Silvia Vizzardelli, Io mi lascio cadere

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Silvia Vizzardelli

Io mi lascio cadere
Estetica e psicoanalisi

 

 

Macerata, Quodlibet Studio, 2014

pp. 133, ISBN 978-88-7462-645-8, € 16,00

 

 

 

 

 

 

Far rotolare a valle la valanga. È un modo di dire, quasi un luogo comune, per indicare l’esperienza rovinosa della caduta, del lasciarsi andare giù, del precipitare nel vuoto. Si può esplorare il senso di questa espressione? Etimologicamente “cadere” significa precipitare dall’alto in basso senza ritegno, portati dal proprio peso. Andar giù, scendere, venir meno. Cadere è un termine che si usa in luogo di “occorrere”, “venire”, “incorrere”, “pervenire”, sempre però sottintendendo l’idea di un moto materiale o intellettuale dall’alto al basso. Si cade nell’animo, nel pensiero, nel mal d’amore,nella malinconia, nella depressione. Masempre da un’altezza verso una profondità abissale. Nella pagina iniziale della sua Vita scritta da sé medesimo, il filosofo napoletano Giambattista Vico ricorda la sua caduta dalla scala all’età di sette anni che gli provoca l’acutezza d’ingegno, ma anche un’inevitabile propensione alla malinconia. Questa annotazione autobiografica è sintomatica perché l’atto del cadere modifica la sua tipologia caratteriale e si imprime in maniera traumatica come un timbro o un marchio a vita nella storia di una persona. La caduta può essere una condizione di godimento o un modo di dare forma al movimento e non necessariamente un cedimento? Il volume di Silvia Vizzardelli, Io mi lascio cadere, affronta in undici capitoli il discorso sulla caduta oltre le barriere: cadere non significa solo precipitare o abbandonarsi, ma implica anche un assenso, un’adesione, perché c’è sempre un momento in cui si deve decidere di cadere, più che nel vuoto o nell’abisso, nella propria intimità o per entrare in contatto con la propria autenticità. Ecco perché lo scivolare vichiano dal gradino di una scala è sempre un’esperienza traumatica o sintomatica, acquista una propria forma perché evoca anche un lasciarsi riconoscere, un farsi accettare nell’urgenza del vivere. 

Il gesto di cadere ha a che fare con una particolare esperienza della temporalità che salda insieme il movimento in avanti dell’invocazione e quello terminale della depo­si­zione. Qualcosa di molto complesso quindi, a dispetto della giustificatissima impressione di aver davanti l’esperienza più semplice e l’atto più istantaneo che si possa immaginare. Nessuna istantaneità e immediatezza è qui in gioco; piuttosto occorre dislocare l’esperienza del tempo sui due versanti di una primitiva invocazione e di un definitivo conseguimento, per afferrare il senso della caduta e della deposizione. Dove il tempo dell’inizio e il tempo della fine si saldano, mantenendo però la profondità e la densità del loro differenziale, si verifica quella condizione che ha preso vari nomi nella storia del pensiero, da quello più generico e diffuso di precomprensione a quello più preciso e meno diffuso di certezza anticipata. È proprio qui che si cade, ci si posa (p. 10).

L’aspetto originale di questo acuto e penetrante saggio è che il lasciarsi cadere si situa in un incrocio fecondo tra la pratica analitica e la pratica estetica, in un punto di intersezione tra il racconto all’analista e la produzione dell’opera d’arte, a rimarcare l’idea che la falla provocata non è un baratro, ma un momento di creatività. L’unico modo di essere nelle cose è cadervi, afferma Silvia Vizzardelli, perché «non è dato alla natura umana di essere nelle cose, ma di cadere in esse» (p. 68) e da quest’angolo visuale l’immagine più prossima a quella di essere tra le cose è quella di un cadervi continuamente e quindi, in certo senso, di scivolarvi, si cade come corpi vivi in cose animate. È come se anche il lettore cadesse in qualsiasi capitolo del libro per afferrarne il senso, per sottrarlo all’immediatezza, per digerirlo. A questo tema è dedicato il settimo capitolo che riconfigura l’intero dispositivo concettuale del libro con puntuali ed espliciti rimandi a Freud e a Bion: «per poter cadere in un oggetto, bisogna poterlo sognare, bisogna cioè guadagnare quella distanza dal ‘bagno’ percettivo che ci permette di sentire il mondo come il nostro mondo, le cose come le nostre cose, il reale come una riuscita» (p. 69). In particolare, Vizzardelli propone sia la lettura del celebre saggio di Freud, Totem e tabù (1912-1913) sia quella del saggio di Bion, Learning from experience (1962) per evidenziare il circuito dell’esperienza psichica, dislocata come due gradini o come due livelli che si compenetrano reciprocamente. L’esperienza musicale, trattata nell’ultimo capitolo, La caduta e l’ascolto, rappresenta l’esempio più pertinente di questa continua oscillazione tra i due piani, tra i due gradini dell’esperienza umana, che si dà in quell’indissolubile intreccio tra attività e passività. Temi che Vizzardelli rinviene nei rarissimi scritti sulla fenomenologia dell’ascolto musicale di Günther Anders, il pensatore più eterodosso e antiaccademico del Novecento. Il lasciarsi cadere e il lasciarsi andare descrivono al meglio le caratteristiche dell’ascolto musicale come forma di attenzione situazionale che ad esempio la musica impressionistica di Debussy porta in piena luce. Come dire: io mi lascio cadere e nello stesso tempo mi abbandono alla fatalità del mio essere. Su questa linea Anders discute la categoria di situazione a partire dall’esperienza musicale. Perciò il tema della caduta «ha la natura di un sintomo, di un bisogno di compensazione. Il mondo in cui viviamo ci espone ad una condizione estrema di apertura, la rincorsa delle possibilità ci sottrae sempre di più l’oggetto da arpionare, trascina come su un nastro il nostro desiderio» (p. 14) e siccome nulla ci viene dato in pasto, il gesto del cadere rompe la postura verticale del soggetto che può trovare nel dislivello, nella piega, nella curvatura il vero ritmo, la vera pulsazione del suo esistere. Questo è lo snodo filosoficamente più rilevante, che l’Autrice sviluppa a partire dal primo capitolo, quando commenta alcuni versi della Decima Elegia rilkiana che dicono «della cosa felice che cade». Il grande poeta praghese, sottolinea l’Autrice, si interroga sulla natura della felicità e si chiede se essa sia davvero concepibile solo nei termini di un’ascesa, mentre ci «atterra sgomenti / per una cosa felice che cade». E proseguendo nell’esplorazione dei luoghi testuali del cadere, anche il passo di una lettera di Kafka all’amata Milena del novembre 1920 ci porta nel cuore della questione: «io cerco sempre di comunicare qualcosa di non comunicabile, di spiegare qualcosa di inspiegabile, di parlare di ciò che ho nelle ossa e che soltanto in queste ossa può essere vissuto» (p. 107). Psicoanalisi ed estetica interagiscono così sul terreno impervio della caduta e spezzano, d’un colpo solo, quel sacro legame tra la caduta e il peccato. C’è qualcosa al fondo della nostra esperienza di non spiegabile, di non comunicabile, che è una specie di energia che sentiamo viva nelle nostre ossa. Se la caduta produce una sorta di dislivello, ciò non vuol dire che sia un inciampo, ma una corrispondenza o una esemplare appropriatezza.