Antonio Scurati, Il tempo migliore della nostra vita

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Antonio Scurati

Il tempo migliore della nostra vita

 

Milano, Bompiani 2016, 
ISBN-13 : 978-8845282423, 
€ 12

 

 

Ho letto soltanto ora, nel 2020 annus horribilis, Il tempo migliore della nostra vita di Antonio Scurati, un libro che nel 2016 ha vinto il Premio Selezione Campiello e il premio Viareggio, consacrando l'autore tra i più rilevanti scrittori italiani di oggi. La sinossi del libro potrebbe essere questa: "La vita di Leone Ginzburg raccontata in parallelo con quella dei nonni e dei genitori dell'autore e con la storia d'Europa dal primo dopoguerra alla seconda guerra mondiale".

Chi era Leone Ginzburg? Nella mia generica ignoranza lo sapevo marito di Natalia Levi, ovvero la scrittrice Natalia Ginzburg, traduttore di Tolstoj presso Einaudi e vittima del nazifascismo. Ma Leone Ginzburg è stato un uomo immensamente più importante, uno di quei rari protagonisti la cui integrità morale sta al pari della straordinaria cultura. La limitata conoscenza che abbiamo di lui si deve certamente alla scarsezza della produzione letteraria, dovuta in parte all'intensa attività di redattore e traduttore in Einaudi, e in parte alla perdita di parecchi suoi lavori durante la guerra.

Antonio Scurati restituisce quindi alla cultura italiana un grande personaggio, di fatto uno dei fondatori della più prestigiosa casa editrice italiana, un implacabile intellettuale antifascista, un giovane professore universitario che rifiutò di giurare fedeltà al fascismo nel 1934, un attivista che con risolutezza cercò di organizzare l'opposizione al regime, e per questo venne ripetutamente incarcerato, perseguitato e infine messo al confino, un uomo che nel 1945 sarebbe stato torturato e picchiato a morte dai nazisti nel carcere di Regina Coeli.

Come è nel suo stile di narratore storico (negli ultimi anni immerso nella ricostruzione della vita di Mussolini), Scurati ha in mano miriadi di documenti e li utilizza per ricostruire mondi, vite, case, famiglie. Leone Ginzburg, di origine russa (anche se forse figlio naturale di Renzo Segré), si sentiva profondamente italiano, e la sua vita da adolescente e adulto si innesta nella Torino del ventennio fascista nella quale, con maggiore o minore coraggio, si muovevano tanti intellettuali antifascisti, personaggi che ritornano qui come nel celebre romanzo di Natalia Ginzburg, Lessico famigliare. Appaiono come figure di sfondo, ma non di margine, il grande amico Cesare Pavese, Norberto Bobbio, Franco Antonicelli, Vittorio Foa, Carlo Levi, Massimo Mila, Luigi Salvatorelli e in ultimo nel carcere a Roma Sandro Pertini.

Il ritmo di questo romanzo-biografia è scandito dalle vite parallele dei Ginzburg e degli Scurati, insieme alle varie famiglie del ramo materno dello scrittore. Durante la guerra lo schema si complica e diventa martellante, al fronte le battaglie, le invasioni naziste, l'armistizio, l'assedio di Stalingrado, qui le vicende di Leone sino alla morte e le vite dei parenti dell'autore a Milano come a Napoli sotto le bombe. Anche lo scrittore stesso entra tra i personaggi, in un breve capitolo che si chiama "Io", e ancora e soprattutto interviene in prima persona alla fine del libro.

Gli ultimi capitoli di questo grande libro regalano al lettore, infatti, le emozioni maggiori. A conclusione della biografia, Scurati pubblica l'ultima struggente lettera di Ginzburg, ormai moribondo, a Natalia.

Leone, che proprio attraverso la corrispondenza epistolare aveva consolidato l'amore con Natalia molti anni prima, scrive alla moglie dal carcere, consapevole che con ogni probabilità non ne sarebbe uscito vivo. Evita di parlare di sé, ma il presagio della morte è nitido, incombente; il saluto ai tre piccoli figli e alla donna amata non vuole suscitare pietà, ma coraggio. Quando Natalia nel suo Lessico parlerà di lui, farà lo stesso, con un senso del pudore e della riservatezza che oggi suonano quasi stonati, nel mondo spudorato e denudato di valori che ci troviamo ad abitare.

Infine, nel capitolo "Il libro finisce", Scurati commenta e confronta i nostri tempi di uomini "senza la guerra". Ed è difficile, per chi come me ha spesso rimuginato gli stessi pensieri, non condividere e citare alcune righe di questa straordinaria e amara riflessione:


È questo stesso assurdo struggimento che ci coglie – confessiamolo – quando pensiamo alla Resistenza. Noi, nati e cresciuti decenni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, nel periodo più pacifico e prospero che l’Europa occidentale abbia conosciuto, noi figli del pezzetto d’umanità più protetto, agiato e longevo che abbia mai calcato la faccia della terra, proprio noi arriviamo a provare nostalgia per quella stagione tragica, per quella lotta formidabile ma terribile che non abbiamo vissuto. E’ indubbiamente un pensiero frivolo, forse addirittura una mancanza di rispetto verso il dolore altrui ma è il pensiero di chi ha vissuto esistenze oziose, è l’abbaglio che ci rappresenta, in cui si specchia il nostro perfido, cosiddetto benessere, e con questo dobbiamo fare i conti. Nelle nostre serate tristi, in coda a vite grigio perla, stravaccati sul divano del salotto davanti a un televisore acceso su di un canale morto, con un ultimo sussulto prima di andare a letto, pur non avendo noi nessuna vittima da rimpiangere, concepiamo lo sproposito che quello – quello delle persecuzioni, delle ribellioni, dei milioni di morti e della lotta contro un nemico mortale – quello avrebbe potuto essere il tempo migliore della nostra vita.

È lo sproposito di chi non ha mai avuto altro che pace. Rimpiangere il tempo della storia, questo il destino beffardo di chi non ha destino perché vive al tempo della cronaca. La cronaca è diventata, infatti, il criterio generale del nostro sentimento del tempo. Misuriamo su di esso, esclusivamente su di esso, le nostre esistenze. Ed è un metro corto. Da qui quell’altrimenti ingiustificabile senso di oppressione, quell’irosa sensazione di peggioramento che è la speciale condanna toccata a un’umanità sotto ogni altro aspetto privilegiata. La vita, se vissuta nell’orizzonte angusto della cronaca, si cronicizza in una malattia inguaribile di lungo decorso. Si tradisce così il senso tragico della lotta altrui e si smarrisce ogni senso della propria lotta. Non ci sono nazisti al tempo della cronaca, soltanto delinquenti comuni e serial killer.

Eppure, noi che viviamo in questo tempo qui, proprio siamo noi l’avvenire facile e lieto in cui Natalia Ginzburg aveva avuto fede e che l’aveva amaramente illusa. Per quanto deludenti, indegni, siamo noi quell’avvenire.