Norberto Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace

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Norberto Bobbio

Il problema della guerra e le vie della pace

 

Bologna, il Mulino, 1997

pp. 163, isbn 978-88-15-13300-7, € 12,00

 

 

 

 

 

Ѐ sempre utile riprendere in mano un vecchio saggio di Norberto Bobbio, pubblicato in un’era lontana, nel 1979, quando ancora imperversava la guerra fredda e il mondo era diviso in due blocchi contrapposti. Il problema della guerra e le vie della pace è il titolo del saggio, strutturato in quattro parti (“Il problema della guerra e le vie della pace”, “Diritto e guerra”, “L’idea della pace e il pacifismo” e “La non violenza è un’alternativa?”), che nelle successive edizioni (1984, 1991 e 1997) l’Autore piega dinamicamente alle contingenze storico-politiche.

Il filosofo torinese compie una lunga disamina delle filosofie della storia che hanno sempre prosperato sulla fatalità e sul fascino delle guerre, dando per acquisito che ogni guerra è una necessità o un evento irreversibile. «La guerra è sempre stata uno dei temi obbligati e prediletti di ogni filosofia della storia, per i caratteri della terribilità e della fatalità, che sembrano o sono quasi sempre sembrati ad essa inerenti» (p. 31). Nell’atteggiamento di fronte alla guerra Bobbio distingue i realisti, i fanatici, i fatalisti, i nichilisti e i mistici (pp. 43-45): la guerra non appare diversa da altri eventi catastrofici naturali (p. 8), talvolta viene giustificata come castigo divino (p. 12); la tentazione di uccidere aumenta con la sicurezza di non essere uccisi (p. 16). E giunge alla conclusione che il nostro universo morale è fragile e provvisorio. Non c’è una sola questione su cui si possa arrivare ad un accordo. Nemmeno tra i filosofi c’è un comune pensare. L’aspetto più preoccupante è che l’etica dei politici continua ad essere un’etica della potenza che si è sempre nutrita dei miti ancestrali della violenza e del sangue (p. 97). Il progresso tecnico e militare ha portato il genere umano alla possibilità di una guerra termonucleare, la quale, non potendo assolutamente essere paragonata alle guerre che finora si sono verificate, ci pone di fronte ad una vera «svolta storica».

Quest’analisi risente molto del clima che si respirava in quei decenni, ma lo sguardo di Bobbio è molto più avanti quando tenta di aprire nuove vie che possono portare invece ad una filosofia della pace. Con la minaccia della guerra atomica, il mondo non è più lo stesso. Essa non è più paragonabile alle guerre del passato. Nella prima edizione del saggio, datata 1979, Bobbio si richiama esplicitamente al libro di Günther AndersEssere o non essere. Diario di Hiroshima e Nagasaki, apparso da Einaudi nel 1961, che invita a pensare in modo nuovo le nozioni di guerra e di pace, perché dopo Hiroshima e Nagasaki l’umanità entra in quella che si è soliti definire «era atomica». Si comincia allora a prendere coscienza che le potenzialità distruttive delle armi create dall’uomo sono arrivate a un punto tale da mettere a rischio la sopravvivenza stessa della specie umana, o perlomeno hanno generato la consapevolezza che ci si trova di fronte alla possibilità di inediti scenari di distruzione su scala planetaria. Se lo scopo di ogni guerra è la vittoria, la guerra termonucleare, a differenza delle guerre passate, potrebbe invece non permettere una distinzione tra vincitori e vinti e portare l’umanità all’estinzione. «Sinora il compito della filosofia della storia è stato quello di giustificare […] la guerra. Non siamo giunti forse al punto in cui spetta alla guerra, alla guerra atomica, dico, il compito di ingiustificare la filosofia della storia, o per lo meno di capovolgere il senso, cioè di fare della filosofia della storia non il processo, per eccellenza, di razionalizzazione del corso storico dell’umanità, ma, al contrario, la dimostrazione della sua assurdità?» (p. 32).

Questa è la tesi dell’intera argomentazione del libro, che innerva un nuovo punto di vista, condiviso dall’Autore: occorre eliminare dal nostro orizzonte di pensiero qualsiasi forma di finalismo. Come un labirinto, anche la storia può procedere per vie bloccate o per strade senza uscite rispetto alle quali si è costretti a tornare indietro poiché il regno dell’uomo è «il regno della contingenza assoluta, dove tutto ciò che avviene, essendo il prodotto della libertà dell’uomo, sarebbe potuto anche non avvenire» (p. 35) e da cui si dipanano altre questioni non meno radicali che investono ad esempio il tema della violenza e quello dei diritti umani, pensati come limite al potere devastante di un grande Leviatano. Ma si può costruire davvero una filosofia della pace? Con questo interrogativo, Bobbio non si sottrae ad una riflessione più che mai provocatoria attingendo alla grande lezione di Kant e del nostro Capitini. «Kant avrebbe detto che dobbiamo operare per la pace universale anche se non sappiamo ‘se la pace perpetua sia una cosa reale o un non senso’, cioè dobbiamo agire sul fondamento di essa, come se la cosa fosse possibile» (p. 49).

L’Autore propone un irrinunciabile atteggiamento di pacifismo attivo, il quale consisterebbe nel negare in modo totale ogni ricorso a conflitti armati, affermando così una profonda fiducia negli effetti pratici che possono discendere dall’utilizzo delle capitiniane tecniche nonviolente. In altri termini, il pacifismo attivo presuppone la critica delle tradizionali giustificazioni della guerra e trova il suo sbocco nell’azione per eliminare la guerra. La riflessione di Bobbio è articolata e complessa perché sa perfettamente che il progetto kantiano è tutt’altro che ingenuo e nient’affatto impregnato di sogni utopistici, ma si innerva nell’approccio hobbesiano, nel senso che la guerra è la cifra originaria della condizione umana.

Il capitolo terzo del saggio, “L’idea della pace o il pacifismo”, si muove entro queste coordinate che assumono ogni definizione della pace come dipendente dalla definizione di guerra. Pace e guerra, osserva Bobbio, non sono valori assoluti, ossia rispondenti al Bene assoluto o al Male assoluto, ma relativi o estrinseci, che crescono da un disincantato realismo che impone la sorveglianza della naturalità e costringe a sviluppare la ragione. Il saggio si conclude con un ulteriore problema che sta a cuore al filosofo torinese: se la non violenza può essere un’alternativa oppure no. Coerentemente con le sue analisi precedenti, Bobbio ritiene che la violenza, anche se suscita orrore, è un dato originario, anche la storia è un prodotto della violenza. Ciò non toglie che dobbiamo provare a riconoscere che esiste un’alternativa alla violenza, altrimenti non avremo nessun argomento per confutarla. Sulla scia di Gandhi, egli ammira le tecniche della non violenza, ma non crede che siano efficaci, perché queste tecniche paralizzano l’avversario, ma non lo riducono all’impotenza. Egli si dice «perplesso», e non «persuaso» come lo era invece Aldo Capitini, di cui ricorrono in questi giorni i cinquant’anni dalla morte. Realisticamente servono nuove istituzioni e nuovi strumenti di azione per risolvere conflitti senza per questo ricorrere alla violenza. Sarà davvero possibile?