Francesco Pecoraro, La vita in tempo di pace

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Francesco Pecoraro

La vita in tempo di pace

 

 

Milano, Ponte alle Grazie, 2013

pp. 512, ISBN 978-88-6220-967-0,
€ 16,80

 

 

 

 

 

 

 

Nell’ultimo giorno cosciente della sua vita, Ivo Brandani – «perseguitato dal senso della catastrofe», per come è presentato fin dalla prima riga (p. 9), e da quel mal di testa che gli sarà fatale –, mentre si muove in stato di sospensione tra sale d’aspetto ed aerei nei non luoghi della postmodernità, mentre si abbandona al desiderio di andarsene dove che sia, come peraltro ha sempre fatto nella sua vita, lascia che i ricordi affiorino imperiosamente, con le nostalgie e i rimpianti, le rabbie, i risentimenti, gli improperi. Così nel bel romanzo di Francesco Pecoraro – «storia di un mondo che sta per finire», come è aggiunto sulla copertina – ai capitoli che monitorano l’attesa angosciata, computando il tempo che resta, misurando con impazienza il ritardo e la resa, si alternano capitoli che sono in realtà consuntivi di frustrazioni passate e di felicità forse mai davvero possedute e comunque perdute, ricomposizioni a ritroso di aspettative confuse, speranze e disillusioni. Alla fine il bilancio non può che essere fallimentare, come sempre sono i bilanci al cospetto dello sfacelo ultimo, che qui non è solo quello di una vicenda personale, ma di un intero in decomposizione.

Con un significativo capovolgimento di prospettiva, il Prologo inizia la narrazione evocando la decadenza irremissibile e anzi la devastazione della fine di un impero, quel mondo bizantino precedente all’inizio della modernità, quell’oriente prossimo da cui sembra non venire più luce; l’Epilogo conclude invece con il vero inizio della storia, con la città appena liberata, il padre che torna dalla guerra e ritrova la moglie e la figlia salve, con quella promessa di vita rinnovata di cui Ivo Brandani è il figlio. Ora è un vecchio maschio in disarmo e in viaggio su un volo delle linee aeree egiziane, l’ingegnere che aveva iniziato i suoi studi a Filosofia, figlio di quel dopoguerra fiducioso, ma anche duro e crudele, ucciso a sessantanove anni dalla Naegleria fowleri, il parassita che mangia il cervello, un’ameba che prospera nel fango e nelle pozzanghere e che probabilmente aveva inoculato durante un sopralluogo nella zona del delta del Nilo, emblema verminoso di corruzioni e degradi. Questi ultimi sono simbolicamente rappresentati dalla caduta di Costantinopoli, per lui ancora oggetto di ossessioni, evocata nelle prime pagine e magistralmente descritta come un ribollire di microbi e virus; o dalla morte ripugnante di Erode, che da bambino aveva appreso al catechismo, collegandola con le sue stesse vicende viscerali. Fascinoso a suo tempo, ora portatore malsano di un corpo sfatto a lui stesso inviso, la sua vita interamente vissuta in tempo di pace è stata in realtà una lotta continua.

Lui stesso è sempre stato il luogo dello scontro, lui ingegnere strutturista, faber affascinato dall’eleganza dei ponti per gli impliciti percorsi estetici e teoretici delle scorie e dei fermenti depositati dal «letame filosofico» (p. 114), ma un progettista che non progetterà mai nulla, né costruirà alcunché, restando nient’altro che una specie di «faccendiere tecnico» (p. 81); lui che adora le macchine perfette da guerra come lo Spitfire, «il Ben Fatto del Novecento, la forma perfetta nata dalla necessità di prevalere sul nemico» (p. 72), ma che combatte ogni stizza e risentimento con dosi massicce di ansiolitici; lui che partecipa alle lotte studentesche della fine degli anni Sessanta, ma sempre in disparte e in genere nella postura pavida di chi scappa per non farsi inguaiare; lui che vaneggia di non piegarsi («non mi avrete mai» risuona nel testo come un ritornello) ma che in realtà si colloca quasi sonnambolicamente come una rotella dell’ingranaggio «nella grande Catena dei Sì» (p. 95); lui figlio di un padre iracondo e di una madre accogliente, secondo il cliché imperante nell’educazione dei maschi del dopoguerra, cliché che insieme detesta e riproduce; lui che lascia sole le sue donne, meritando così di esserne abbandonato; lui sedotto dal miraggio dell’isola greca incontaminata, rifugio perfetto e utopico di cui osserva l’inesorabile degrado, e insieme complice dei disastri imposti ad una natura che muore nel polmone vivente e feroce del mare, dove i pesci finiscono per scarseggiare e perfino la barriera corallina del Mar Rosso deve essere ricostruita in resine plastiche, diventando così una post-natura fake che maschera ossari reali.

In fondo il romanzo racconta la costernazione del: ‘che cosa siamo diventati’ in un linguaggio scintillante e greve che alterna esaltazioni e disfatte, accelerazioni e rinculi, tra l’ottimismo di fondo degli anni Cinquanta e l’estremismo apocalittico delle decadenze successive. Ivo Brandani ne è corresponsabile, ma in qualche modo innocentemente, come quando è proprio lui il funzionario pubblico appena assunto, che deve contrastare senza mezzi e senza personale la maledizione del clima impazzito che porta monsoni devastanti sulla città eterna al tempo di una spaventosa piena del fiume (qui è rievocata certamente quella del Tevere nel novembre 2012), piena che nel romanzo diventa una vera e propria esondazione, con il centro storico sott’acqua come avveniva prima della costruzione degli argini ottocenteschi. Ivo Brandani non è certo mai stato uno scalatore sociale opportunista, la prova è nei licenziamenti subiti, nelle aziende fallite presso cui ha lavorato, ma si è lasciato tentare lo stesso dalla competizione e dal potere, come tutti gli altri mediocri e inerti che non hanno lottato in prima persona, «ma per interposta e potente organizzazione militare»: 

sembrano come svuotati dalla pace… Vogliono pace e ancora pace, per sempre… Non che siano contro la guerra, anzi: la guerra va anche bene, purché sia lontana e non troppo onerosa, purché serva a garantire pace in casa e presidio delle fonti d’energia e sicurezza nei luoghi dove andiamo in vacanza… (p. 224).

La Pace è guerra di tutti contro tutti: poca la violenza fisica, ma la lotta è maligna e crudele, nel doversi fare spazio, nel lottare per ottenere una parte anche piccola delle risorse disponibili, o un po’ di potere, per quelli a cui interessa… Una guerra senza eroi, combattuta a botte di cocaina, di alcol, di anti-depressivi, di ansiolitici, di sigarette strafumate… (p. 226).

 

Ivo Brandani non è neanche un anti-eroe, è solo un non-eroe, un non-dominante, uno che non crede a nulla, «uno-che-molla, uno che per lui niente conta, se non restare in vita nelle migliori condizioni possibili… […] specifico organismo prodotto dal Tempo di Pace» (p. 229).

È in fondo sempre la sopravvivenza a vincere o semplicemente l’esito catastrofico di un’entropia infausta, nel continuo conflitto messo in scena e che alimenta tutte le impasse e le antinomie all’opera nel romanzo. L’aporia fondamentale è quella tra il pensare e il fare, la riflessione e la produzione, l’homo sapiens e l’homo faber, i due registri tra i quali il protagonista costantemente oscilla, con significativi slittamenti e depistaggi, come nel caso dei suoi maestri universitari al tempo degli studi in Filosofia, che si chiamano come grandi imprenditori di gruppi aziendali di successo (per esempio l’ammirato e temuto ‘barone’ Molteni – dietro al quale forse è adombrato Lucio Colletti – che cinicamente discetta sulla fine della filosofia), mentre viceversa è un saggio di Georg Simmel (il celebre Brücke und Tür), dove si insegna a separare ciò che è unito e a collegare ciò che è separato, a decidere per il suo passaggio a ingegneria, nell’intenzione di diventare un pontifex.

Anche la Città di Dio, sfondo di tutti gli scoramenti, la Roma sempre un po’ temuta e ammirata con sospetto, che emerge da un ribollire luciferino di vulcani, dai disordini neanderthaliani e dagli antichi culti pagani, nonostante i suoi ponti primigeni, i riccioli barocchi delle sue chiese e le geometrie (già sistine) dei quartieri bene, questa Roma sempre di nuovo in mostra nei suoi scenari stupefacenti e nelle sue bassezze più volgari non crede ormai più a niente ed è solo accozzaglia informe e selvaggia, sfasciume infame di materia urbana vomitata dai palazzinari, incuria e corruzione elevati a sistema. Sorvolando in aereo la penisola nello stato febbrile della sua «collocazione terminale nel mondo» (p. 455), Ivo Brandani vede il massacro del territorio che somiglia ad un’enorme discarica, con le montagne sventrate dalla hybris costruttiva, e ripensa alla sua vita e alle sue scelte con la certezza di aver sbagliato tutto: sarebbe stato meglio darsi alla parola inutile, piuttosto che alla costruzione demolitrice, essere un buon professore di scuola, un buon impiegato, piuttosto che un tecnico titubante e depresso (cfr. pp. 501-502).

Forse è solo una fantasia di chi scrive, ma già nella scelta del nome per il suo personaggio Francesco Pecoraro sembra enunciare la diplopia e lo stallo di quella vita in tempo di pace che descrive così bene nei suoi sfiniti combattimenti. Ivo Brandani non si chiama certamente così per caso. Le spirali che coronano la lanterna della celebre cupola borrominiana alla Sapienza, evocata nel romanzo solo di passaggio perché teatro di manifestazioni situazioniste nel Sessantotto (cfr. pp. 253-254), sono forse un emblema dell’aspirazione mancata alla sapienza, e perciò dell’abbandono capovolto al gorgo e all’ingorgo del viscerale. Il viaggio a nord ovest da Sharm el-Sheikh a Roma, dal Sinai alla Città di Dio, non è certo il viaggio verso la terra della luce, quel paradiso terrestre di San Brandano, che con i suoi monaci mappava il mondo nuovo approdando già forse nell’alto medioevo in Groenlandia, ma la mesta ricognizione dello sfacelo di un contesto deteriorato che sta collassando. La vita in tempo di pace agogna ancora alla sapienza, ma la sa incerta e manchevole, naviga ancora verso il mondo nuovo nel dubbio che sia paradisiaco o infernale, e intanto combatte e perde le sue schermaglie, abbandonandosi, come sempre, al naufragio.