Matteo Borri, Storia della malattia di Alzheimer

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Matteo Borri

Storia della malattia di Alzheimer

 

 

Bologna, il Mulino, 2012, pp. 181,

ISBN 978-88-15-23365-3, € 16,00

 

 

 

 

«La lettura storica di un fatto scientifico comporta il non dimenticare le caratteristiche dei vari momenti che lo hanno definito» (p. 164). È questo il principio sotteso al saggio Storia della malattia di Alzheimer di Matteo Borri che, nel descrivere in maniera dettagliata e minuziosa il percorso che ha portato alla sistematizzazione nosografica della Alzheimer’s Disease, ci svela la storia di un vero e proprio processo scientifico che non procede in forma lineare: «È possibile affermare che questa storia della malattia di Alzheimer ha le caratteristiche di un “particolare” intreccio fra motivi scientifici e motivi comunicativi, un processo di costruzione di un sapere attraverso l’unificazione di più saperi diversi. La storia della malattia di Alzheimer è così una storia esemplificativa di un processo scientifico che, come tale, rimane ancora oggi aperto» (pp. 147-148).

Paolo Rossi, nella sua bella “Presentazione” al testo (pp. 7-23), ci ricorda come la dimensione della dimenticanza sia caratteristica essenziale del procedere della scienza che, per costruirsi come sapere sistematico e organico, avanza dimenticando le vecchie teorie superate e le riflessioni critiche costruite intorno ad esse, ma anche le stesse relazioni fra le teorie e l’ambiente scientifico nel quale si sono generate per diventare «qualcosa di simile ad un organismo, a un corpus coerente e compatto di definizioni, teorie, esperimenti» (p. 17). A perdere la memoria non è solo il paziente diagnosticato Alzheimer, anche la visione organicista della malattia come correlazione tra sintomo e lesione organica rischia di cancellare lo stesso individuo malato e le sue sofferenze: «Quando è diagnosticata una malattia mentale cronica come la malattia di Alzheimer le persone scompaiono dalla vita sociale. L’individuo e la sua storia attraverso l’etichetta della malattia, resa realtà ontologica con il nome della diagnosi, entrano in un mondo che non ne riconosce più l’individualità, riducendo il soggetto a un insieme di sintomi, di mancanze, di disgregazione. Nella malattia di Alzheimer scompaiono i neuroni e scompare anche l’individuo» (p. 168). Lo studio minuzioso di tali fatti dimenticati, intersecati dall’analisi di un secolo di storia della psichiatria, è il vero oggetto del volume, che ripercorre la storia della malattia di Alzheimer a partire dal 25 novembre 1901, giorno in cui il medico tedesco Aloysius – Alois – Alzheimer incontra per la prima volta la paziente Auguste Deter nell’istituto psichiatrico di Francoforte sul Meno.

 

Lo studio di una malattia, afferma Borri nell’“Introduzione”, «riguarda sia i fatti scientifici e la loro descrizione, sia quei particolari rapporti umani che si instaurano fra il paziente e il suo medico» (p. 25). Il primo capitolo, intitolato “Trovare” (pp. 31-78), si apre con l’incontro tra la signora Auguste e il giovane medico Alois Alzheimer. Il quadro clinico della paziente e soprattutto i severi disturbi del linguaggio manifestati in età non avanzata – 51 anni – colpiscono subito il medico, che continuerà a seguire il suo caso anche dopo aver abbandonato l’istituto di Francoforte per recarsi a Monaco a lavorare nella clinica dello psichiatra Emil Kraepelin. Alla morte della paziente, Alzheimer si fa inviare il cervello per effettuare un’autopsia, scoprendo nell’indagine istologica un fatto da lui stesso definito come un “insolito” caso, un quadro anatomopatologico non ancora descritto dalla comunità scientifica del tempo. L’esame istologico mostrerà infatti la degenerazione delle neurofibrille e il nuovo caso clinico sarà comunicato alla comunità scientifica nel 1906, senza però riscuotere particolare interesse. È solo a partire dal 1910, anno in cui Kraepelin inserisce la malattia nell’ottava edizione del suo manuale di psichiatria, che si apre un primo fecondo periodo di studi sulla nuova forma patologica, nel riferimento a diversi ambiti disciplinari. Utilizzando per la prima volta il termine Alzheimerische Krankheit per indicare quello specifico insieme di dati clinici e anatomopatologici osservati da Alzheimer e confermati da altri casi studiati dai suoi collaboratori italiani Gaetano Perusini e Francesco Bonfiglio, Kraepelin propone una nuova categoria nosografica supportata da prove istopatologiche.

 

Nel secondo capitolo – “Cercare”(pp. 79-118) – Borri analizza il contesto scientifico nel quale si inserisce la scoperta del medico tedesco, nonché le metodologie di indagine da lui utilizzate. Per la psichiatria di inizio Novecento la malattia mentale aveva come causa principale lesioni cerebrali e doveva essere quindi compresa correlando i sintomi della demenza con le caratteristiche del tessuto cerebrale. Alzheimer impostò la sua carriera di studioso intorno all’anatomopatologia del cervello, ma fu anche un bravo clinico e proprio attraverso il colloquio clinico e l’attenta osservazione della sua paziente il medico tedesco fu spinto ad approfondire l’insolito caso, confermato poi collegando i comportamenti patologici intra vitam con specifiche alterazioni corticali esaminate post mortem. Analizzando il testo originale di Alzheimer del 1907, qui presentato per la prima volta in una traduzione integrale dello stesso autore, Borri afferma: «In realtà pur in presenza di dati diversi e di diversa natura, il medico ha comunque di fronte a sé una concreta unicità: l’individuo in situazione di malattia e questo porta il suo sistema conoscitivo a cercare una sintesi concettuale. L’occhio del clinico assume dunque tutto il complesso dei fatti che si sviluppano e si intersecano nella storia dell’ammalato, storia che può essere oggetto di un racconto» (pp. 39-40).

Il terzo capitolo– “Comunicare” (pp. 119-161) – ripercorre il processo di “giustificazione” che ha portato alla visione condivisa del concetto di malattia di Alzheimer, dai primi del Novecento fino all’attuale sistematizzazione nel manuale statistico e diagnostico dei disturbi mentali (DSM). L’analisi di Borri si concentra sul periodo 1910-1974 e offre una dettagliata indagine sul contributo degli studiosi italiani, tra i quali spicca Ugo Cerletti, al tema delle demenze e alla malattia di Alzheimer, per passare poi all’analisi delle categorizzazioni delle demenze presenti nei DSM, dalla prima versione del 1952 fino al DSM-IV del 2004. Tale analisi mostra come nella psichiatria moderna assuma un’importanza primaria, rispetto al passato, il sintomo connesso alla perdita della memoria e il tema della personalità e dell’individualità. La malattia di Alzheimer non deve essere compresa solo attraverso la correlazione tra sintomi della demenza e caratteristiche del tessuto cerebrale, ma anche come il risultato di una serie di deficit cognitivi dovuti a diverse cause. Negli studi sulla malattia di Alzheimer riveste particolare importanza l’analisi dei disturbi del linguaggio di un individuo affetto da demenza, il che non riguarda solo una precisa e localizzata disfunzione organica, ma la persona nella sua integrità. Nella presa in carico di pazienti Alzheimer, suggerisce l’autore, la direzione che oggi si auspica è quella di porre una sempre maggiore attenzione agli aspetti residui del linguaggio che presenta il paziente per «andare al di là di un’ottica centrata su ciò che viene a mancare» (p. 159).

Nel quarto capitolo – “Casi clinici, ricerche in laboratorio e domande ancora aperte: bastava leggere?” (pp. 163-173) ­– Borri offre notevoli spunti di riflessione su questioni tuttora aperte nel dibattito contemporaneo sulla malattia di Alzheimer. Una lettura attenta mostra come tante delle riflessioni epistemologiche odierne sulla malattia siano le stesse presenti all’inizio del Novecento, in particolare il rapporto fra l’etiologia della malattia e la senilità. Se restiamo all’interno dell’ottica centrata sulla malattia, rischiamo di dimenticare «come la struttura del problema della Alzheimer’s Disease non sia “solo” un fatto scientifico, ma anche un tema profondamente umano» (p. 26), che non deve quindi essere letto soltanto da un punto di vista biomedico, ma anche contemplare un ambito più esteso che prenda in considerazione persino i fattori psico-sociali dell’individuo malato. Tali aspetti non si esauriscono nella cura dell’organo o della disfunzione, ma si inseriscono in un sistema più complesso di relazioni sociali, di sofferenza e di affetti, dimostrando come la malattia sia in primo luogo un nuovo modo di esistere per l’individuo. L’attenzione degli studiosi oggi è centrata non solo sulla malattia, ma sulla sofferenza della persona affetta da Alzheimer e sul miglioramento della qualità di vita attraverso strategie di arricchimento e valorizzazione delle sue abilità residue. La storia di una malattia, infatti, è sempre la storia di quel malato particolare e in un’ultima analisi, conclude l’autore, «La comprensione della storia naturale della malattia si concretizzerà nelle storie degli individui che vivranno un invecchiamento accolto come una vera realtà personale, anche se di tipo Alzheimer. Questa però è un’altra storia, ancora da costruire e documentare» (p. 173).