Grandi pittori, remote influenze

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Un semplice schema disegnato su una lavagna è in grado di esporre l'evoluzione stilistica delle arti visive in Occidente: con un tratto divisorio possiamo indicare ad esempio nell'alternanza tra una concezione realistica e una opposta visione simbolica la chiave di lettura delle trasformazioni in corso. Naturalmente tuttavia a quella alternanza dialettica dovremmo sovrapporre anche l'idea della continuità, ovvero della sequenza logica e formale che - ad esempio - collega e non contrappone il Manierismo e il Barocco. In quel diagramma, linee continue, tratteggiate o spezzate, insieme a frecce simboliche di connessione segnalano intuitivamente questi fenomeni.

Il tentativo di mantenere scarti minimi tra gli stili, negando sedicenti rivoluzioni, è tanto frequente nelle letture sintetiche proposte dagli storici quanto il suo opposto, ma se è vero che spesso la verità sta nel mezzo, probabilmente la mediazione tra le due letture è la più corretta, ovvero la meno sbagliata.

Se gli schemi generalisti individuano tendenze e linee mirabilmente estese nel tempo, come quella che unisce Ambrogio Lorenzetti e Canaletto e Georges Seurat, oppure in parallelo Giotto e Masaccio e Paul Cézanne, difficilmente potremmo evitare il passaggio delle nostre linee da qualche punto in comune, dove si incrocerebbero contraddicendo l'ipotizzata separazione. Ed è qui che entra in gioco il concetto di influenza, ovvero del rapporto diretto, ma non totalizzante, di un movimento sull'altro, del vecchio maestro sul giovane, o anche del rapporto reciproco, senza prevalenze.

Le influenze esterne agiscono sugli artisti inevitabilmente, e spesso modificano o ibridano volontà diverse. Le biografie complete, nel senso soprattutto dell'opera completa, sono quindi rivelatrici, perché è molto difficile che un artista mantenga per tutta la vita una coerenza di fondo e non si lasci invece trascinare, a seconda dei casi, in ricerche diverse, frutto quasi sempre del rapporto con gli altri, più vecchi o più giovani che siano.

Si danno casi particolari che possono spiegare bene ciò che intendo. Lo scambio di tecniche, scelte, intenzioni, passioni, tra Picasso e Braque, come tra Monet e Renoir, o tra Van Gogh e Gauguin, porta per breve tempo questi pittori a influenzarsi reciprocamente, ovvero a creare opere delle quali possiamo a stento distinguere l'autore, perché troppo simili, o viceversa in cui gli autori sembrano addirittura sfuggire alla conoscenza che pensiamo di avere del loro lavoro. E questo è accaduto anche in passato in innumerevoli occasioni, che non sempre riusciamo ad analizzare; si pensi allo scambio di attribuzione tra i quadri di Antonello da Messina e i suoi coevi fiamminghi, o tra Leonardo e i suoi allievi, tra Caravaggio e i suoi imitatori, e si pensi viceversa al Botticelli pagano della Calunnia e a quello savonaroliano dell'Adorazione, al primo tenebroso Tiepolo e a quello chiarissimo della maturità, al Goya pittore di corte e a quello terribile delle pitture nere.

I casi di Raffaello, maestro sublime nell'appropriazione delle forme altrui, e di Caravaggio, il rivoluzionario che non aveva maestri, possono essere esempi chiarificatori.

 

Raffaello e la Pala Baglioni

 

 

 

Il pannello centrale della Pala Baglioni di Raffaello con alcuni dettagli sulle figure di Giovanni, di Cristo, di Maddalena, di Nicodemo e poi del facchino centrale

 

Nella storia dell'arte, con maggiore pregnanza che in qualunque altra sequenza cronologica, l'influenza del maestro sull'allievo o semplicemente di un'epoca sulle successive, è riconoscibile, evidente, spesso immediata. Nel 2020, a cinquecento anni dalla prematura morte di Raffaello Sanzio, potrebbe sembrare ingeneroso ricordare le profonde influenze accettate o subite dal maestro di Urbino; infatti, Raffaello sino al periodo della maturità a Roma, fu influenzato profondamente dai pittori più anziani e più affermati, a partire dal suo stesso maestro Pietro Perugino per passare dai due grandi Michelangelo e Leonardo. E anche durante i lavori alle stanze di Giulio II la parallela attività di Michelangelo nella Cappella Sistina finì per modificare e correggere in chiave dinamica e drammatica lo stile dell'ancor giovane pittore.

Raffaello usò a proprio vantaggio e con rarissimo equilibrio la profonda conoscenza delle maniere altrui in una delle sue opere più note, la Deposizione di Cristo, oggi conservata al Museo Borghese di Roma, scomparto centrale di un polittico destinato a Perugia (dove rimase solo per alcune decine di anni), la cosiddetta Pala Baglioni del 1507.

Il quadro, un olio su tavola, è considerato tra i capolavori di Raffaello prima di Roma, cioè prima dell'incarico di Giulio II per le stanze vaticane. Nel 1506 Raffaello ha appena 23 anni, ma è a capo a Firenze di una bottega che lavora bene e che si è specializzata in immagini della Madonna. Il pittore è stato allievo di Pietro Perugino ed è proprio nella città del maestro che la potente famiglia Baglioni lo incarica di una pala da collocare nella chiesa di San Francesco per ricordare il giovane Federico Baglioni, assassinato a seguito di una paurosa sequenza di delitti in famiglia (tipica di quel tempo che oggi ci sembra felice).

Per una volta, possediamo molti disegni preparatori che, a partire dal 1506 per concludersi l'anno dopo, rivelano le scelte, i ripensamenti, i cambiamenti, gli spunti su cui il pittore lavora, sicuramente in compagnia della committenza, la famiglia Baglioni, rappresentata da Atalanta, la madre di Federico detto Grifonetto, e da Zenobia Sforza, la vedova.

La scelta finale del tema, non frequente, è il Trasporto di Cristo al Sepolcro, troppo spesso confuso anche nelle titolazioni ufficiali con la Deposizione o con il Compianto. Non intendo in questa sede soffermarmi su questo problema, ma è da notare che i primi schizzi di Raffaello, che si lascia ispirare dal maestro Perugino e, alla lunga, anche da Giotto, manifestano la volontà precisa di porre in primo piano il cadavere di Cristo, e il pianto di Maria che lo accoglie, in un Compianto; l'opera finale è invece palesemente un Trasporto.

 

 

 Il compianto su Cristo morto in Giotto, Perugino e in uno dei primi schizzi di Raffaello

 

La successione degli schizzi, oggi purtroppo proprietà di musei diversi, ci fa intuire forse le mosse dei committenti ma anche le influenze artistiche, che Raffaello non ha intenzione di mascherare, ben conscio che una cosa è imitare, un'altra perfezionare. 

 

 

 

 

  

Gli schizzi del 1506 di Raffaello per la Pala Baglioni

  

Si noterà nella sequenza proposta che il cadavere dapprima appoggiato a terra viene progressivamente a sollevarsi, sorretto prima da un facchino e poi da due. Lo studio delle pie donne è invece alterno e si può rimarcare che se all'inizio erano a terra ora anche loro si sono alzate, in corrispondenza del sollevamento di Cristo, tranne una che resta in ginocchio davanti alle altre.

In uno degli schizzi appare anche una straordinaria sequenza di studi di volti, destinati a ritrarre Nicodemo, in parte simile agli studi che Leonardo da Vinci incessantemente portava avanti per connettere le espressioni e la fisionomia.

Sollevando il cadavere, che ora non è più deposto ma trasportato, Raffaello gli fa assumere una posizione che già altri artisti avevano scelto, facendo cadere a piombo il braccio; è una soluzione che risale addirittura a un sarcofago romano del secondo secolo, con la mitica morte dell'argonauta Meleagro. Il braccio di Meleagro è stato ripetutamente imitato per descrivere efficacemente il crollo fisico, verso il basso, di un cadavere; ancora nel XVIII secolo David lo attribuirà al corpo senza vita di Marat. Ma Raffaello ha un modello più vicino, che forse conosce di persona o tramite i disegni di altri, la Pietà Vaticana del 1501. Il braccio è una evidente citazione, ma la disposizione a forbice delle gambe è ancor più strettamente ispirata a quella michelangiolesca; Raffaello la fa propria a partire dallo schizzo del 1507.

 

 

 

La morte di Meleagro nel bassorilievo romano,
a confronto con il primo relativo schizzo di Raffaello e con la Pietà vaticana

Non esistono cronache precise di quanto accadeva a monte delle scelte del pittore, se fu lui a cambiare idea o se non fosse la famiglia Baglioni a condizionarlo. Possiamo oziosamente immaginare che siano state Atalanta e Zenobia a dettare nel corso del tempo le rispettive posizioni, dal momento che Maddalena-Zenobia prenderà il posto centrale e Maria-Atalanta si ritroverà svenuta sullo sfondo, con il cadavere portato al sepolcro da un aitante Grifonetto-facchino, poderosa figura che si aggancia specularmente alla moglie. Di certo il ruolo della Madonna cambia, diventa secondario; al centro ora è Maddalena, e ancor più centrale e potente è la figura del facchino.

C'è infine da segnalare la figura di donna inginocchiata a sorreggere la Madonna, una figura insolita, di spalle; è palese anche qui la citazione della Madonna michelangiolesca del Tondo Doni, in questo caso una citazione potrei dire libera di significati, forse un omaggio all'originalità di quella strana torsione del busto.

  

Il Tondo Doni con la figura di Maria accovacciata e il disegno di Raffaello per la Pala Baglioni

 

Caravaggio, le prime opere sacre a Roma

Alla fine del Rinascimento un personaggio del tutto diverso dall'empatico e amabile Raffaello sarebbe emerso come protagonista dell'arte romana, il rissoso e selvaggio Caravaggio. Non ultima tra le divergenze dei due pittori va segnalata proprio l'influenzabilità, tanto costruttiva ed evidente per Raffaello quanto negata e dileggiata per Caravaggio. Possiamo sicuramente definire nuovo e rivoluzionario il pittore milanese, ma con pari sicurezza possiamo anche individuare profonde influenze nella sua produzione.

Il vero problema per gli studiosi di Caravaggio sta peraltro nel buio quasi completo che avvolge la sua giovinezza trascorsa a Milano, di cui si conosce solo l'apprendistato presso Simone Peterzano. Ci sono tre o quattro anni, tra il 1588 e il 1592 circa, che sfuggono alla ricerca biografica e lasciano campo aperto agli studiosi, soprattutto a quelli pieni di fantasia, per ipotizzare viaggi, conoscenze, relazioni, traumi e altre basilari componenti di un carattere.

Di sicuro, Caravaggio conobbe l'opera di Tiziano, di cui Peterzano era stato allievo, e dei grandi veneti del Cinquecento, tra cui Tintoretto; a Milano come a Bergamo come a Verona la pittura veneta era a fine secolo sicuramente la più in auge. Che Caravaggio intorno ai vent'anni d'età sia stato a Venezia con Peterzano o da solo, poco importa: a mio parere non ci sono dubbi che abbia conosciuto e apprezzato l'opera di Tintoretto, se non il maestro in persona (morto nel 1594), direttamente a Venezia. E tra centinaia di opere una dovette piacergli molto, non a caso considerata tra i capolavori di Tintoretto: Il miracolo dello schiavo, una grande tela di 5 metri per 4 datata 1548.

Si tratta di un'influenza poco studiata e che personalmente trovo palese: Caravaggio ripete lo schema del Miracolo in una delle sue tele più celebri, Il martirio di San Matteo. Che lo faccia consapevolmente, colpevolmente o inconsciamente, di nuovo non importa: l'influenza artistica è a volte dichiarata, a volte subdola, a volte segreta, ma c'è. I due quadri raccontano storie diverse, hanno luci diverse, e diverso è anche il loro stesso significato, da un lato la luce della vita, dall'altro le tenebre della morte, eppure Caravaggio ripropone proprio il diagramma del Miracolo. A mio parere, c'è una sola spiegazione, che per Caravaggio quello schema è potente, è teatrale, è perfetto; in altre parole, quello schema funziona.

 

Il Miracolo della Schiavo di Tintoretto e Il martirio di San Matteo di Caravaggio

Intorno al corpo steso per terra, una folla di spettatori, tra i quali rispettivamente i due pittori. A destra una figura di spalle con un braccio poggiato a terra, in alto un deus-ex-machina che piomba dal cielo capovolto, al centro il carnefice, stupito e reso imbelle in Tintoretto, spietato e sadicamente concentrato in Caravaggio. Tintoretto costruisce un'architettura monumentale come scenario, Caravaggio lascia ai soli personaggi la strutturazione dello spazio, e questo è un dato costante nella sua produzione, l'attenzione esclusiva agli esseri umani.

Proprio quest'ultima considerazione avvicina il grande milanese al modello di tutti, l'altro Michelangelo, che egualmente minimizzava paesaggi e sfondi architettonici nelle sue (poche) opere pittoriche.

Caravaggio cita Michelangelo ripetutamente, nelle forti muscolature di vari personaggi, nei gesti perentori di alcuni, nella mano di Cristo che chiama Matteo o che resuscita Lazzaro, ma in due casi la citazione è clamorosa e, come per Tintoretto, soltanto compositiva. Si tratta dei due affreschi di Michelangelo nella vaticana Cappella Paolina, La conversione di Saulo e Il martirio di Pietro, riproposti da Caravaggio nella Cappella Cerasi di Santa Maria del Popolo.

Lo stile dei due pittori, le figure e i colori, le dimensioni e la tecnica, tutto è diverso e non confrontabile, ma le composizioni sono quasi uguali. Caravaggio riprende e avvicina enormemente il centro dei quadri di Michelangelo, lo ricostruisce, se ne fa influenzare e lo inventa di nuovo. Saulo caduto da cavallo è investito dalla luce di Cristo e diventa cieco; il cavallo visto di spalle è un richiamo preciso di Caravaggio al maestro. E nella crocefissione di Pietro il movimento della testa dell'apostolo, la posizione dell'aguzzino che di schiena sostiene la croce, la diagonale su cui si costruisce la scena, sono di nuovo citazioni esplicite.

 

Conversione di Saulo di Michelangelo e di Caravaggio

 

 

Crocifissione di Pietro di Caravaggio e di Michelangelo
 

Caravaggio usa un piano ravvicinato, si accosta alle poche figure sino a toccarle, mentre Michelangelo apre le porte a grandi folle, ammassi umani che ricordano gli eventi biblici; Caravaggio spinge la luce radente sui corpi e lascia neri gli sfondi, Michelangelo usa le luci soffuse e disperse tipiche del Rinascimento, i colori chiari. Sono due maestri lontani, diametralmente opposti alla relazione diretta tra Raffaello e Michelangelo, ma in entrambi i casi il secondo vede nel primo un modello cui fare riferimento, dettagli da studiare, per poi procedere sulla propria strada.

Nella storia l'influenza dell'altro, del maestro, che sia Michelangelo o Rembrandt o Picasso, è potente, l'ammirazione lascia il posto alla rielaborazione, ma all'origine qualcosa resta intatto e visibile. E si potrebbe continuare all'infinito con questi confronti, non sarebbe mai inutile. Il pittore, o lo scultore, vive la propria vocazione come un continuo omaggio a se stesso e ai propri maestri e, come diceva Borges di Kafka, crea i propri precursori.