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Azioni Parallele

NUMERO  7 - 2020
Azioni Parallele
 
Rivista on line a periodicità annuale, ha ripreso con altre modalità la precedente ultradecennale esperienza di Kainós.
La direzione di Azioni Parallele dal 2014 al 2020 era composta da
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La guerra secondo Francisco Goya
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L’altro volto del Mediterraneo

 

Un’identità turbata

Ne Il monolinguismo dell’altro, pubblicato nel 1996, Derrida scrive: «Essere franco-magrebino, esserlo “come me” non è – non è in primo luogo, in primo luogo non è – un sovrappiù o una ricchezza di identità, di attributi o di nomi. Tale condizione tradirebbe piuttosto, innanzitutto, una turba dell’identità»1.

Credo che il punto di inizio sia qui rappresentato da questa espressione, da questa “turba” interna all’identità stessa, che, se pensata in «tutta la sua gravità»2, permette l’apertura di un sentiero tramite cui è possibile riproporre la questione mediterranea, ripensarla nella sua radicalità e al di là di ogni retorica e luogo comune.

Se, per un verso, come ogni inizio, questo non rappresenta altro che uno tra i tanti inizi possibili, un modo tra i tanti modi in cui chi scrive accede e ordina la ricchezza della molteplicità, dall’altra ritengo che la questione mediterranea, in quanto questione strettamente connessa al tema dell’ospitalità, prima ancora che una questione etico-politica, che riguarda più specificamente il tema dell’accoglienza dell’altro in quanto straniero, si ponga come questione metafisica, ossia come questione che riguarda la natura stessa della coscienza e da cui è, quindi, necessario partire3.

Come si vede nella citazione riportata, ne Il monolinguismo dell’altro, il concetto di identità è affrontato da Derrida a partire dalla sua stessa vicenda biografica di uomo franco-ebreo-algerino, la cui «cittadinanza è in ogni suo lato precaria, recente, minacciata, più artificiale che mai»4, poiché egli di appartenenza «non era né semplicemente francese né semplicemente africano», ma «ha passato il suo tempo a viaggiare da una cultura all’altra e a nutrire le questioni che poneva a partire da questa instabilità»5.

Se, secondo Heidegger, la vita di un autore risulta essere completamente estrinseca allo sviluppo del pensiero, al punto che essa può essere sintetizzata con un «nacque, lavorò e morì»6, è chiaro che, nel caso di Derrida, questa sintetizzazione non può essere applicata, in quanto egli si pone, invece, come caso emblematico di stretta connessione tra i due. La sua identità è turbata dall’interno e originariamente, a partire dalla sua stessa vicenda biografica, che lo vede appartenente ad una molteplicità di filiazioni, le quali non si traducono in un semplice multiculturalismo di un soggetto che assimila e integra le varie componenti, ma, piuttosto, in una pre-originaria e irrimediabile impossibilità di identificarsi con sé e con qualsiasi appartenenza7.

La “turba” interna all’identità stessa ha il suo luogo, primariamente, all’interno della lingua, della lingua materna, che, in quanto tale, è sempre e da sempre la lingua dell’altro, poiché «la sua fonte, le sue norme, le sue regole, la sua legge erano situate altrove», in Francia, sull’altro bordo del Mediterraneo, un luogo che «raffigurava, senza esserlo, un paese lontano, vicino ma lontano, non straniero, il che sarebbe troppo semplice, ma estraneo, fantastico e fantasmatico»8.

Il francese, dunque, in quanto lingua ufficiale, era considerato da ogni francese d’Algeria la lingua propria, cioè quella lingua che, in quanto mia, fonda sia l’identificazione ontologica di un soggetto, il suo essere e dimorare presso di sé, sia la sua identità nazionale e culturale, segnando il confine di demarcazione tra la casa, o la dimora, e ciò che si trova al di là del bordo. Tuttavia «la lingua detta materna», scrive Derrida, «non è mai puramente naturale, né propria, né abitabile»9, ma, in quanto demeure10, ha sempre a che fare con un ritardo, con un resto e una distanza che intaccano la proprietà dell’essere a casa.

Il problema della lingua, della lingua propria, rimanda, più profondamente, al problema dell’abitare, del dimorare stabilmente presso di sé, e all’impossibilità di tale gesto di appropriazione e di identificazione da parte di un soggetto che, in quanto tale, risulta essere continuamente esposto all’esperienza di un altrove, di un’alterità, all’interno della sua stessa struttura ontologica. La “turba dell’identità” si configura, su un piano linguistico, come impossibilità di traduzione, come esperienza di un resto, di uno scarto temporale, che si intesse in ogni discorso, in ogni gesto comunicativo che tenti l’universalizzazione e, sul piano ontologico, come impossibilità da parte del soggetto di permanere chez-soi, di fondare la propria ipseità sulla stabilità del proprio radicamento a sé, poiché questo io «si sarebbe allora formato nel sito di una situazione introvabile, che rinvia sempre altrove, a un’altra cosa, a un’altra lingua, all’altro in generale»11.

Il soggetto vive al proprio interno un’interdizione, anzi una doppia interdizione12, poiché gli è stata negata, di colpo, la possibilità di accedere alle identificazioni che permettono «un’autobiografia pacificata, le “memorie” in senso classico». Ma, come scrive Derrida, «l’interdizione non è negativa, non induce semplicemente alla perdita. Né induce semplicemente allo smarrimento. […] Corre, s’infrange come un’onda che travolge tutto, su spiagge che conosco anche troppo bene. Porta tutto, questo mare, e da entrambe le sponde, si avvolge, travolge e si arricchisce di tutto, porta via, riporta, deporta e si gonfia ancora di ciò che strappa via»13.

La dissimmetria del soggetto, il tempo dell’impossibilità di aderire a sé, ha luogo nel mare del Mediterraneo. Esso è il tempo della dimoranza, come ci insegna Blanchot14, il tempo che ci separa dalla morte e che si impiega per attraversare, senza mai attraversarle realmente, quelle acque, «quello spazio simbolicamente infinito»15 che separa le due sponde, la Riva Nord dalla Riva Sud, ponendosi al centro tra la terra d’origine – l’Algeria – e la terra della lingua materna – la Francia – senza che, tuttavia, esse siano mai separate realmente, ma restino sempre in un costante rapporto di traduzione.

Il problema dell’essenza della coscienza, da cui solo, a mio avviso è possibile rileggere la questione mediterranea, necessita di essere approfondito e meglio definito a partire da un confronto e da una differenziazione rispetto a Lévinas.

Adieu16, la terza tappa della lettura derridiana dell’opera di Lévinas, ruota attorno alla seguente affermazione lévinasiana: «Essa [l’intenzionalità, la coscienza-di] è attenzione alla parola o accoglienza del volto, ospitalità e non tematizzazione»17. La ripresa di questa definizione, che Derrida sembra assumere nella sua totalità, mette in evidenza, in prima istanza, un punto: la dinamica dell’ospitalità è, prima ancora che una questione politica di accoglienza, una questione ontologica, che si connette essenzialmente alla struttura della coscienza in quanto tale. Essa, nella sua connessione essenziale all’ospitalità, viene a strutturarsi come «intenzione attenta», «attenzione intenzionale» all’altro, al volto dell’altro; in altre parole come apertura. Prosegue Derrida: «L’ospitalità, il volto, l’accoglienza esprimono una parafrasi interna, una sorta di perifrasi, una serie di metonimie: tensione verso l’altro […] all’altro»18. Esse dunque non fanno altro che riproporre lo stesso movimento di apertura, non tematizzabile, all’alterità, tramite cui avviene la lacerazione della struttura egologica dell’io, che, in questo movimento di accoglienza, riceve dall’altro, al di là della capacità dell’io, «l’idea dell’infinito».

Tuttavia, «un tale raccoglimento dell’a-casa-propria (chez-soi) presuppone già l’accoglienza; è la possibilità dell’accoglienza e non il contrario. Essa rende possibile l’accoglienza»19. Questo sta a significare che, nella prospettiva di Lévinas assunta da Derrida, non vi è prima la coscienza, intesa come cogito che permane presso di sé, e successivamente l’apertura di questa struttura di raccoglimento all’altro, all’ospitalità, bensì questo movimento di apertura è strutturalmente originario, in quanto è l’ospitalità stessa, il suo movimento radicale di apertura e accoglienza, a determinare l’essenza stessa della coscienza come sua più profonda verità. Colui che accoglie nella propria casa, che apre l’interiorità della propria coscienza alla venuta dell’altro, ricevendolo all’interno della propria soggettività, considerata sua inalienabile proprietà, è, in verità, già da sempre accolto, poiché: «L’ospitalità precede la proprietà»20.

La coscienza si configura come luogo della legge di ospitalità21, del «già» di paolina memoria; essa, in quanto intenzionalità, è strutturalmente coscienza-di e apertura all’altro, ma – ed è qui che avviene un’ulteriore interruzione22 – questa apertura intenzionale al volto dell’altro è “preceduta” già da sempre e originariamente da un’altra apertura, come se essa fosse aperta prima del suo stesso atto di apertura e ospitata prima ancora del suo movimento di ospitalità.

Ritornando, dunque, all’affermazione da cui eravamo partiti, risulta chiaro che “la turba dell’identità” presenta un doppio livello di dissimmetria o interruzione: da una parte, essendo la coscienza intenzionalità, essa si configura sempre come attenzione-a e dunque come costante apertura all’altro che impedisce una coincidenza del soggetto con sé e un pieno radicamento nella propria casa e nella propria lingua, dall’altra, questo movimento di apertura strutturale della coscienza si inscrive all’interno di un altro movimento di scarto, in cui la coscienza è ospitante solo nella misura in cui essa è «già» da sempre ospitata e apre le porte al volto di un altro che attende e riceve in una casa che non è la propria.

La coscienza, in quanto ospitalità, viene a configurarsi come apertura al volto incalcolabile di un altro, all’infinità dell’altro che attendo solo in quanto già da sempre mi precede. L’attesa nei confronti di un’alterità che deve arrivare, che non è ancora, ma che, in quanto tale, è già da sempre e originariamente, nel suo ritrarsi, venuta, è ciò che «sconnette e sconvolge, come può accadere al momento di una visita inattesa, insperata, temuta, attesa al di là dell’attesa, certo, forse come una visita messianica»23 

Il tempo della coscienza è dunque il tempo della visitazione, della traccia del volto dell’altro; un passato che non è mai stato presente e che tuttavia, nella sua eccentricità, impegna ciò che deve ancora arrivare, l’avvenire, all’infinito. Questo tempo è il tempo che ci separa dalla morte, il tempo dell’a-Dio (giudaico-cristiano da parte a parte); il tempo, come ho già detto precedentemente, che Derrida impiegava per attraversare – senza mai farlo realmente e avendolo già da sempre fatto – le acque del Mediterraneo.

 

Abramo, eterno straniero

Come scrive Derrida, «Dio sarebbe innanzitutto, come è detto, colui “che ama lo straniero”»24. Colui che ama lo straniero, piuttosto di mostrarsi.

Chi è, dunque, lo straniero? Lo straniero è Abramo, figura di un’identità ferita e tradita, di un’estraneità che porta fin dentro al suo nome, che, per volere di Dio, ha mutato da Abram in Abramo25. Questa ferita, la ferita dell’altro, della circoncisione, accompagnerà Abramo in tutti i momenti della sua vita: egli lascerà la terra paterna, su comando di Dio, abbandonando il focolare domestico e alterando la propria identità per giungere presso la terra indicatagli dal Signore, la terra di Canaan, in cui egli risiederà sempre da straniero, senza mai possederla, fino al giorno della sua morte.

Stabilirò la mia alleanza con te e con la tua discendenza dopo di te, di generazione in generazione, come alleanza perenne, per essere il Dio tuo e della tua discendenza dopo di te. La terra dove sei forestiero, tutta la terra di Canaan (Gn, 17, 7-8). 

Egli abiterà in una tenda e sarà forestiero in questa regione, la “terra santa”, che diviene figura di una promessa di eterna ospitalità. Abramo è dunque ospite, accolto nella terra affidatagli da Dio ma che egli non possiede. «Il padre progenitore di Israele è un migrato» scrive Rosenzweig; la sua storia, così come è narrata nelle Scritture, inizia con il comandamento di Dio di uscire dalla sua terra natia per recarsi altrove, in una terra che Dio stesso gli mostrerà. Quella terra sarà sua «nel senso più profondo, proprio soltanto come terra della sua nostalgia, come terra santa»26, ma la piena proprietà non gli sarà mai concessa, ma sempre contestata, perché essa si sottrae ad ogni pretesa o tentativo di possesso, per divenire terra perduta, in cui egli abiterà da meteco. La sua identità apparterrà sempre ad un’alterità incalcolabile, non sarà mai propria ma sempre ospitata e, tuttavia, sempre infinitamente ospitante nei confronti di chi giungerà in quella terra, nei confronti dei viandanti del deserto, che accoglierà, senza chiederne l’identità. Egli arriverà persino ad accogliere Dio stesso presso la propria tenda, senza conoscerne la reale natura, nell’episodio delle Querce di Mamre (Gn. 18, 1-29):

Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui. Appena li vide, corse loro incontro dall’ingresso della tenda e si prostrò fino a terra, dicendo: “Mio signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passare oltre senza fermarti dal tuo servo. Si vada a prendere un po’ d’acqua, lavatevi i piedi accomodatevi sotto l’albero. Andrò a prendere un boccone di pane e ristoratevi; dopo potrete proseguire, perché è ben per questo che voi siete passati dal vostro servo” (Gn. 18, 1-5).

Si tratta di una visitazione inattesa e imprevista, che annuncia l’arrivo di nuove visite e nuovi arrivi, di irruzioni e ospiti incalcolati, tra cui la nascita del figlio desiderato ma ormai inatteso, di nuove chiamate, a cui Abramo risponderà soltanto dicendo «Eccomi».

Come afferma Derrida, «questo è il primo insegnamento abramitico», il “sì” che precede ogni identità, persino la propria, il sì al volto dell’altro che irrompe, senza essere previsto, senza essere aspettato, l’arrivante che, in quanto tale, è ospitato solo nella misura in cui è già da sempre ospitante: «Non sono io – è l’Altro che può dire »27. 

Nella figura di Abramo si incarna la legge dell’ospitalità, quella doppia dissimmetria della coscienza, in cui l’io si apre all’alterità, all’accoglienza dell’altro, solo nella misura in cui è già da sempre visitato da un’altra alterità, dall’Altro assoluto, che precede il suo stesso atto di apertura. A questa visitazione, eccedente e smisurata, che già da sempre lo abita, Abramo risponde «Eccomi», senza chiedere altro, esponendosi al rischio radicale dell’abbandono, poiché «cosa sarebbe la fede o la devozione verso un Dio che non potrebbe abbandonarmi?»28 Abramo, dunque, dice addio a Dio stesso e solo così egli diviene responsabile, in quanto «il Dire ad-Dio significherebbe l’ospitalità. Non una qualche astrazione che si definirebbe, come frettolosamente ho appena fatto, “amore per lo straniero”, ma (Dio) “il quale ama lo straniero”»29.

Bisogna allora comprendere, fino in fondo, nella sua radicalità, il significato di questo “ad-Dio”. Anche in questo caso, credo sia necessario porre la questione, essenzialmente e in primo luogo, come una questione ontologica che riguarda, quindi, nella sua essenza, la natura stessa della coscienza. Come abbiamo visto, la coscienza è, senza dubbio, il luogo di un’apertura, di un atto originario di accoglienza dell’altro che, tuttavia, non si pone come gesto intenzionale che segue ad una decisione, ma essa ha piuttosto come condizione un essere già in atto prima ancora di ogni atto. Questa ospitalità ospitante della coscienza che è già da sempre ospitata, questo atto senza attività non va confuso con una neutra passività del luogo della coscienza, in quanto questa si configura invece come un’«inquietudine anarchica» – per usare un termine di Lévinas – come «l’urgenza d’una destinazione che porta all’altro, non l’eterno ritorno su di sé»30. Si tratta, dunque, di un movimento di uscita, già da sempre in atto, di una dynamis pre-originaria che spinge la coscienza costantemente all’uscita fuori da sé, verso l’altro, come se la sua identità, il suo essere a-casa-propria non fosse altro che uno strutturale essere fuori-casa, un movimento di paradossale identificazione di sé come altro da sé, come straniero. La coscienza è, dunque, questo movimento estraniante e paradossale di apertura e accoglienza dell’altro, del volto fantasmatico di un altro che non vedo, ma che paradossalmente già da sempre mi ha accolto e mi rivede nella mia essenza; la coscienza è fin da principio e definitivamente ad-Dio.

In Donare la morte31, Derrida, rileggendo Lévinas, rintraccia tre significati del termine “addio”: i primi due vedono in questo termine il saluto o la benedizione che viene data al momento dell’arrivo o al momento della separazione da qualcuno; il terzo punto, invece, individua all’interno dell’addio l’essere per Dio o davanti a Dio, il rivolgersi a Dio nella sua assoluta alterità e imperscrutabilità, e scoprire in questo rapporto, in questa relazione smisurata e sproporzionata all’Altro, ogni rapporto all’altro, al volto dell’altro, che diviene dunque, prima e dopo tutto, un rapporto di addio.

Ad-Dio al di là dell’essere, laddove non solo Dio non ha da esistere, ma dove egli non ha da donarmi né da perdonarmi. Che cosa sarebbe la fede o la devozione verso un Dio che non potrebbe abbandonarmi? Di cui sarei sicuro e certo, sicuro della sua sollecitudine? Un Dio che non potrebbe che donarmi o donarsi a me? […] Lévinas avrebbe forse sottoscritto a queste ultime proposizioni, cioè che l’ad-Dio, come il saluto o la preghiera, deve rivolgersi a un Dio che non solo può non esistere (non esistere più e non ancora), ma che può anche abbandonarmi e non volgersi verso di me con alcun movimento di alleanza o di elezione?32

D’altronde, come scrive Patočka, che cosa sarebbe accaduto se Dio non mi avesse abbandonato? Nulla. Nulla sarebbe accaduto poiché nulla sarebbe potuto accadere. Tutto ciò che accade, accade nel silenzio, nell’abissalità che si apre dinanzi la non-risposta di un Dio che mi riguarda, senza essere visto, e a cui noi possiamo rivolgerci solamente dicendo “Eccomi”. In tal senso sembrerebbe che per poter dire autenticamente, umanamente e responsabilmente addio (ad-Dio, essere rivolti a Dio, all’Altro/altro come tutt’altro) bisognerebbe dire addio alla certezza del dono e del perdono di Dio, addio a Dio stesso, poiché Dio con la sua stessa “presenza”, con la necessità della risposta, rischia di vanificare ogni tentativo di apertura, ogni movimento di ospitalità e accoglienza – sempre ospitante in quanto già da sempre ospitata – tramite cui solamente la coscienza diviene ciò che è: diviene straniera.

L’esperienza della non-risposta, del silenzio e dell’abbandono di Dio decostruisce ogni schema identitario, ogni tentativo di coincidente adeguazione, di natura sia ontologica che teologica, poiché, di fronte la grandezza di questo scandalo – lo scandalo della croce, dirà Moltmann – ogni struttura risulta essere inadeguata, infinitamente sospesa: «come può una teologia cristiana parlare di Dio quando questo Gesù è un abbandonato da Dio?»33 

L’esperienza della non-risposta, di qualcuno che tace pur parlando, parlando la mia lingua che tuttavia non comprendo fino in fondo, perché, pur essendo mia, essa è da sempre e originariamente lingua straniera, è l’esperienza della morte e della sua eccezione assoluta34. «Come se ci fosse sempre un po’ meno nella risposta che nella domanda», scriverà Derrida nel Preambolo di Non/Passo35.

Il soggetto non è più in grado di posizionarsi – abbiamo una soggettività che si costituisce in un rapporto senza rapporto con un’alterità che non è esterna, ma interna al soggetto stesso – di procedere e sottrarre la distanza nella risposta, ma solo di attendere, «sul bordo dell’evento» «infinitamente distante dall’attracco all’altra riva»36 e in un tempo che si rivela come il non tempo sospeso della venuta37, in cui tutto accade.

 

Da una riva all’altra – il tempo e il luogo messianico dell’attraversamento

Riprendendo la citazione dell’epilogo di L’arrêt de mort di Blanchot38, «Vieni» è il punto di partenza di Pas, e dunque di Parages. Che cos’è vieni? È chiaro che non può essere, o quantomeno non solamente, l’imperativo presente coniugato, perché una tale definizione risulta essere del tutto insufficiente. Scrive Derrida:

Vieni non è un imperativo, non è un presente. Non essere, ecco ciò che gli conferisce una specie di selvatichezza non linguistica che lascia l’avvenimento vieni in libertà.39

Vieni non è nulla; non è un tempo verbale, non è un elemento grammaticale, ma è piuttosto un’estensione di ciò che sfugge ad ogni tentativo di fondazione ontologica, il tempo della dissimmetria del soggetto che non trova più il proprio posizionamento – viens in francese è sia prima che seconda persona singolare – ma è sospeso nell’impossibilità di misurarsi, di determinare l’esterno dall’interno, il sé da ciò che è altro da sé. Vieni non è altro che il tempo dell’oblio della non risposta, dell’evento incalcolabile dell’altro, in cui il soggetto può solamente dire: «Eccomi». È il tempo in cui Derrida, per la prima volta e ancora adolescente, attraversava le acque del Mediterraneo.

D’altronde, il tempo della venuta «si svolge non lontano dalle “acque”, da un annegamento, detto altrimenti da ciò che manca la riva, che non arriva ad accadere»40. Se c’è un mare, c’è sempre qualcuno che viene, che viene dall’altra sponda, che tenta di attraversare, di abbordare l’altra riva41, ma che, come abbiamo già visto, è già da sempre arrivato, in un passato indefinito, non avendo mai avuto accesso al tempo, ma rovesciandolo nel momento in cui si approssima alla presenza, poiché «ciò che non ha avuto luogo, è necessario che sia già giunto»42.

Come giunge lo straniero, colui che arriva dall’altra sponda? Attraverso un non/passo, attraverso il non del passo, che tuttavia non è una semplice privazione o negazione ma, come scrive Derrida, è piuttosto «la traccia o il passo del tutt’altro che vi si tratta, il ri-trarsi del passo, e del passo senza passo»; in altre parole è la turba interna alla parola stessa, la sua sospensione, nel momento in cui la stessa parola o la stessa cosa appare sottratta a se stessa, alla sua identità «pur continuando a lasciarsi attraversare, nei loro vecchi corpi, verso un tutt’altro dissimulato in loro»43. Questo movimento, il movimento del non/passo, si configura come uno spostamento, che tuttavia non conduce mai in avanti, ma è un permanere nello stesso luogo, una stasi, che, pur procedendo, trasgredisce l’avanzare e la sua legge, in quanto non conduce da nessuna parte, non attracca a nessun bordo, ma sospende. Un doppio passo, un passo al di là, che non prevede una possibile inclusione, una sintesi del passo che permetta di procedere, ma «sempre due passi, che si oltrepassano fino alla loro negazione», «l’uno destinando l’altro immediatamente a superarlo, allontanandosi da lui»44. Il non/passo è, dunque, il movimento di un soggetto che non è uno ed identitario, ma sempre sospeso all’apertura illimitata all’altro, a chi viene.

Il luogo di questa soggettività, di una soggettività così concepita – fratta, alterata, mai coincidente con sé, poiché abitata da altro, da un altro che è l’assolutamente Altro che la visita, e dunque giudaico-cristiana, da parte a parte45 – è il Mediterraneo e le sue acque – le acque che uniscono, senza mai unirli realmente, i due bordi – e il tempo è il tempo sospeso dell’arrivo, il tempo impiegato per l’attraversamento, per passare, senza mai abbordare, da un riva all’altra riva. 

In quest’ottica, il Mediterraneo non è più il mare marginale, periferico e sterile che assume i tratti di un «profondo sepolcro», come scrive Matvejević46, in cui si accumulano i cadaveri senza volto di chi tenta di attraversarlo, ma esso è, piuttosto, il luogo in cui si gioca il destino dell’Europa, lo spazio di un’apertura universale, che può avvenire solamente a partire dal ripensamento della soggettività come soggettività abramitica, giudaico-cristiana nella sua totalità. 

Qualcosa di unico è in corso in Europa, in ciò che ancora si chiama Europa, anche se non si sa più bene che cosa si chiami in questo modo. Di fatto a quale concetto, a quale individuo reale, a quale entità determinata si può, al giorno d’oggi, conferire questo nome?47

Appare chiara, oggi più che mai, la necessità e l’urgenza di ripensare il Mediterraneo, di aprire una riflessione che si spinga oltre la geo-politica delle sue acque e che renda possibile ri-proporre la domanda sull’Europa, su che cosa sia questo vecchio continente oggi e quale volto esso sembra assumere, per comprendere se ancora esista la possibilità di attribuire a una terra, a un’identità o a un concetto questo nome di donna48.

Oggi, ciò che noi vediamo, è un’Europa giunta al termine della sua corsa, che assume i tratti di un corpo esausto, morente, che a stento riesce a trattenersi in superficie, e che annaspa in quelle stesse acque da cui si è generata, impiegando le ultime sue forze per delimitare, ancora più nettamente, i propri confini, nella vana illusione che questi siano la sola speranza di far sopravvivere la propria identità. Eppure, se la salvezza di questa Europa, ormai alle sue ultime battute, e la sua stessa identità risiedesse proprio lì, nel volto spettrale di quell’altro che giunge – ma che è già da sempre arrivato – sui barconi di migranti che tentano di attraversare le sue acque, le acque mediterranee?

Se vi è una possibilità per questa Europa probabilmente è proprio li, nell’accoglienza dell’altro come tutt’Altro, in un ripensamento del rapporto dell’identità con l’altro «che non si attagli più alla forma, al segno o alla logica del capo, né dell’anti-capo – o della decapitazione»49. D’altronde l’identità, per esser tale, non è mai identica a se stessa, mai coincidente e unitaria, ma sempre in costante rapporto con un altro da sé, con una differenza interna che la lacera e che la rende continuamente intermittente. Ogni cultura, se vuole essere autentico rapporto a sé, deve configurarsi “come cultura dell’altro”, in cui questo doppio genitivo – oggettivo e soggettivo – tiene conto dell’origine di ogni identità culturale, che in quanto origine non è mai fondamento unitario, ma sempre fondamento sfondato, intreccio storico e politico di varie culture. Ogni origine (Ursprung) è in sé essenzialmente meticcia50 e richiede, dunque, l’abbandono della logica del capo, del fallo o di volontà di potenza51, per «inventare un altro gesto, un lungo gesto davvero, che presupponga la memoria proprio per conferire l’identità a partire dall’alterità, dall’altro capo e dall’altro del capo, da tutt’altro bordo»52.

Tuttavia – ed è questo il punto da cui siamo partiti e a cui voglio tornare – la questione è più radicale; il destino dell’Europa e delle acque mediterranee, prima ancora che essere una questione etico-politica sull’accoglienza del migrante o sulle relazioni internazionali, è una questione metafisica sull’essenza della coscienza ed è così che deve esser posta affinché si manifesti, in tutta la sua urgenza, la necessità di un ripensamento della soggettività europea a partire dalla sua radice giudaico-cristiana, come soggettività divisa, scomposta, non-identitaria, in sintesi da sempre turbata dal volto di un Altro/altro che la visita. Solamente se ripensata nella sua paradossalità, se riportata alla sua struttura messianico-abramitica, essa può aprire all’universalità.

Commentando Romani 10,12, Badiou scrive:

Più in generale, dal momento in cui il reale è identificato come evento e apre alla divisione del soggetto, le figure che differenziano il discorso si dissolvono, perché la posizione del reale che esse istituiscono appare, nella retroazione dell’evento, come illusoria. […] I soggetti “etnici”, prodotti dalla legge ebraica così come dalla sapienza greca, sono screditati, in quanto pretendono di mantenere un soggetto pieno o indiviso, di cui si potrebbero enumerare i predicati particolari: la genealogia, l’origine, il territorio, i riti, ecc.

Dichiarare la non-differenza tra ebreo e greco istituisce l’universalità potenziale del cristianesimo; fondare il soggetto come divisione, e non come mantenimento di una tradizione, adegua l’elemento soggettivo a questa universalità, dissolvendo il particolarismo predicativo dei soggetti culturali.

È certo infatti che l’universalismo, e dunque l’esistenza di qualunque verità, esige la deposizione delle differenze date e l’istituzione di un soggetto diviso in se stesso.53

 

Note con rimando automatico al testo

1 J. Derrida, Il monolinguismo dell’altro, a cura di G. Berto, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2004, pp. 19-20.

2 Ibidem.

3 Tuttavia, è necessario sottolineare che, nella lettura che Derrida offre di Lévinas, risulta chiaro che questi due aspetti non debbano essere considerati come tra loro slegati o subordinati l’uno all’altro, quanto piuttosto essi debbano essere visti come momenti diversi di un’unica struttura, che vede nella coscienza una struttura in sé etico-politica.

4 Ivi, p. 20.

5 Si tratta di affermazioni riportate da Mahmoud Chérif, nel resoconto di un incontro con Derrida all’Institut du monde arabe e successivamente pubblicato in M. Chérif, L’Islam et l’Occident. Rencontre avec Jacques Derrida, Paris, Odile Jacob, 2006, p. 65.

6 Si fa qui riferimento a un aneddoto secondo cui Heidegger, all’inizio di un ciclo di lezioni su Aristotele, al posto della solita introduzione biografica, sintetizzò la vita del filosofo, dicendo appunto: «Aristotele nacque, lavorò e morì».

7 Cfr. J. Derrida, Il monolinguismo dell’altro, cit., p. 18: «Vedi, non appartengo a nessuno di questi insiemi chiaramente definiti. La mia ‘identità’ non rientra in nessuna di queste tre categorie. Dove mi classificherei, allora? e quale tassonomia inventare?».

8 Ivi, p. 50.

9 Ivi, p. 79.

10 Come spiega G. Berto, Il disagio della traduzione, introduzione a J. Derrida, Il monolinguismo dell’altro, cit., pp. IX- XXI, Derrida rinvia spesso alla doppia accezione del termine demeure che, in francese, assume in primo luogo il significato di ‘dilazione’, ‘ritardo’, e solo successivamente il significato di ‘dimora’, ‘abitazione’. Il ‘dimorare’, dal latino demorari, rimanda al termine mora, che propriamente indica una sosta, un indugio. Derrida, giocando con il doppio significato del termine, sottolinea un ritardo interno alla struttura stessa del dimorare, che intacca la possibilità dello stare a casa propria, la stabilità dell’essere presso di sé, rovesciando l’abitare nell’essere abitati da altro o dall’altro.

11 J. Derrida, Il monolinguismo dell’altro, cit., p. 36.

12 «Ciò che io dico, quello che io dico, quell’io di cui parlo in una parola, è qualcuno, me ne ricordo appena, a cui l’accesso a ogni lingua non francese dell’Algeria (arabo dialettale o letterario, berbero ecc.) è stato interdetto. Ma questo stesso io è anche qualcuno a cui l’accesso al francese, in altro modo, apparentemente indiretto e perverso, è stato anch’esso interdetto. In altro modo, certo, ma comunque interdetto». Ivi, p. 38.

13 Ivi, p. 39.

14 Cfr. J. Derrida, Dimora. Maurice Blanchot, Bari, Palomar, 2001.

15 «Tra il cosiddetto modello scolastico, grammaticale o letterario, da una parte, e la lingua parlata, dall’altra parte, c’era il mare, uno spazio simbolicamente infinito, un baratro per tutti gli alunni della scuola francese in Algeria, un abisso. Non l’ho attraversato, corpo e anima, o corpo senz’anima (ma l’avrò mai superato, altrimenti superato?), per la prima volta, con una traversata in battello, sul Ville d’Alger, che all’età di diciannove anni», J. Derrida, Il monolinguismo dell’altro, cit., p. 50.

16 J. Derrida, Addio a Emmanuel Lévinas, a cura di S. Petrosino, Milano, Jaca Book, 2011.

17 E. Lévinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, trad. it. di A. Dell’Asta, Milano, Jaca Book, 2016.

18 J. Derrida, Addio a Emmanuel Lévinas, cit., p. 84.

19 Ivi, p. 90.

20 Ivi, p. 107.

21 «D’altra parte, saremo così chiamati a questa implacabile legge dell’ospitalità: l’ospite che riceve (host), colui che accoglie l’ospite invitato o ricevuto (guest), l’ospite che accoglie che si crede proprietario di luoghi, è in verità un ospite ricevuto nella propria casa. Egli riceve l’ospitalità che offre nella propria casa, la riceve dalla propria casa – che in fondo non gli appartiene». Ivi, p. 103.

22 «L’ospitalità non è forse un’interruzione di sé?», ivi, p. 115.

23 Ivi, p. 129.

24 Ivi, p. 174.

25 «Quanto a me, ecco, la mia alleanza è con te: diventerai padre di una moltitudine di nazioni. Non ti chiamerai più Abram, ma ti chiamerai Abramo, perché padre di una moltitudine di nazioni ti renderò» (Gn, 17, 4-6). Sia per L’Antico che per il Nuovo Testamento citiamo da La Bibbia di Gerusalemme, Bologna, EDB, 2008.

26 F. Rosenzweig, La Stella della Redenzione, trad. it. di G. Bonola, Milano, Vita e Pensiero, 2005, p. 309.

27 E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., p. 92.

28 Il tema dell’abbandono, della possibilità dell’abbandono di Dio, richiederebbe un’indagine e una trattazione più approfondita. In questo contesto mi sento di richiamare l’attenzione sul pensiero e sul lavoro del filosofo ceco Jan Patočka, il quale ha fatto, a mio parere, della rilettura dell’evento kenotico della croce e della radicalizzazione di tale evento come sacrificio per nulla il centro della propria riflessione. A tale proposito, riporto un passo tratto da J. Patočka, Čtyři semináře k problému Europy, in Sebrané Spisy, vol. 3: Péče o duši III, a cura di I. Chvatík e P. Kouba, Praha, OIKOYMENH, 2002: «Perché mi hai abbandonato? La risposta è nella domanda. Cosa sarebbe accaduto se tu non mi avessi abbandonato? Non sarebbe accaduto niente, può accadere qualcosa soltanto nel momento in cui mi abbandoni. Mi hai abbandonato affinché non ci sia niente a cui possa aggrapparmi».

29 J. Derrida, Addio a Emmanuel Lévinas, cit., p. 174.

30 Ivi, p. 58.

31 «Suppongo che addio possa significare almeno tre cose: 1. Il saluto o la benedizione data (prima di ogni linguaggio constatativo, “addio” può ben significare “buongiorno”, “ti vedo”, “vedo che ci sei” ti parlo prima di dirti qualsiasi altra cosa – e in francese accade in alcune situazioni che ci si dica addio al momento dell’incontro e non della separazione). 2. Il saluto o la benedizione data al momento di separarsi e di lasciarsi, a volte per sempre (non si può mai escluderlo): senza ritorno quaggiù, al momento della morte. 3. L’ad-dio, il per Dio o il davanti a Dio prima di tutto e in ogni rapporto all’altro, in ogni altro addio. Ogni rapporto all’altro sarebbe, prima e dopo tutto, un addio», J. Derrida, Donare la morte, trad. it. di L. Berta, Milano, Jaca Book, 2002, p. 84.

32 J. Derrida, Addio a Emmanuel Lévinas, cit., p. 174.

33 J. Moltmann, Il Dio crocifisso. La croce di Cristo, fondamento e critica della teologia cristiana, Brescia, Queriniana, 2013, p. 182.

34 «Emmanuel Lévinas in più occasioni definisce la morte, la morte che “noi incontriamo” “nel volto d’altri”, come non-risposta: “è il senza-risposta”. E altrove si afferma: “Vi è qui una fine che ha sempre l’ambiguità di una dipartita senza ritorno, di un decesso, ma anche di uno scandalo (‘come è possibile che sia morto?’) della non-risposta e della mia responsabilità”. La morte: innanzitutto non l’annientamento, il non-essere o il nulla, ma una certa esperienza, per il sopravvissuto, del “senza-risposta”». J. Derrida, Addio a Emmanuel Lévinas, cit., p. 61.

35 J. Derrida, Paraggi. Studi su Maurice Blanchot, a cura di S. Facioni, Milano, Jaca Book, 2000.

36 Ivi, p. 81.

37 «Lo Spirito e la sposa dicono: “Vieni!”. E chi ascolta, ripeta: “Vieni!”. […] Colui che attesta queste cose dice: “Sì, vengo presto!”. Amen. Vieni, Signore Gesù» (Ap. 22, 17-20).

38 «È possibile che, stanca di vedermi perseverare con una sorta di fede nel mio ruolo di uomo del “mondo”, lei mi abbia, con questa storia, bruscamente ricordato la verità sulla mia condizione e mostrato col dito qual era il mio posto. È anche possibile che lei abbia obbedito ad un comando misterioso, e che era il mio, e che in me è la voce per sempre riconoscente, anch’essa una voce gelosa, di un sentimento incapace di scomparire. […] Questa forza troppo grande, incapace di essere distrutta da alcunché, forse ci destina a una sventura smisurata, ma se è così, questa sventura l’assumo su di me, rallegrandomene a dismisura, e a lei dico eternamente “Vieni” ed eternamente è qui», M. Blanchot, La sentenza di morte, trad. it. di G. Pavanello e R. Rossi, Milano, SE, 1989, p. 75 (corsivo mio).

39 J. Derrida, Paraggi, cit., p. 90.

40 Ivi, p. 123.

41 «Abbordare, è la strana lentezza di un movimento d’approccio, tra gesto e discorso, non ancora giunto al termine, non ancora teso verso il fine – la riva – non ancora accaduto. […] Abbordare è interpellare o fare segno di lontano; è chiamare la distanza a distanza e dipendere dall’iniziativa e dal posto dell’altro che, provocato, non si lascia necessariamente abbordare. Vieni: in questa sospensione di prossimità allontanante, il bordo dell’abbordo (o, per tornare al mare, dell’abbordaggio per un’ispezione di identificazione) si dissimula senza tuttavia presentarsi altrove», ivi, p. 155.

42 Ivi, p. 132.

43 Ivi, p. 149.

44 Ivi, p. 120.

45 Questo tema, cardine nello sviluppo del pensiero occidentale, meriterebbe una trattazione attenta e specifica, che, in questa sede, non è possibile attuare. Mi limito per questo, oltre a segnalare in tale direzione il lavoro di Foucault, che ha compiuto un’ermeneutica del soggetto in relazione alle nozioni di libertà e grazia, anche il volume di G. Lettieri, Donum Libertatis (https://gaetanolettieri.files.wordpress.com), in cui la questione della metamorfosi del soggetto cristiano viene affrontata in maniera puntuale. Ne riporto a tal proposito un passo: «Se il soggetto naturale, autonomo è padrone e signore del suo sguardo, il soggetto graziato, eteronomo, è sguardo che si scopre oggetto dello sguardo di Dio (del “Padre tuo che vede nel segreto”: Mt 6,4; 6; 18), che ne scruta ogni profondità. L’interiorità del soggetto diviene così il luogo di una paradossale asimmetria, è l’immagine di Dio, la creatura nella quale Dio creatore si guarda come amato Amore redentivo: luogo assolutamente utopico di un’assoluta alterazione, di un farsi altro dell’Altro. Proprio perché incontro asimmetrico di sguardi, l’interiorità cristiana si rivela come mistero, ma soltanto perché il suo costituirsi dipende necessariamente da un evento: l’io diviene soggetto autentico soltanto se, nella propria vicenda biografica, un altro Soggetto irrompe ad assoggettarlo, liberandolo: paradosso della colpa imputata e perdonata, della soggezione all’Amore che si toglie, che è soltanto nel suo togliersi, sottrarsi, nascondersi, della libertà che è generata soltanto dal suo totale, teologico asservimento all’indebito, al gratuito, all’incomprensibile, al contingente. In tal senso, la conversione cristiana non è mai soltanto un convertirsi a se stessi (alla propria interiorità spirituale) in se stessi (nell’intimo della propria stessa natura), ma un essere prima di tutto convertiti dall’Altro, che irrompe, sorprende, chiama, rovescia, sempre inaudito e sgradito, nell’intimità stessa dell’io: l’attività si converte in passività, proprio perché si scopre operata da un altro atto che vuole visitarla, che storicamente la altera e le fa necessariamente violenza».

46 P. Matvejević, Il Mediterraneo e l’Europa. Lezioni al Collège de France, trad. it. di G. Vulpius, Milano, Garzanti, 1998, p. 24.

47 J. Derrida, L’altro capo, in Oggi l’Europa. L’altro capo seguito da La democrazia aggiornata, trad. it. di M. Ferraris, Milano, Garzanti, 1991, p. 11.

48 Il mito narra della principessa Europa, figlia del re dei Fenici, che scesa al mare con le ancelle incontrò sulla spiaggia un toro bianco di grande bellezza e mitezza, tanto da indurla a cavalcarlo. Ma il toro si lanciò attraverso il mare trasportando la fanciulla fino all’isola di Creta, dove assunse le sembianze di Zeus e con lei generò tre figli, tra i quali Minosse, re di Creta, e Radamanto, giudice degli inferi. Il mito continua col racconto sui fratelli di Europa, che partirono in varie direzioni per cercare la sorella: tra questi Cadmo che giunse nella Grecia continentale e qui fondò Tebe; a lui è attribuita la trasmissione dell’alfabeto dalla Fenicia alla Grecia. Le prime tracce scritte del mito di Europa risalgono ai tempi di Omero ed Esiodo, intorno all’VIII secolo a.C. Nell’Iliade Zeus evoca, tra i suoi molti amori, quello con Europa, mentre nella Teogonia Esiodo accenna a un’Europa figlia di Teti, una delle divinità marine.

49 J. Derrida, L’altro capo, cit., p. 17.

50 «Lo stesso vale, inversamente o reciprocamente, per qualunque identità o identificazione: non c’è rapporto a sé, identificazione a sé, senza cultura, ma cultura di sé come cultura dell’altro, cultura del doppio genitivo e della differenza rispetto a sé. La grammatica del doppio genitivo notifica altresì che una cultura non ha mai una sola origine. La monogenealogia sarebbe sempre una mistificazione nella storia della cultura», ivi, p. 14.

51 «L’Europa non è soltanto un capo geografico che si è sempre conferito la prosopopea, o la fisionomia, di un capo spirituale, insieme come progetto, compito o idea infinita, cioè universale: memoria di sé che si raccoglie e si accumula, che si capitalizza in sé e per sé. L’Europa ha anche confuso la sua immagine, il suo volto, i suoi tratti e il suo luogo, il suo aver luogo, con una punta avanzata, con un fallo, se volete, quindi ancora con un capo per la civiltà mondiale o la cultura umana in genere. L’idea di una punta avanzata della esemplarità, è l’idea dell’idea europea, il suo eidos, insieme come arché e come telos», ivi, p. 22.

52 Ivi, p. 25.

53 A. Badiou, San Paolo. La fondazione dell’universalismo, a cura di F. Ferrari e A. Moscati, Napoli, Cronopio, 2010, pp. 92-93.