La risorsa dell’identità universale nella riflessione di François Jullien

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 Universale, uniforme, comune
nella riflessione di François Jullien*

 

I tre concetti cui si fa accenno nel sottotitolo del contributo presente sono al centro di un volume del 2008 del filosofo e sinologo francese François Jullien. Volume tradotto, subito dopo, anche in italiano, sotto il titolo: Luniversale e il comune1. Naturalmente, il dialogo tra culture, che qui è in discussione, afferisce al tentativo intrapreso dal nostro autore di gettare un ponte fra pensiero occidentale e pensiero cinese2, per cui viene subito sollevato il problema relativo allo statuto universale che dovrebbero avere quei concetti capaci di garantire lo scambio e la comunicazione fra i due regimi culturali in questione.

Intento di Jullien, nel suo procedere ad una decostruzione del concetto di universale, è di metterlo a confronto con i concetti di uniforme e di comune, decostruzione da cui risulta che la nostra civiltà lo avrebbe declinato sempre in rapporto a precise istanze storiche e politiche, privilegiando una determinata rappresentazione del mondo rispetto ad altre. Più precisamente, proprio dal confronto fra le tre nozioni esce fuori che, mentre quello di universale è un concetto logico, che attiene all’ordine del dover-essere e della ragione, e quello di comune un concetto politico, che attiene all’ordine dell’appartenenza e della condivisione, quello di uniforme è, invece, un concetto economico, che attiene all’ordine della funzionalità e della produzione. Ne discende che il comune, indicando un qualcosa che è oggetto di perpetua conquista e di costruzione, non può essere impiantato né sul principio prescrittivo dell’universale, né su quello della riproduttività seriale dell’uniforme.

Il comune, cioè, non si dà nel segno di una massimizzazione di principio, non si lascia ridurre entro il profilo asettico di una normatività impersonale, non è mai esperito nella forma di un possesso sociale collettivo, ma, esattamente al contrario, funge da fattore “estatico” di espropriazione, il quale, aprendo i soggetti ad un compito di acquisizione infinito, impedisce loro di coincidere identitariamente con se stessi3. E, per articolare meglio questo motivo, Jullien ricorre non tanto, come verrebbe naturale da pensare, al concetto di differenza, quanto a quello di «scarto (écart)». Al riguardo, scrive:

Parlare della diversità delle culture in termini di differenza disinnesca in anticipo ciò che l’altro dell’altra cultura può apportare di esterno e di inatteso, al tempo stesso sorprendente e sconcertante, disorientante e incongruo. Il concetto di differenza ci colloca fin dall’inizio in una logica di integrazione – di classificazione e di specificazione – e non di scoperta4.

Praticando la scoperta come metodo di ricerca rischioso, esplorativo e avventuroso, il nostro autore la intende, invece, come un uscir fuori dalla norma, un procedere in modo inconsueto, operando, appunto, uno «scarto» rispetto a tutto ciò che è già dato e che si configura come convenzionale:

lo scarto fa sorgere un’altra prospettiva, […] una nuova opportunità – avventura – da tentare5.
In breve vuol dire rompere il quadro di riferimento e arrischiarsi altrove6.

 

Jullien ritiene che la grandezza di una filosofia si misuri proprio in rapporto allo «scarto» che, entro il suo stesso ambito, essa riesce ad innescare, «per aprire e riconfigurare il campo del pensabile»:

per dispiegare, smarcandosi (en s’écartant) dal pensiero istituito, altre risorse che non sono state esplorate o coltivate7.

Egli può così concluderne che il comune si attiva solo nel segno non della differenza, ma dello «scarto». E ciò perché «il culturale si offre sempre al plurale»8: la specificità di esso è data dal fatto che, «mentre tende a omogeneizzarsi, non smette mai di eterogeneizzarsi; mentre tende all’unificazione, non smette di pluralizzarsi; mentre tende a confondersi e a conformarsi, non smette di smarcarsi, di dis-identificarsi e ri-identificarsi»9.

Chi si è distinto nel pensare le differenze sono stati proprio i Greci, concependole come ciò che, costituendo il dominio stabile di un’essenza, ci permette di definirla e di identificarla:

la finalità della differenza è proprio quella di identificare10.

Quel che qui è rimasto impensato, però, è il flusso, il passaggio, l’indistinto della transizione, in una parola, tutto ciò che sfugge alle determinazioni eidetiche fisse: la forza calma delle trasformazioni silenziose11.

Mentre il logos è “definizione”, […]ci dicono all’unisono i Greci, ritaglia cioè i limiti tra i generi e le proprietà per riconoscervi dell’Essere, la transizione è per eccellenza ciò che non ci consente di dire fino a dove giunge una certa proprietà o qualità e dove comincia l’altra. Essa […] distrugge quelle prerogative per le quali si attribuisce dell’Essere12.

Ne discende che promuovere la sfera del comune è possibile solo preservandolo dal rischio di un’assimilazione che lo privi di ogni fluidità, rischio che, nell’epoca globalizzata attuale, sembra incombere, come una minaccia, su ogni cosa che ci circonda.

Per di più, proprio oggi, in pieno regime global, l’uniforme tende a spacciarsi per l’universale, a «diventarne segretamente la perversione», con la conseguenza che viene smarrito sia «ciò che costituisce la risorsa […] della diversità fra culture», sia «il piano […] sul quale esse potrebbero incontrarsi». E «piano» nel senso tanto di «tavolo da lavoro sopra cui operare», quanto di «rappresentazione peculiare a partire da cui poter immaginare una resistenza all’uniformazione»13. La globalizzazione dei nostri giorni, facendo leva su istanze che fingono di promuovere la nostra emancipazione, ma in realtà standardizzandoci su scala planetaria, procede, infatti, a realizzarsi ignorando completamente quei valori morali e culturali che, da sempre, hanno veicolato ogni autentica aspirazione universalistica14.

Tornando al comune, Jullien ne ricostruisce la genealogia, nell’arco che va dalla nascita della polis greca, come istituzione di uno spazio pubblico, nonché del principio di una parola interamente condivisa, attraverso l’ideale romano di cittadinanza, come una caratteristica estendibile, tendenzialmente, a tutto l’impero, fino al messaggio paolino, dove il comune, ormai, fa tutt’uno con l’universale, nel senso che la buona novella cristiana può realizzarsi solo a condizione di un superamento del formalismo estrinseco della legge.

Così, sotto l’unicità dell’Amore, gli uomini assurgono a soggetti universali senza tuttavia risultare, ognuno nella propria specifica apertura, meno unici e singolari – ed è questo l’apporto più grande del cristianesimo15.

Ne discende una modificazione profonda nell’immagine dell’universale rispetto alla visione del mondo greca: poiché esso non viene più visto in opposizione all’individuale, la salvezza divina assume l’aspetto di una vera e propria «riconciliazione logica»16.

Dopo aver completato la ricognizione genealogica relativa all’idea di universale, Jullien, a questo punto, si chiede:

il problema dell’universale è a sua volta universale? Oppure è un’illusione teorica – ancorché estremamente produttiva – a cui solo l’occidente ha dato forma ed è, dunque, tutt’altro che universale17

Tale domanda impone di aprire una distinzione fra universalità logica e universalità dei valori, visto che la nostra tradizione si è caratterizzata proprio per il fatto di aver identificato l’una con l’altra, concependo l’agire sempre nel segno dell’universalità formale della conoscenza, ossia dotando la legge morale della «sola necessità razionale (auto-fondante) della logica»18. Ciò è dipeso dall’esigenza di espungere dalla morale qualsiasi ingerenza contingente e puntuale, esigenza che impronta strutturalmente il pensiero occidentale, ma che è del tutto assente in civiltà lontane dalla nostra. Civiltà come, ad esempio, la Cina, di cui Jullien ci segnala che essa produce su di noi un effetto di «spaesamento»19, in quanto si è sviluppata in modo del tutto indipendente da interferenze storiche con l’Europa, se si esclude il fenomeno dell’evangelizzazione e quello dell’occidentalizzazione forzata, rispettivamente, dei secoli XVI e XIX.

La Cina fornisce quindi un terreno di sperimentazione ideale […] per mettere alla prova l’universalità di quelle nozioni “di base” che noi riteniamo ovvie20.

Se l’Occidente, fin dagli inizi della civiltà greca, ha pensato, infatti, sempre nel segno dell’essere, la Cina, invece, non ha mai disposto di questo concetto inteso in senso assoluto. Il che vale anche per la verità e per il tempo. In merito alla prima, noi ne garantiamo l’eternità proprio fondandola sull’essere, laddove per i cinesi “vero”, significando piuttosto “autentico”, è prerogativa di quell’uomo la cui vita interiore «conosce uno sviluppo e un’apertura […] privi di ostacoli»21. In merito al secondo, in Cina, il tempo non è mai pensato in modo omogeneo ed astratto, ma in rapporto ogni volta con il corso dei processi, ossia in termini di stagioni e di durata22.

Nella ricerca di un dialogo fra culture distanti, un altro grande problema è dato poi dal fatto che in India, ad esempio, manca un equivalente per quella nozione che noi riteniamo dotata di una portata universale: i diritti umani. Per ovviare a questa difficoltà, Jullien suggerisce di ricorrere ad un concetto di universalità non verticale e di principio, ma obliquo e trasversale, il quale, individuando un possibile punto di intersezione fra le due prospettive messe a confronto, proietta davanti a sé un valore non tanto di invarianza, quanto di equivalenza.

L’idea del confronto presuppone, però, che le due prospettive in questione riescano almeno a specchiarsi l’una nell’altra. E dove ciò non succede? Ossia dove il divario fra l’una e l’altra è talmente grande che non esiste neanche una misura comune con cui poterlo valutare? La soluzione è che la resistenza che noi incontriamo nel renderci intelligibili concetti completamente distanti dai nostri, va vista come una risorsa e un arricchimento, piuttosto che come un’insidia e un ostacolo.

Il problema dell’universalità delle culture non potrà essere affrontato in modo serio fino a quando non avremo fatto esperienza di questa difficoltà e, soprattutto, tratto profitto dalla […] esperienza di tale resistenza23.

L’universale non va pensato, cioè, come una dotazione stabile, intrinseca e costitutiva, ma come un «vettore – inesauribile – di promozione»24: come un principio che, rivestendo il dato volta a volta acquisito di una nuova aspettativa, lo spinge, in modo immanente, verso il suo superamento.

L’universale […] è quell’effetto di mancanza che rivela ogni identità a se stessa e ne costituisce la vocazione: quell’effetto che, mai colmato, la induce a trasformare se stessa nel preciso momento in cui trasforma il proprio altro, a non accontentarsi della propria identità, a non fermarsi e chiudersi in essa. […] [L]’universale è questa pienezza mancante, […] quell’effetto di svuotamento che iscrive all’interno di ogni limitazione l’urgente necessità alla sua rinuncia: è grazie a questo effetto che qualsiasi totalizzazione non può accettarsi come tale, né può essere sicura di sé ma, al contrario, è chiamata ad aprirsi nuovamente all’illimitato25.

Pensata così l’universalità, è ad essa che spetta, dunque, di promuovere il comune, di far sì che quest’ultimo, indotto a crescere e ad estendersi illimitatamente, non si areni in nessuna appartenenza prestabilita o condivisione già acquisita, eviti la deriva del comunitarismo e conservi il suo spirito emancipatore e progressista.

Si tratta di un’opera di spaziamento per aprire il campo dell’alterità, dunque, piuttosto che un esercizio […] che finirebbe per rovesciarsi in una verticalità atta a creare nuove forme di dominio26.

Tornando al problema sollevato dai diritti umani e dalla loro presunta universalità, Jullien mostra che, per quanto noi li concepiamo come assoluti e incondizionati, essi sono, invece, il frutto di condizionamenti storici ben precisi. L’idea dei diritti umani, affermatasi in epoca moderna, presuppone, infatti, una duplice assolutizzazione: una relativa al diritto, inteso come una pura emanazione del soggetto, e un’altra relativa all’uomo, in quanto visto come separato dal contesto vitale cosmico e animale.

La proposta cui assistiamo è, così, di intendere l’universalità dei diritti umani come un’istanza non a priori, ma che si fa facendo, è in cammino, in via di realizzazione, che funge da principio regolatore non nozionale o costitutivo, ma funzionale, dove ciò che costituisce l’estensione di essi non è la loro verità, ma ciò che la loro ipotetica mancanza rivela nel cuore stesso della nostra esperienza.

Decisivo è anche riconoscere che questa universalità verso cui siamo in cammino non è una soglia unica, ma plurale: uno spazio aperto entro cui deve installarsi il dialogo fra le culture. Concetto, oggi, alquanto problematico, per il fatto che, dietro ai suoi buoni propositi e alla sua apparente apertura, spesso si nasconde un gioco occulto di rapporti di forza. Jullien ci invita, così, a ripensare radicalmente la nozione di dialogo: a vedere nel dia- lo «scarto» che mantiene la tensione e la distanza fra quel che viene separato, mentre nel logos un’istanza, facente leva sull’«intelligenza del comune»27, di comunicabilità di principio e di apertura riflessiva al confronto28.

Si solleva, qui, un’ultima domanda: in quale lingua si svolgerà il dialogo, se esso è di tipo interculturale? Ecco la risposta:

ognuno nella propria lingua, ma traducendo l’altro. La traduzione è infatti l’attuazione esemplare dell’operatività propria del dialogo: essa ci obbliga a una rielaborazione interna alla nostra stessa lingua, e quindi a riconsiderare i suoi impliciti per renderla disponibile all’eventualità di un senso altro, o perlomeno di un senso che segue altre ramificazioni. […] La traduzione è […] la sola etica possibile per il mondo “globale” che verrà29.

È estremamente significativo il fatto che Jullien abbia raggiunto, in tal modo, gli esiti cui è pervenuta l’ultima riflessione di Ricoeur, improntata anch’essa ai concetti di «etica della traduzione» e di «ospitalità linguistica». Per traduzione, il filosofo appena menzionato ha inteso, infatti, non solo quella interlinguistica, ma anche quella infralinguistica, nel senso che l’una e l’altra danno vita a due scambi comunicativi strutturalmente simili. Concedere una spiegazione nella nostra lingua all’interlocutore di turno, presentandogli la cosa da lui non capita in un altro modo, presuppone, infatti, la ricerca di una corrispondenza fra due versioni dello stesso discorso, corrispondenza che è ricercata anche da chi comunica in una lingua diversa dalla sua. In tal senso, ogni volta che noi rivolgiamo la parola ad un altro, in quest’ultimo «vi è [sempre] qualcosa dello straniero»30. E come la lingua di arrivo porta alla luce del giorno «il lato nascosto» della lingua di partenza, così la prima, grazie a questo “giro” attraverso la seconda, giunge a «percepirsi essa stessa come straniera»31.

Ricoeur ha potuto parlare, così, della traduzione come di un vero e proprio “paradigma”32: come di quel disavanzo fra equivalenza e adeguazione totale che impronta di sé ogni forma di scambio interumano mediato linguisticamente. Per lui, la possibilità di tradurre può essere vista, pertanto, come un «a-priori della comunicazione», nel senso che se «[l]a traduzione è di fatto, la traducibilità [è] di diritto». In altre parole, si tratta di un guadagno che consiste, nondimeno, in una perdita irreparabile: di una sfida che, rinunciando al sogno di dominare un assoluto linguistico, si fa carico dello smisurato divario e dello «scarto» incolmabile fra il proprio e l’estraneo, il medesimo e l’altro.

 

 

Note con rimando automatico al testo

* Testo letto nel contesto del Convegno filosofico “L’universale, l’uniforme e il comune”, tenutosi a Certaldo (Fi) il 20 giugno 2015.

1 Il dialogo tra culture, tr. it. di B. Piccioli Fioroni e A. De Michele, Laterza, Roma-Bari 2010. Rispetto al titolo dell’edizione originale francese: De luniversel, de luniforme, du commun et du dialogue entre les cultures, quello dell’edizione italiana lascia cadere, immotivatamente, la menzione della seconda delle tre nozioni.

2 L’intento di gettare questo ponte ha animato molte delle opere di Jullien, quali, ad esempio, fra quelle uscite anche in edizione italiana: Strategie del senso in Cina e in Grecia, tr. it. di M. Porro, Meltemi, Roma 2004; Lombra del male. Il negativo e la ricerca di senso nella filosofia europea e nel pensiero cinese, tr. it. di M. Ghilardi, Colla, Costabissara (Vi) 2005; Pensare lefficacia in Cina e in Occidente, tr. it. di M. Guareschi, Laterza, Roma-Bari 2006; Parlare senza parole. Logos e Tao, tr. it. di B. Piccioli Fioroni e A. De Michele, Laterza, Roma-Bari 2008; Lansa e laccesso. Strategie del senso in Cina, Grecia, a cura di P. Fabbri, Mimesis, Milano-Udine 2011.

3 Su questo punto, Jullien si dichiara in sintonia con la riflessione di R. Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, Torino 1998. Cfr. Luniversale e il comune, cit., p. 24. Tutti e due pensano, infatti, che ciò che i membri di una comunità condividono non è un qualcosa che viene da essi positivamente fruito, ma un’espropriazione della loro sostanza: una mancanza, un vuoto.

4 F. Jullien, Contro la comparazione. Loscartoe iltra”. Un altro accesso allalterità, a cura di M. Ghilardi, Mimesis, Milano-Udine 2014, pp. 40-1. «Si ha torto […] a considerare la diversità delle culture dalla prospettiva della differenza. La differenza rimanda infatti all’identità come al suo contrario e, di conseguenza, alla rivendicazione identitaria». Cfr. F. Jullien, Le trasformazioni silenziose, tr. it. di M. Porro, Cortina, Milano 2010, p. 29.

5 Ivi, p. 30.

6Contro la comparazione, cit., pp. 45-6.

7 Ivi, p. 49.

8 Ivi, p. 37.

9 Ivi, p. 75.

10 Ivi, p. 38. Circa il fatto che la funzione della differenza, per i Greci, «è prima di tutto logica: essa istituisce la possibilità del logos in quanto enunciato di definizione (horismos) e lo rende tecnicamente intelligibile», Jullien ritorna anche in Parlare senza parole, cit., p. 108.

11 Quello di «trasformazione silenziosa» è un concetto che Jullien riprende da un filosofo cinese del XVII secolo: Wang Fuzhi. Su di essa ha scritto: «La trasformazione silenziosa […] non forza, non contrasta nulla, non si batte; ma si fa strada, […] si insinua, si estende, si ramifica […] – si propaga “a macchia d’olio”». Cfr. Le trasformazioni silenziose, cit., p. 66. Sulla nozione di «trasformazione silenziosa» come un concetto che può essere produttivo anche per la psicoanalisi, cfr. F. Jullien, Cinque concetti proposti alla psicoanalisi, a cura di A. Kluzer Usuelli, La Scuola, Brescia 2014, pp. 115-35.

12 Le trasformazioni silenziose, cit., pp. 33-4.

13 Luniversale e il comune, cit., pp. 13 e 18. Questa istanza viene fatta valere da Jullien anche nel suo Sullintimità. Lontano dal frastuono dellAmore, tr. it. di R. Prezzo, Cortina, Milano 2014, che è un altro testo in cui egli fa lavorare il concetto di “scarto”. Qui, il concetto di intimità viene visto come ciò che funge da quell’indice rivelatore che, opponendo una resistenza ad ogni standardizzazione, ci impedisce proprio di confondere l’uniforme con l’universale.

14 Circa il fatto che la globalizzazione, nei suoi effetti standardizzanti, avrebbe prodotto una vera e propria «logo-logicizzazione», cfr. Parlare senza parole, cit., p. 5.

15 Luniversale e il comune, cit., p. 53.

16 Ivi, p. 60.

17 Ivi, p. 67.

18 Ivi, p. 73. Su questo punto, F. Jullien, Trattato dellefficacia, tr. it. di M. Porro, Einaudi, Torino 1998, afferma che il rapporto fra teoria e prassi sarebbe improntato, in Occidente, ad uno schema di modellizzazione: «costruiamo una forma ideale (eidos), che poniamo come scopo (telos) e agiamo in seguito per tradurla nei fatti» (p. 3). In tal senso, è tenendo «gli occhi rivolti verso […] l’ideale» che finiamo sempre per «pensare l’azione» (p. 5).

19 Intervista a François Jullien, a cura di A. Mayer, tr. it. di E. Acuti, in «Humana.Mente», 2010, n. 12, pp. 187-92: p. 187.

20 Luniversale e il comune, cit., p. 86. Questo punto è della massima importanza, perché Jullien rivendica non tanto l’alterità, quanto la completa estraneità della Cina rispetto all’Occidente. Estraneità che è proprio ciò che consente di «rimettere in prospettiva il pensiero europeo e scoprirlo dal di fuori, da un altrove, al fine di interrogarlo nuovamente». Cfr. F. Jullien, Pensare un altrove: la Cina, in «Iride», 1998, n. 24, pp. 239-49: p. 240. Qui, evidente è l’influenza esercitata su Jullien dal concetto di «eterotopia» di Foucault, su cui cfr. M. Ghilardi, François Jullien: filosofia ed eterotopia, in «Humanitas», 2012, n. 3, pp. 516-32.

21 Luniversale e il comune, cit., p. 87.

22 Al riguardo, in F. Jullien, Il tempo. Elementi di una filosofia del vivere, tr. it. di M. Guareschi, Sossella, Roma 2002, leggiamo che, la Cina «ha pensato il “momento” stagionale e la “durata”, ma non un involto che li contiene entrambi, ossia il tempo omogeneo e astratto» (p. 7). E ancora: «i cinesi hanno pensato congiuntamente due cose: il momento-occasione da una parte […], e la durata […] dall’altra. In compenso, non hanno concepito un involucro che le contenga entrambe, che sarebbe il “tempo”» (p. 28). «Detto altrimenti, ciò che non hanno mai cessato di chiarire con pazienza è non il “tempo”, ma la processualità» (p. 47).

23 Luniversale e il comune, cit., p. 95.

24 Ivi, p. 97.

25 Ivi, pp. 99-100.

26 Contro la comparazione, cit., p. 71.

27 Ivi,p. 53.

28 Sul dia- di dialogo come un prefisso che «non designa solamente il “tra” della parola (tra me e l’interlocutore), ma esprime anche l’“attraverso” e lo svolgimento», cfr. Parlare senza parole, cit., dove, di seguito, leggiamo: «è esattamente attraverso il logos, attraverso la sue estensione e il suo spessore […] che io mi intendo con l’interlocutore e cammino con lui» (p. 77). «Dia non significa esclusivamente che la parola viene messa in gioco tra interlocutori che condividono lo stesso senso, né che la verità si scopre progressivamente attraverso di essa, ma presuppone anche che gli interlocutori siano l’uno di fronte all’altro: che tra di loro vi sia uno scarto» (p. 81).

29 Luniversale e il comune, cit., p. 175. Sul nesso tra filosofia dello «scarto» ed etica della traduzione, in Jullien, cfr. R. Rigoni, Tra Cina ed Europa. Filosofia dell’écart ed etica della traduzione nel pensiero diFrançois Jullien, Mimesis, Milano-Udine 2014.

30 P. Ricoeur, La traduzione. Una sfida etica, a cura di D. Jervolino, tr. it. di I. Bertoletti e M. Gasbarrone, Morcelliana, Brescia 2001, p. 69.

31 Ivi, p. 48.

32 Cfr. ivi, pp. 57-74.

33 P. Ricoeur, Persona, comunità e istituzioni. Dialettica tra giustizia e amore, a cura di A. Danese, Edizioni Cultura della Pace, San Domenico di Fiesole (Fi) 1994, p. 96. Sull’«etica della traduzione» di Ricoeur, cfr. il nostro: Estraneità e traduzione. Babele come paradigma del problema etico della differenza (Gadamer, Ricoeur, Derrida), in «Testo & Senso», 2014, n. 14, pp. 2-9: pp. 4-6.