Per far memoria dell’oblio e ricordarsi di dimenticare

  • Stampa

 

Saper dimenticare è una fortuna più che un’arte. Le cose che si vorrebbero dimenticare sono quelle di cui meglio ci si ricorda. La memoria non solo ha l’inciviltà di non sopperire al bisogno, ma anche l’impertinenza di capitare spesso a sproposito.

B. Gracián, Oráculo manual y arte de la prudencia

 

A Simonide, il virtuoso della memoria che voleva insegnargli come ricordare tutto, Temistocle, il grande politico e militare ateniese ormai bandito dalla patria, avrebbe risposto di preferire piuttosto apprendere l’arte di dimenticare, in modo da evitare la sofferenza ossessiva che impongono i traumi e gli scacchi: “nam memini etiam quae nolo, oblivisci non possum quae volo” – infatti ricordo anche ciò che non voglio, e non riesco a dimenticare ciò che vorrei (Cicerone, De fin., II, 32, § 104).

Se l’antichità e la modernità sono state caratterizzate piuttosto dall’esaltazione della memoria e delle sue tecniche, il Novecento più tragico, certamente anche in seguito alle sue esperienze estreme che ci impongono il dovere di non dimenticare, ha dato spunto a riflessioni che, senza tradire l’imperativo del ricordare – quello Zahor che invita a onorare le vittime e il debito verso i trapassati –, hanno inteso restituire l’onore perduto al gesto misurato, giusto e pacificatore del voler sorvolare, si pensi solo agli studi di Paul Ricœur o alle indagini di Harald Weinrich. Ma si pensi anche alle esperienze storiche che hanno evidenziato lo spessore politico del perdono difficile, arendtianamente capace di sciogliere il passato alleggerendone il fardello, perdono che pure non sconfessa l’imprescrittibilità del crimine contro l’umanità, da contrapporre come un monito ai tradizionali usi tattici e strategici dell’amnistia, della grazia o del condono.

Nei tempi stressati e stressanti che indeboliscono il pensiero a favore dell’efficienza, che cosa dobbiamo ricordare, che cosa dobbiamo ad ogni costo dimenticare? Sono quesiti urgenti che si impongono alle nostre società multimediali, caratterizzate da un eccesso di conoscenze e di saperi che si accumulano in maniera impressionante, al punto da mettere in forse, in senso nietzscheano, i modi e la possibilità stessa di rievocare il passato. Si insegue, infatti, una memoria forsennata sempre più bulimicamente memorizzante fino al parossismo del non poter più cancellare da archivi mostruosamente onnipresenti ciò che magari imbarazza o offende. Nelle realtà sociali e politiche che invecchiando e declinando da un lato si affannano in rottamazioni e discariche e dall’altro si consegnano alla demenza e alla regressione, forse è necessario saper dare nuovo lustro anche al cesello selezionatore e inventariante dell’oblio, perché quando si parla di oblio non si deve pensare necessariamente al contrario della memoria, piuttosto a ciò che rende possibile la memoria stessa: certamente non si tratterebbe di celebrare demolizioni scriteriate, ma di fare spazio a un dimenticare illuminato che, non più antagonista del ricordo, anzi come suo più geloso custode, additi la finitezza e la vulnerabilità, rammemorandone disfatte e conquiste. L’oblio non è solo il segno del reale, e del reale come evento, ma è esso stesso evento, e come tale, passibile di oblio. Il memento più radicale non sarà più solo allora quello, ancora narcisistico, che ci richiama alla nostra individuale mortalità, ma l’appello a ricordare che saremo dimenticati e ad essere perciò finalmente anche un po’ più dimentichi di noi stessi, consapevoli dell’incompiutezza, ma anche della bellezza e libertà del finito.