa provenzale, lì dalla stessa Marsiglia dove si imbarcò Albert Camus sino a Sète, nei mesi invernali si può sentire un forte rombo come il ruggito di un leone, prodotto dalla forza del maestrale.

Ma che nomi utilizzavano i greci, per il mare? ἅλς se al maschile indica il sale, al femminile il mare. Per traslato dunque ἅλς indica il mare con riferimento alla sua materialità4; πέλαγος è il mare in quanto distesa da attraversare, il mare-viaggio; Πόντος è l’immensità; Θάλασσα indica il mare nel suo carattere più generale; λατμα è la profondità marina. Eppure per “Mediterraneo” manca una parola univoca. Tucidide trova un escamotage e vi si riferisce come all’Ellenikès Thalasses5. Omero è convinto che Oceano fosse stato «l’origine degli dei»6. Un grado di essenza che sta al di qua di tutto il pantheon greco, notoriamente metafora del Senso per i greci. Karl Kereny dedica il capitolo d’apertura del suo imponente Gli dei e gli Eroi della Grecia ad Oceano, le cui acque sono simbolo di fecondazione e pura potenza generatrice. Tutto è scaturito dalle sue acque: fiumi, torrenti, sorgenti, il mare stesso. E quando tutto aveva avuto origine non gli rimase che continuare a scorrere ai margini della terra, confluendo in se stesso, seguendo un moto vorticoso ininterrotto7. Tutto sorge dalle acque e le acque non trovano altra meta che in loro stesse.

Allora il mare è uno o è tante cose? È plurale, come lo vuole Braudel8, o è singolare? Dà conto dell’identità o della differenza? Molti pensatori si sono posti il problema di capirne le onde, chi assaggiandone la sapidità chi da una postazione di riparo, dalla riva. Una cosa è però certa, ed è da questa che occorre partire; per la sapienza greca chiedersi del Mediterraneo equivale a porsi la domanda sull’archè. E se la sapienza arcaica greca, così come quella orfica9, che ancora parlava la lingua del mito, affidava al mare un ruolo primario, il pensiero razionale invece lo ha individuato come un nemico. È noto che la καλλίπολις platonica era da fondarsi lontano dalle acque, a circa nove chilometri dalla riva. E proprio Platone si è imputato di talassofobia. Di certo il grande filosofo considerava il mare un pericolo, anche dal punto di vista morale. Oltre al rischio di naufragio, per il filosofo ateniese il mare è fonte di corruzione culturale: per mare, ne era convinto, si va soltanto mossi dal guadagno10. Nel Fedone scrive chiaramente che:

Nulla nasce nel mare di cui valga la pena parlare, nulla che sia per così dire, perfetto, ma dirupi e sabbie e distese di fango e pantani ovunque, anche dove c’è terra11.

Di certo ai tempi mettersi in mare voleva dire incorrere con un’alta probabilità in svariati pericoli. Quanto meno si cercava di navigare sotto costa. La navigazione era una τέχνη complessa. Ma qui Platone dice qualcosa di più. Alle acque è connessa l’impurità. All’interno del suo contesto logico-ontologico il più alto grado di perfezione è il mondo noetico. Tutto ciò che si trova nel mondo fenomenico, compreso quel che si trova sulla terra, rimane difettivo. Ma le piante e le creature che abitano il mare scontano una imperfezione maggiore. Tanto da affidare, nel Timeo, il grado più basso nella scala dell’essere ai crostacei12.

Eppure nel lessico platonico le stesse metafore sono utilizzate per esprimere le difficoltà e le insidie sia della navigazione sia della politica. Il politico è detto un κυβερνήτης, un timoniere. E la nave stessa diviene metafora della polis13. Ed ecco che la metafora, ancora una volta, viene in soccorso della realtà. Perché per prosperare le polis si dovettero munire di una affidabile flotta navale.

Quando nel 486 Serse diede una netta virata alla politica persiana, da una accondiscendenza verso i rivoltosi ad una vera e propria repressione dei nemici, i greci interrogarono la Pizia su che cosa avrebbero dovuto fare, combattere o «medizzare», cioè sottomettersi ai medi e ai persiani per aver salva la vita. Interrogato, l’oracolo di Delfi si narra che fece un vago accenno a una certa «muraglia di legno».

Il mare, la filosofia. In Geofilosofia dell’Europa, Cacciari afferma che

da un lato è proprio la filosofia a mettere in luce quel “tremendo”, quel “periculosum maxime” del mare, che sta al cuore della historia di Tucidide, ma che già colpiva in Erodoto. Dall’altro, la filosofia non può condividere quella “demonizzazione” della potenza del mare e sul mare che s’incontrerà in Isocrate […]. La filosofia non può non condividere la hybris della talassocrazia, ma non può non condividerne la forza sdradicante. La filosofia deve salpare da ogni dòxa, da ogni Nomos acquisito solo per forza di tradizione14.

Ma allora, ci si chiedeva all’inizio, il Mediterraneo è uno o è molti? Per dare dei nomi e fare schematismi, è vincente il modello Braudel, per il quale il mediterraneo è tutto plurale oppure il modello Rosenzweig, per il quale esiste «un solo mondo, un solo mare»? Direi delle due la terza. Il Mediterraneo, così come il pensiero filosofico, non è né singolare né plurale. Ma quella «unità organica»15 che nasce con il compito, “infinito” secondo Gasché, di universalizzare la propria singolarità.

 

2. La questione dell’essenza

Se l’origine del Mediterraneo è greca, la sua essenza è romana. Nella traduzione di una cultura nell’altra, Roma eredita da Atene la tensione all’universale ricodificandola nello Stato. Dal bene platonico all’imperium, sulle acque del Mediterraneo. Ed è l’aggettivo possessivo, nostrum, che ne delimita i confini e al contempo li cancella, concretizzando la massima che vuole il più alto grado di universalità proprio nel più alto grado di geolocalità: soltanto quel che è pienamente locale può essere globale16.

Alla vigilia della terza guerra punica i confini di Roma si estendevano dalla Spagna a Rodi. Notoriamente l’impero si fondava non soltanto su un dominio politico ma anche su uno commerciale. I mercanti di Roma erano stati abili a stringere forti legami con quelli di ogni angolo del Mediterraneo. Il commercio era per lo più granario e dal 160 a.C. al II secondo d.C. Roma conobbe un vero e proprio boom del traffico marittimo. Le navi romane erano in grado di trasportare più di 250 tonnellate di carico arrivando a imbarcare più di 6.000 anfore17. Oltre al grano la merce più trasportata era il vino, l’olio e il formaggio. La carne sotto sale era riservata per l’esercito. Se il vento era favorevole, per compiere il tragitto da Alessandria a Roma, circa 1.500 chilometri, occorrevano una decina di giorni, mentre se il tempo era avverso il viaggio poteva durare sei volte tanto. Inoltre era più che sconsigliato navigare dalla metà di novembre all’inizio di marzo18. Lo stesso Paolo dice di «aver fatto naufragio tre volte e di aver trascorso un giorno e una notte sull’abisso». Imprigionato dai Romani, Paolo fu costretto ad imbarcarsi su una nave di duecentosettantasei persone, carica di grano, che doveva salpare per l’Italia da Mira, nell’Anatolia meridionale. Negli Atti degli apostoli sta scritto che:

Per lunghi giorni navigammo lentamente, faticando a giungere di fronte a Cnido. Poi, siccome il vento non ci permetteva di approdare, navigammo sotto Creta di fronte a Salomone e costeggiandola a fatica, arrivammo a una località chiamata Buoni Porti, presso la quale c’era la città di Lasèa. […] Levatosi un leggero scirocco, ritennero di poter attuare il progetto e, levata l’ancora, si misero a costeggiare Creta da vicino. Ma dopo non molto si scatenò sull’isola un vento d’uragano, detto Euroaquilone. La nave fu travolta, incapace di resistere al vento: abbandonati in sua balìa, andavamo alla deriva. Mentre filavamo sotto un’isoletta chiamata Càudas, a stento riuscimmo a restare padroni della scialuppa. Avendola issata usavano i mezzi di soccorso per cingere di gomene la nave. Per timore poi di finire incagliati nella Sirte, calarono l’attrezzo, lasciandosi così portare alla deriva. Sbattuti violentemente dalla tempesta, il giorno seguente gettarono il carico e il terzo buttaron dalla nave. Per più giorni non si videro né sole né stelle: la tempesta si manteneva violenta ed ogni speranza di salvarci era ormai perduta19.

L’equipaggio fu poi bloccato a Malta, dove Paolo riuscì a convertire gli isolani. Quando il tempo lo consentì l’apostolo fu imbarcato su un’altra nave salpata da Alessandria e riuscì a raggiungere Roma, dove morì decapitato.

Dopo la conquista del potere di Ottaviano, Roma controllava l’intero spazio del Mediterraneo e da allora quel bacino diviene Mare Nostrum. Roma ne sancì la piena libertà di utilizzo, seppure il mare rientrasse nel novero delle res communes omnium, un bene che può essere utilizzato da chiunque. E beni erano anche, naturalmente, le risorse connesse alle acque (si veda il cap. 3: La riflessione).

Di un uomo ignorante i romani dicevano, non sa né leggere né nuotare20. Cionondimeno ai romani il mare non smette di far paura. C’è un episodio che racconta di un altro noto viaggio per mare, l’esilio di Ovidio verso le terre dei Traci. Ne leggiamo un passo dai Tristia:

Misero me, in che enormi montagne d’acqua si rigonfia il mare, si direbbe che da un momento all’altro raggiungano le stelle nell’alto del cielo. Che profondi avvallamenti si aprono tra le onde! […]

Non c’è dubbio, sono perduto, non c’è speranza di salvezza; mentre parlo, un’ondata mi copre il viso. Sarò sopraffatto dal mare in tempesta, e morirò con l’acqua che mi riempirà la bocca mentre grido inutili preghiere21. 

In questa fortunata presa diretta girata da Ovidio, si parla di un mare in tempesta e persino correlativo oggettivo dello sconforto per la condanna di Augusto.

Pur restando fermo l’ammonimento di Camus secondo il quale sarebbe un errore mettere Roma al posto di Atene22, il Mare Nostrum si è innervato a tal punto nella cultura latina da costituirne su più livelli l’essenza, configurandosi senza dubbio come il mare πόντος, che unisce e connette insieme, principio sintetizzante per usare un gergo alla Rosenzweig. Cionondimeno, forse nella fictio più che nella realtà, permane il terrore originario per l’arcaico mare indistinto del πέλαγος.

Capitolo a parte costituisce il concetto di Mediterraneo nella cultura neo e veterotestamentaria, che vi assegna, ad intensità diverse, segno rovesciato rispetto alla tradizione classica. Sottolinea Ravasi23 che in tutto il nuovo testamento non compare mai la voce Θάλασσα ma sempre ὕδωρ, acqua. Tutto comincia con la creazione quando «Dio disse: “le acque che sono sotto il cielo si raccolgano in un solo luogo e appaia l’asciutto”. E così avvenne. Dio chiamò l’asciutto terra e la massa delle acque mare»24. Il mondo è una lotta in tensione tra la terraferma e il mare, il grande abisso sotterraneo che sale in superficie, il tehom che discende dalla mesopotamica divinità negativa Tiamat. Il mare-arma è ovviamente quello dell’Esodo: «al soffio della tua ira si accumularono le acque, si alzarono le onde come un argine, si rappresero gli abissi in fondo al mare. Soffiasti col tuo alito: il mare li coprì, sprofondarono come piombo in acque profonde»25.

Allora per l’antico ebreo restare sul bagnasciuga è vivere un’esperienza limite. E ancora è Geremia a sostenere che «Il signore degli eserciti solleva il mare e ne fa mugghiare le onde»26 e nella scena evangelica della tempesta sedata Cristo «sgridò il vento e disse al mare: taci, calmati! Furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: chi è costui al quale anche il vento e il mare obbediscono?»27.

Complice anche la configurazione rettilinea della costa palestinese, di certo Israele fu un popolo di santi e pastori, ma non di navigatori. Sono due i più famosi, entrambi finiti male: Paolo, di cui abbiamo detto sopra, e Giona. 

Giona aveva ricevuto dal Dio l’ordine di andare a predicare a Ninive, la città nemica di Israele per eccellenza. Giona però rifugge l’investitura offerta dal Signore e si imbarca a Giaffa, porto di Gerusalemme, su una nave fenicia per andare dal lato opposto del mondo, a Tarshish – mai localizzata con chiarezza, forse Gibilterra forse la Sardegna. Secondo Deleuze, Giona è l’esempio del profeta perfetto proprio perché tradisce. Solo andando a ovest e non ad est, seguendo le rotte opposte a quelle indicate dal signore, Giona si può far davvero carico della natura del male, per meglio redimersi uscito dalla pancia dell’enorme mostro acquatico, il dag gadòl, che lo risputerà sulla retta via, favorendogli la terra ferma e la riva di Ninive.

Per quanto il Cristianesimo ricorra ad immagini di ammaestramento del mare, mitigandone la simbologia tutta votata al caos, al nulla e al negativo della religione ebraica, il mare resta il πέλαγος da “esorcizzare”, operazione nella quale peraltro riesce solo Gesù Cristo, seppure in più riprese28. E sarà di Giovanni la descrizione di una terra da venire dove non ci sarà più mare: ē thalassa ouk estin eti.


 

3. La riflessione

Nella prefazione al suo imponente Nomos della terra, Schmitt confessa che il contenuto di tutta l’opera potrebbe sintetizzarsi nei versi goethiani del luglio 1882: Das Kleinliche ist alles weggeronnen, nur Meer und Erde haben hier Gewicht29. Soltanto la terra e il mare contano. Si tratta di declinarli secondo la loro Ordnung e Ortung, ordinamento e localizzazione. Certo la massima goethiana contiene il pericolo di accentrarne troppo il significato in un senso geografico-naturalistico e seppure Schmitt riconosca un debito ai grandi geografi, su tutti Mackinder, il nucleo del suo testo è inamovibilmente giuridico. Come le migliori tesi, la tesi da cui parte Schmitt è di una spaventosa semplicità: la terrà è la madre del diritto, non il mare. Essa possiede una propria misura interna dettata dal rapporto tra lavoro, fatica, semina, crescita e raccolto; possiede linee nette che dimostrano evidenti suddivisioni; porta su di sé le recinzione costruite dall’uomo che delimitano famiglia, stirpe, ceppo e ceto30.

Se per Schmitt allora la terra stessa contiene dentro il suo grembo la misura del diritto, la giurisdizione sul mare, invece, è cosa ben più complessa. Il mare non possiede una localizzazione. Dire che il mare non possiede localizzazione significa nel lessico schmittiano non concedervi alcun Nomos, il cui significato base è l’atto di occupazione di terra31. Il mare propriamente non ha carattere, nel senso greco del termine χαράσσω, scavare, incidere, imprimere. Il mare è più propriamente il luogo del pirata. E per questo motivo sia Virgilio sia la tradizione neo/veterotestamentaria immaginano un paradiso senza mare. Del resto anche secondo Sloterdijk la filosofia nascerebbe sulla terraferma e la conoscenza sul mare. Sulla prima allora la riflessione mentre sul secondo, e qui Sloterdijk pensa ai grandi viaggi, l’azione.

Al fondo, il mare sembra al di qua della normatività. Qualcosa di sfuggente e restio persino ad una definizione. Forse soltanto la saggezza del “sentito dire” e non quella dell’analisi, in parte ricollegandosi alla sapienza mitica di cui si è detto nel cap. 1, riesce a renderne conto della sua particolare identità. Un detto inglese recita The sea must be kept, letteralmente il mare deve essere preso, e uno tedesco invece afferma Wasser hat keine Balken, l’acqua non ha travi. E prima che si costruisca un vero e proprio diritto del mare, prima che si riesca a controllarne davvero le onde, bisognerà aspettare a lungo. E ha ragione Schmitt a sostenere che «ogni giudizio ontonomo, ontologicamenre giusto, ogni criterio di misura, procede dal suolo»32. Dunque al mare è connessa una sorta di sordità alle restrizioni, e non solo di quelle normative, ma anche di quelle pudico-morali.

Dopo una crociera mediterranea compiuta negli anni ’20 Coco Chanel decise che la tintarella dovesse essere un elemento aggiuntivo, non prescindibile, per chiunque volesse dimostrare gusto in fatto di moda. Bisognerà aspetterare però circa vent’anni, il 1946, e l’invenzione di un capo d’abbigliamento in elastam e lycra perché il moralismo venisse inesorabilmente abbattuto: il bikini. Anche se i primi esemplari preferivano ancora coprire l’ombelico – il primo ombelico scoperto vietato dal Vaticano risale al 1948 – l’aderenza e l’elasticità di tale tessuto rivelavano il corpo femminile ben più di quanto i moralisti fossero disposti a concedere. Ed ecco affollare le spiagge del dopoguerra figure mitiche scomparse da tempo: le sirene, la cui trattazione meriterebbe un capitolo a parte33.

Anche Rosenzweig è d’accordo: la terra ha i propri confini, tutto intorno il mare batte le sue coste. Tuttavia per il filosofo austriaco l’immagine geografica del mondo e quella politica non sono una cosa sola. Ci sarebbero due visioni del mondo, una che ha al centro la terra, la visione biblica, e una che ha al centro il mare, la visione omerica. La prima avrebbe un’attitudine sintetizzante, la seconda differenziante. La nuova Europa dovrà occuparsi di sintetizzarne le differenze. Di ricondurre le due divergenti vocazioni ad una. Rosenzweig sembrerebbe affidare all’Europa quel sogno d’unità che Camus affidava al Mediterraneo, in un cortocircuito logico tra lettera e allegoria, cosa e metafora della cosa, in cui si intreccia anche un terzo elemento: la filosofia. Non è forse, da sempre, il compito del pensiero quello di ricondurre la molteplicità a schema?

Oggi sono oltre 230 milioni i visitatori che percorrono le rotte del Mediterraneo. Sono molti i fattori che concorrono ai flussi di questi numeri, tra cui anche il desiderio di pensionati tedeschi di trascorrere il loro tempo libero in una casa di Mallorca o Malta o a Cipro.

Alla fine degli anni Novanta poi si è radicalizzato il fenomeno delle city breaks, le vacanze lampo. Dubrovnik è talmente battuta dalle navi da crociera che, in alta stagione, la polizia stradale deve gestire l’afflusso dei gruppi che sbarcano a visitare la città vecchia34.

Ma quali sono le passioni che spingono a salpare questi nuovi naviganti del mare? In Una cosa divertente che non farò mai più David Foster Wallace incentra l’attenzione sul verbo viziare:

Tutte le forme del verbo viziare infestano la brochure delle megacompagnie: “come non vi hanno mai viziato prima”, “A viziarvi nelle nostre jacuzzi e saune”, “lasciatevi viziare”, “Fatevi viziare dai caldi zeffiri delle Bahamas”. 

Di certo qui si marca tutta la differenza tra il turista e il viaggiatore. Mentre l’uno parte comprando due biglietti, uno per l’andata e uno per il ritorno, l’altro non sa quando o se un giorno potrà tornare a casa. Ma non è tanto questo. Se gli eroi di un tempo erano guidati dal thumos, da quella sfera di sentimenti contro, a guidare i nuovi ceti abbienti sulle navi è l’eros. Sul mare non c’è più spazio per la timotica, per l’avventura, ma soltanto per l’erotica, il riempimento della mancanza.

Una recente pubblicità di una nota compagnia di crociere condensa il passaggio in meno di un minuto. Protagonista dello spot è Shakira in minigonna e magliettina a righe che cammina per un’Amalfi dorata nell’ora del tramonto. In sottofondo, il motivo di Amarcord di Fellini. La sequenza è girata in montaggio alternato: Shakira/un bambino che le corre incontro (che fa anche da voce narrante dello spot)/un uomo che guida una Duetto dell’Alfa, capelli ricci neri e un velo di barba. Riportiamo qui il testo della pubblicità:

Shakira, Shakira, sta arrivando! Vedrai ti farà passare una vacanza fantastica, spettacoli incredibili, ristoranti sul mare, si prenderà cura di te in ogni momento, ti farà svegliare ogni giorno in un paradiso diverso e ogni notte ti cullerà sotto un mare di stelle. Con Costa ti sentirai una regina. 

Passeggiando per le viette di Amalfi, Praiano e Atrani, la cantante risveglia i desideri di (in ordine di apparizione): due preti che ne incrociano la traiettoria, uno sposo ancora davanti la chiesa, l’intera folla una volta arrivata nella piazza sul mare. Quando finalmente lei e lui si trovano vis-à-vis, lei tira dritto per fermarsi davanti all’acqua e guardare, ripresa di spalle, una imponente nave da crociera.

Ovviamente il “colpo di scena” svela che il montaggio alternato tra lui e lei era soltanto un trucco cinematografico, che la voce narrante (sta arrivando, ti farà passare una vacanza fantastica, si prenderà cura di te in ogni momento e via discorrendo) non parlava dell’uomo quanto della nave. Taglio. Gli ultimi tre secondi la cantante si trova a bordo, alle spalle la Costiera e l’isola di Capri: «Benvenuti alla felicità al quadrato»35. 

A risvegliare dunque una delle due pulsioni fondanti per Freud, quella sessuale, non è più l’uomo ma la cosa, la nave. La felicità, oggetto di riflessione di tutta la filosofia antica, dalla aristotelica alla epicurea, è a portata di biglietto, e raddoppiata. Solo a portata di biglietto. Perché se te la perderai, se non salirai a bordo della crociera, sarai infelice.

Di certo però il Mediterraneo è divenuto anche espressione dell’altra pulsione fondante per Freud, quella di morte. Una morte tuttavia mai cercata e voluta da chi è costretto ad affrontarne le correnti. Soltanto nel 2016 sono stati più di 4.200 i morti. Circa 3.400 nel 2015. E 3.200 nel 2014 per un totale, in soli tre anni, di 10.800 cadaveri sul fondo del mare.

Per quanto, in termini lacaniani, l’immaginario tenti di rimuovere questi numeri, per quanto tenti di coprire e occultare le acque del reale, il rimosso continuerà a riproporsi, come la salina risacca del mare.

 

Conclusione

Se, con il Nietzsche dello Zarathustra, anche il mare sogna36, allora potremmo provare ad interpretarne le onde. Ma che cosa sogna il mare? Il nostro es, risponderebbe Stanislaw Lem. Per lo scrittore di Solaris, che per un’anomala e rivelatrice sincronicità condivide il cognome con il modulo lunare «Lunar Excursion Module», il mare che Kelvin è mandato a studiare materializza i fantasmi del desiderio. Kelvin e gli altri tre scienziati della stazione spaziale orbitante intorno all’enorme pianeta-oceano cominciano ben presto a notare strane presenze, persone: una donna nera apparsa vicino al corpo di uno dei tre scienziati, un bambino gigantesco, la moglie suicida di Kelvin. E sarà Harey stessa, o meglio il suo doppio fantasmatico, a confessare:

Sono Harey… però… so che non è vero. Non sono la stessa che un tempo hai amata laggiù. […] Ognuno di voi ne ha uno come me. Proveniamo dalle vostre fantasie o dai vostri desideri rimossi… o almeno così credo. Ma che te lo dico a fare, lo saprai meglio di me37.

Pur sapendo, Kelvin ne ha tuttavia bisogno. Pur se ficta, la moglie prodotta dal mare riaccende in lui la morsa del desiderio. Di certo ha ragione Lem a scrivere che «l’uomo era andato incontro ad altri mondi e ad altre civiltà senza conoscere fino in fondo i propri anfratti»38. Allora quella particolare lastra dello specchio del mare costringe alla riflessione, all’azione dei naviganti, all’incontro con l’altro e con se stesso. Le acque hanno poi a che fare con il liquido amniotico e con la vita, ma non hanno meno a che fare con la morte. E non soltanto per i pericoli connessi alla navigazione.

C’è un noto affresco funerario ritrovato nel 1968 a Paestum che raffigura un uomo appena lanciatosi da un trampolino. Le braccia tese, il corpo ben bilanciato: un tuffo perfetto. 

 

A prima vista sembrerebbe un’immagine serena dipinta appositamente su una normale tomba a cassa: esorcizzare la realtà attraverso il simbolo, la spensieratezza del tuffatore e di una giornata in cui si trova il tempo per fare un bagno contro lo scheletro che custodisce. Eppure le cose non stanno così. Trovare un uomo che si tuffa su una tomba è raro e questo ne rende l’unicità in termini archeologici, oltre al fatto che si tratta di una tomba tutta affrescata, anche internamente. Ma non è altrettanto raro trovare su tombe etrusche elementi del mondo marino. Le acque allora sono in qualche specifico modo connesse con il regno dei morti: ne sono la porta. Tuffandosi nel mare, il nuotatore sta passando attraverso quella zona di confine che Heidegger considera il limite per eccellenza dell’essere umano, al punto da strutturarne l’identità. Perché, per dirla con Derrida, qualcuno può morire al mio posto, ma nessuno può togliermi la mia morte39.

Riproporre oggi la questione del Mediterraneo non è soltanto un interesse culturale. Riproporre oggi la questione del Mediterraneo, sempre meno πόντος e più πέλαγος, significa lasciare che il suo es, il suo occultato reale della morte, diventi realtà. Riproporre oggi la questione del Mediterraneo è mettere lo specchio davanti allo specchio.

 

 

Note con rimando automatico al testo

1 F. Pace, Senza volo. Storie e luoghi per viaggiare con lentezza, Torino, Einaudi, 2008.

2 D. Abulafia, Il grande mare, Milano, Mondadori, 2016, p. 19.

3 Notoriamente i “greci” percepivano se stessi non come popolo, ma come agglomerati distinti: ioni, dori, eoli, arcadi. Almeno fino alla minaccia persiana e successivamente agli scontri con le flotte etrusche e cartaginesi.

4 Nell’undicesimo Libro dell’Odissea l’indovino Tiresia predice a Odisseo una morte ex alos. Inoltre è di Omero la frase e alos e epi ges, letteralmente per terra e per mare, Od. 2.261.

5 Guerre del Peloponneso, I, 4.

6 Omero, Iliade, XIV, 201.

7 K. Kereny, Gli dei e gli Eroi della Grecia, Milano, Il Saggiatore, 1980, p. 27.

8 F. Braduel, Il Mediterraneo, Milano, Bompiani, 2002.

9 Or. 15 afferma. «il primo fu Oceano, dal bel corso, che incominciò l’accoppiamento: egli prese in sposa la sorella Teti, nata dalla stessa madre».

10 Platone, Gorgia.

11 Platone, Fedone 110a.

12 Platone, Timeo 92a-b.

13 Per una ricostruzione delle metafore marine nella letteratura platonica, cfr. V. Santini, Il filosofo e il mare. Immagini marine e nautiche nella Repubblica di Platone, Milano-Udine, Mimesis, 2011.

14 M. Cacciari, Geofilosofia dell’Europa, Milano, Adelphi, 2003, pp. 54-55.

15 La bella definizione di mare come «unità organica» è di L. De Fiore in Anche il mare sogna. Filosofie dei flutti, Roma, Editori Riuniti, 2013, p. 21.

16 Paolo, 2 Cor. 11, 25.

17 L’anfora era una unità di misura dell’antica Grecia che ebbe fortuna anche in seguito.

18 D. Abulafia, Il grande mare, cit., p. 167.

19 At. 27 e 28.

20 L. De Fiore, Anche il mare sogna. Filosofie dei flutti, Roma, Editori Riuniti, 2013, p. 77.

21 P. Ovidio N., Tristezze, Milano, Rizzoli, 1993, p. 247.

22 A. Camus, La culture indigene. La nouvelle Culture méditerranéenne, in Œuvres complétes, vol. I, Paris, Gallimard, 2006, p. 1321.

24 Genesi, 1, 9-10.

25 Esodo 15, 8-10.

26 Geremia 31, 35.

27 Marco 4, 39-41

28 Su tutti il già citato episodio della tempesta sedata, l’episodio della pesca miracolosa, la camminata sull’acqua.

29 «Ciò che è piccino è scorso via tutto quanto, / hanno qui peso ormai mare e terra soltanto». In Goethes Werke, vol. XVI, 1894, p. 328.

30 C. Schmitt, Il Nomos della terra, Milano, Adelphi, 1991, p. 19.

31 In ivi, pp. 54-71, Schmitt ripercorre la storia dello slittamento del significato di Nomos dall’originaria occupazione della terra, passando per lo schedon platonico alla contrapposizione politeia singolare contro nomoi plurale di Aristotele, arrivando allo scivolamento del termine nel campo semantico della normatività con Senofonte, per il quale Nomos è ogni disposizione scritta emanata da un potere competente.

32 C. Schmitt, Il Nomos della terra, Milano, Adelphi, 1991, p. 23.

33 Per quanto riguarda il mondo delle Sirene, si veda il bellissimo saggio di Maurizio Bettini, Il mito delle sirene: immagini e racconti dalla Grecia a oggi, Torino, Einaudi, 2007.

34 D. Abulafia, Il grande mare, cit., p. 502.

35 https://www.youtube.com/watch?v=MfRNQGYbPQ8.

36 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Milano, Adelphi, 2006, p. 179.

37 S. Lem, Solaris, Palermo, Sellerio, 2013, pp. 211-212.

38 Ivi, p. 232.

39 Derrida, Donare la morte, Jaca Book, Milano 2002.