“Fosse” di Enrico Carraro Moda

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“FOSSE” di Enrico Carraro Moda

La nuova drammaturgia di Enrico Carraro Moda, “Fosse”, è un testo che conferma l’impianto critico e stilistico delle precedenti, ed in particolare di “Orgia”, di cui si può considerare una continuazione, ma su un piano diverso. I ritmi e le velocità di questo testo teatrale sono più serrati, sincopati, le linee di fuga si moltiplicano, così come le epifanie emotive che le accompagnano.
I comportamenti umani sono, in “Fosse”, ridotti a gesti reattivi, a risposte fisiologiche. Sembra che la storia di una relazione duplice e di un tormentato rapporto con la figura materna, quale elemento di disturbo nella struttura emotiva del personaggio, sia non soltanto un teatro della crudeltà, ma un teatro animale. Acquisito che la crudeltà, l’iperbole feticista che il teatro amplifica e diffonde, sono l’unica verità, assistiamo ad una rete di azioni e reazioni che configurano un’etologia, cioè un codice di comportamenti animali.
La ricerca della verità, dell’autenticità, sopravvive sotto la scorza di un duro nichilismo che si mostra nella violenza e crudezza del linguaggio, nelle cesure della comunicazione, negli scarti delle passioni.
La difficoltà tra i personaggi non è soltanto di rapporti. Essa raggiunge l’impossibilità dei rapporti umani. Nel mondo di “Fosse” diventa impossibile toccare l’altro, sentire ciò che sente, comunicare. Così avviene che prenda il sopravvento il teatro del silenzio, del non-detto.
Inutile cercare delle coerenze nell’esistenza dei personaggi, che vivono di rifiuti di grandi sentimenti, raccolti nelle discariche di una postmodernità inviolata e pervasiva.
L’assenza di soggettivazione li trascina nella regressione di un gioco di ruoli, di erotismo sado-masochista, di feticismo perverso. I loro singhiozzi non fanno piangere nessuno, sono raffiche di emozioni e sospensioni nella continuità di flussi vitali ed esistenziali. Domina il minimalismo e con esso, l’iconicità di sentenze che risuonano come voci del destino nell’aria cupa delle nostre solitudini.
Le certezze che pure s’intravedono, si spezzano da sole, nelle fratture del linguaggio, nella prossemica sbilanciata, nel delirio, prima trattenuto, poi esibito, come un segno permanente di blocco dell’umano.