Salire o scendere?

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1.

Come sosteneva Eraclito, «Una e la stessa è la via all’in su e la via all’in giù». Ciò è plausibilmente fondato, se lo si considera da un punto di vista ontologico. In fin dei conti la strada per l’acropoli è sempre la stessa, comunque la si percorra, salendo o scendendo. Hen kai pan, al di là delle differenze nominali.

Ma, se ci spostiamo sul piano dell’esperienza psichica, le cose cambiano. Gaston Bachelard è stato illuminante, nella sua Poetica dello Spazio. Le scale che portano in cantina non solo sono diverse fisicamente da quelle che conducono in soffitta, ma sono sempre vissute in maniera opposta. Nei sogni, nelle memorie, nella letteratura, in cantina si scende sempre e in solaio sempre si sale. Mai al contrario, per quanto ciò materialmente avvenga. L’esperienza della cantina è sempre di una discesa, quella della soffitta è sempre una salita. 

Salire e scendere sono, alla fin fine, una stessa realtà o due esperienze distinte? Ritroviamo questa polarità interpretativa nelle rappresentazioni dell’arte grafica. Esemplari, ovviamente, i disegni di Escher. Le sue scale sono in salita o in discesa? L’uno e l’altro. O meglio, i gradini che scendono diventano gradini che salgono senza che se ne colga percettivamente il passaggio. D’altra parte, se si osservano le stampe di Piranesi sulle Carceri immaginarie, ci sono invece scale soltanto in una direzione evidente. Essendo carceri, non si sfugge. O sono salite, o sono discese. Se le si legge come discese, a un certo punto non hanno ulteriore sbocco, e non hanno ritorno: non sono salite all’aperto (e salida, in spagnolo, significa uscita…).

Ecco i due corni del dilemma, la polarità dell’esperienza. Anabasi e catabasi sono due nomi per l’unità, o due vissuti radicalmente diversi? Certo, i soldati di Senofonte risalgono verso l’interno, ma non tutti torneranno. Si va e si viene, in una dialettica incompiuta. La loro anabasi non coincide con la catabasi per tutti. Viceversa, la vera dialettica ascendente, per Platone, non può prescindere da una dialettica discendente. Il filosofo del mito della caverna deve, se è filosofo, ritornarvi. Allora, ad essere in questione è un unico processo, o sono due differenti?

 

2.

Ritrovo la stessa perplessità, o duplicità che lascia indecisi, in innumerevoli altre rappresentazioni, religiose, mitologiche, letterarie. Sulla scala che Giacobbe vede in sogno gli angeli scendono e risalgono. È un simbolo del legame fra terra e cielo, certo, ma Giacobbe non è un angelo, è ancora legato al suo compito terreno. Però nella celebre canzone Stairway to heaven dei Led Zeppelin, che a quel brano biblico si ispira, fra i due percorsi possibili si prende la strada per il paradiso, proprio allorquando «tutti sono uno e uno è tutti»! Viceversa Jack, che col fagiolo magico sale in cielo, è costretto alla fine, per salvarsi, a tagliarlo, troncando la via.

E quante discese alle Madri, come quelle auspicate e cantate da Rilke nelle sue Elegie Duinesi. Immersione senza riemersione, la felicità della caduta della pioggia. Ma quante discese agli inferi altrimenti raffigurate come complementari di una risalita, e presupposto del progredire dell’itinerario. A volte fallite, come quella di Orfeo che non salva Euridice. A volte con successo, come quella di Enea. E il nesso discesa-salita, non a caso, nella psicologia del profondo è visto come la chiave psicologica interpretativa del viaggio di Dante, o della Subida al Monte Carmelo di S. Giovanni della Croce: itinerari di guarigione psichica e spirituale. Le «discese ardite e le risalite», diceva quella canzone di Lucio Battisti… ma si risale davvero? L’Abgrund di Jakob Böhme, l’indifferenziato che ci oltrepassa (da cui trae spunto l’assenza di fondamento heideggeriana), finisce per essere una perdita. Non è detto che sia un male. Ma, come in tutte le esperienze di mise en abyme, è un perdersi nella vertigine, e dalla reduplicazione dell’abisso non si risale al (purgatorio?) dell’identità.

 

3.

Penso sia sufficiente. La mappa non è il territorio, come ricordava Borges. Non si può dare una trascrizione geo-grafica di tutti i vissuti di salita e discesa, e ogni schema che tracciamo raffigura solo alcuni aspetti di questo contraddittorio territorio. Voglio però soffermarmi ancora su alcune implicazioni politico-linguistiche. L’uso di metafore spaziali e topografiche è frequente e antico, nel linguaggio politico: alto, basso, innalzare, abbattere, che accompagnano, assieme a terminologie militaresche, l’idea del contrasto e dello sviluppo tra forze sociali e forme partitiche o di governo. Dagli altari alla polvere, il manzoniano «dio che atterra e suscita». Ma sono venute più di moda, recentemente, le metafore dello scendere e del salire in politica. Che sottintendono, come ha fatto notare Roberto Saviano, due diversi sistemi di valore. Berlusconi è «sceso» in politica, il che implica l’idea che, dal cielo dell’imprenditoria e degli affari, regno della concretezza e dell’efficienza, si è adattato alla bassa cucina del governo, al «teatrino» della politica, alle sue chiacchiere e ai suoi compromessi. Monti, viceversa, è «salito» in politica, col giudizio sotteso di una ascesa positiva dall’astratto e neutro piano accademico al supremo livello degli interessi di una nazione. Lascio ad ognuno di giudicare se il loro agire ha corrisposto alle loro metafore. Sta di fatto, per il nostro discorso, che ambedue hanno inteso prendere una sola strada, che non prevedeva la via opposta.

  

4.

Penso che da queste contraddizioni non si esca facilmente, fintantoché siamo inconsapevolmente guidati, come nota Gilbert Durand ne Le strutture antropologiche dell’immaginario, da quella che chiama dominante di posizione. La struttura archetipica dell’alto-positivo avverso ad un basso-negativo. Con tutto il campo semantico correlato di sole, luce, ragione, elevazione, versus la caduta, il buio e la de/gradazione, che ha intrappolato tanta etica, misticismo, filosofia, compreso l’idealismo dell’iperuranio platonico. Durand ha contrapposto, a questo regime, quello notturno del grembo, del ciclo di vita e di morte. E, per allargare la mia riflessione, provo ad applicare questo schema all’attività alpinistica, di cui ho qualche esperienza, nel tentativo di superare la metafora dell’ascesa/ascesi nell’esperire quella del ciclo. Come uscita, forse, dall’impasse salita o discesa.

  

5.

È indubbio che l’attività alpinistica sia, quasi per antonomasia, il campo privilegiato per una dialettica salire-scendere. L’ascensione in montagna ne è, per eccellenza, la rappresentazione sia simbolica che concreta. Ed è altrettanto indubbio che la storia dell’alpinismo abbia profondamente risentito di quella dominante dell’altezza di cui sopra. A prescindere qui da tutte le montagne sacre, più vicine agli dei del cielo, di cui è costellata la storia delle religioni, dall’Olimpo al Sinai al Monte Meru, Uluru o Black Hills, i primi scalatori, dal Petrarca sul Ventoux a Bonifacio Rotario d’Asti che sale nel 1410 sul Rocciamelone (3500 metri!), già puntano verso l'alto.

L’alpinismo storico, poi, si svilupperà con le motivazioni esplorative settecentesche (raggiungere le cime «vergini», come Saussure sul Monte Bianco) o quelle geografico/scientifiche della conoscenza del territorio, dei fenomeni meteorologici e delle reazioni fisiche umane in altezza. Assumendo poi le caratteristiche romantiche (l’ignoto, il mistero, l’inviolato, i quadri di Caspar David Friedrich…), che pian piano sfumano, fra Ottocento e Novecento, in forme superomistiche (la sfida, l’eroe, la lotta con l’alpe di cui parlava Guido Rey) anche velate di intenti nazionalistici (l’Eiger per il nazismo, ma anche il K2 per l'Italia, ancora nel 1954). È evidente che in tutte queste imprese, di grandi alpinisti come di semplici escursionisti, il movente è la spinta alla vetta, la conquista di una cima per una via nuova di salita, per dare un nome ad un itinerario d’arrampicata fisico-esteriore o per una semplice sfida o elevazione interiore.

 

6.

Ritengo che oggi le cose siano ormai cambiate, nella consapevolezza degli stessi alpinisti, e che esistano le condizioni per poter quindi proporre un senso diverso all’esperienza di salire in vetta. Raggiungere la vetta di una montagna è raggiungere l’inizio di una fine. Anche se si trattasse di una collina di duecento metri, oltre non si può più andare. Non si può fare un passo più in alto. Quando ci si approssima alla cima, e si vede la cresta che si spiana sotto i piedi e sopra la testa solo il cielo, non si pensa più a misurare l'altitudine sopra il livello del mare, ma solo che sono gli ultimi passi in salita, la fine di quella direzione. La vetta è la fine, e deve anche essere fine a se stessa. È il termine geografico ed anche psichico, non si ha nulla altro da desiderare.

E dopo? Non c’è che scendere. Ma scendere non porta a niente. È solo un annullamento. Azzera tutto e rimette al punto di partenza, come nel gioco dell’oca. Come diceva Guy Debord, parlando di un movimento rivoluzionario, «quando si torna da un’impresa, si ha sempre meno animo di quando si è partiti». In qualche modo la discesa è una morte? Non è un caso che la maggior parte degli incidenti in montagna, anche di grandi alpinisti, avvengano durante la via del ritorno… anche qui si ha forse meno animo?

Ma se si è tornati, si potrà sempre ripartire ex novo. Un nuovo inizio, il ciclo si ripete con una eventuale nuova salita resa possibile proprio dalla vetta-fine e dalla discesa-morte. Se si è vivi fisicamente, si è come morti dal punto di vista psichico e simbolico. Per una rinascita? Si pensi all’episodio conclusivo del secondo Faust goethiano, che si svolge nelle «gole montane», e che, secondo il critico Ladislao Mittner,vede un moto continuo di ascesa e discesa, di avvicinamento e allontanamento. E l’anima di Faust, nel verso definitivo dell’opera, è tratta, come la nostra, verso l’alto. Le forze cosmiche, femminili, «zieht uns hinan».

Che dire? Nelle rappresentazioni mentali, come nella corporeità dell’ascensione montana, salita e discesa non sono in opposizione ontologica, la strada per la vetta può sempre essere la stessa che ci riporta in pianura. Ma si oppongono come vissuto psichico. Sono due esperienze tese a due intenzionalità diverse. O forse c’è sì anche una «differenza ontologica». Sui generis. Se salire appartiene all’essere, lo scendere pertiene al non essere. Ma non vorrei, dopo essere nato eracliteo, morire parmenideo: dal non essere della discesa può sempre rinascere l’essere della salita.