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Azioni Parallele

NUMERO  7 - 2020
Azioni Parallele
 
Rivista on line a periodicità annuale, ha ripreso con altre modalità la precedente ultradecennale esperienza di Kainós.
La direzione di Azioni Parallele dal 2014 al 2020 era composta da
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Dis-obbedienza

 Estratto da Dis-obbedienza. 
Il fascino narcisistico del complottismo

 

 

Introduzione

Mentre in Europa ci si apprestava ad affrontare la famigerata seconda ondata della pandemia prodotta dal virus Covid-19, usciva online, Hold-Up. Retour sur un chaos, un film di quasi tre ore diretto dall’ex giornalista Pierre Barnérias, con il pretenzioso obiettivo di rivelare le verità celate dietro i tragici eventi.

Hold-Up. Retour sur un chaos, che ambisce a svelare agli ignari cittadini le menzogne fornite dalle autorità francesi sulla diffusione del Covid-19 e di smascherare la manipolazione dell’opinione pubblica, posta in essere dai media compiacenti, è diventato, da subito, virale incontrando i favori di milioni di utenti.

Pierre Barnérias, del resto, non è nuovo a simili imprese. Ex giornalista della rete televisiva Tf1, il suo curriculum vanta un discreto numero di pellicole “complottiste”. Tra i suoi lavori più apprezzati dagli appassionati del genere, infatti, possiamo citare A qui profite le flou, un cortometraggio sulla presunta manipolazione delle immagini adottata dai giornalisti per ridimensionare la portata della protesta degli ambienti conservatori di destra contro l’estensione dei diritti civili a tutte le coppie senza distinzione di sesso, o M et le 3ème secret, un documentario dedicato alle apparizioni della Vergine Maria e più in particolare a quella di Fatima nel 1917, nel quale si afferma che il Partito Comunista e la Massoneria siano in competizione per controllare la Chiesa Cattolica, vista come uno dei principali agenti del governo mondiale.

Bannato prontamente dalla piattaforma video Vod di Vimeo, sulla quale era apparso in un primo momento, il film ha trovato ospitalità sul canale web, Odysee, nel quale, all’interno di una specifica rubrica dal rassicurante nome di “Rivelazioni”, si trovano diversi video basati sulle più diffuse teorie del complotto. Successivamente, come sempre succede in questi casi, è stato piratato, montato e diffuso su altre piattaforme, inseguendo in rete il consenso di una moltitudine di persone che subiscono il fascino del complottismo. Come precisa Eugenio Renzi sulle pagine de il Manifesto, «per altro, Hold-Up. Retour sur un chaos è un progetto che ha raccolto consenso in rete prima ancora di essere prodotto. A monte c’è infatti un finanziamento partecipativo che è riuscito a mettere insieme in pochissimo tempo circa 200mila euro – tramite due piattaforme di crowfounding: Ullule e Tipee»1.

Hold-Up. Retour sur un chaos, del resto, dà libero sfogo a tutte le illazioni che agitavano sul web gli animi inquieti dei cospirazionisti, dalla creazione del virus Sars-Cov-2 in laboratorio sino alla imposizione di un nuovo ordine mondiale. È girato con mestiere e presenta i servizi, i dati e le interviste in modo tale da non dare tempo di metabolizzare le informazioni allo spettatore che finisce per rimanere suggestionato dal ritmo serrato e incalzante delle immagini. Il film, presentato come un documentario sull’epidemia, inizialmente critica le misure sanitarie poste in atto dal governo francese e, quindi, per analogia dalla gran parte dei governi occidentali, esalta i ritardi dei decisori pubblici e le inefficienze degli operatori medico sanitari. Sottolinea i vantaggi finanziari della diffusione del virus, in capo non solo alle solite aziende farmaceutiche chiamate a produrre il miracoloso vaccino, quanto piuttosto per le stesse aziende ospedaliere pubbliche che avessero ospitato in cura i pazienti contagiati e addirittura i singoli medici che avessero denunciato i singoli casi. Ma, soprattutto, insinua, neppure troppo velatamente, come dietro la pandemia si celi una cospirazione globale gestita dal Davos World Economic Forum con l’obiettivo di sottomettere l’umanità. Ed in questo avvalendosi della seducente promozione di star dello spettacolo come l’attrice Sophie Marceau, a conferma dell’inquinamento del dibattito pubblico prodotto dal cosiddetto infotainment.

Paradossalmente, il problema sollevato da una pellicola come Hold-Up. Retour sur un chaos non sta tanto nella presunta qualità della informazione che fornisce ai suoi spettatori.

Certo la quantità di fake news contenute ha indotto tanto la televisione quanto la stampa francese ad intervenire sul dibattito provocato dalla sua rapida diffusione, criticando sia il contenuto che, soprattutto, il metodo che l’autore ha adottato per manipolare lo spettatore e per conferire alla sua opera un’apparenza di scientificità. Fin da subito, tuttavia, l’iniziativa, sebbene lodevole, si è dimostrata sostanzialmente inefficace. Come ha fatto notare lo studioso di scienze della comunicazione e membro del prestigioso Observatoire du conspirationnisme, Thistan Medès France, ai microfoni di France inter: «Hold-Up utilizza per 2 ore e 45 minuti quello che in gergo si chiama “millefoglie argomentativo”. Per smontarlo, ci vuole un lavoro di ore, se non di giorni. Alcuni lo fanno, ma il risultato arriva dopo che il male è fatto. E se il documentario è un successo di pubblico, c’è da dubitare che molti di quelli che lo hanno visto abbiano tempo e voglia di confrontarlo con la complessità e la fatica che la vera ricerca scientifica implica2.

Hold-Up. Retour sur un chaos invita, piuttosto, a riflettere per la repentina ampiezza del suo successo, che lo ha reso il manifesto di protesta di tutte quelle migliaia di persone che inneggiano alla disobbedienza delle norme emanate per prevenire la diffusione del Covid-19. Aggiunge, infatti, Thistan Medès France: «la viralità di queste produzioni è preoccupante perché una volta che siamo stati esposti, se qualcuno l’ha condivisa con noi (tramite social network, un parente, un amico, un familiare che ha detto che “dovevi vederlo”), genererà confusione, un dubbio nelle menti, in particolare a causa della qualità visiva di questa produzione. Questa circolazione virale, che va oltre i circoli tradizionali, i cospiratori e gli estremisti che possono trasmetterla, raggiunge un pubblico estremamente vasto»3. Sei giorni dopo la sua uscita, il documentario aveva raggiunto più di un milione di visualizzazioni su YouTube ed era stato visto da circa tre milioni di persone sulla piattaforma di streaming Odyssee. A fine novembre, meno di tre settimane dopo, il quotidiano Libération contava oltre nove milioni di visualizzazioni. Nel frattempo, si può immaginare che queste cifre siano notevolmente aumentate.

Questi numeri, invero impressionanti per un video che, giova ricordarlo, dura quasi tre ore, non devono stupire più di tanto, vista la platea di potenziali ascoltatori interessati al suo messaggio. In linea di massima, secondo lo YouGov-Cambridge Globalism Project, un sondaggio di circa 26.000 persone in 25 Paesi realizzato proprio in quei giorni dalla società britannica di analisi statistiche dei dati, in collaborazione con il quotidiano The Guardian, si può affermare che ben il 20% della popolazione occidentale ritenga che il virus Covid-19 sia stato creato da industrie private con il consenso e l’appoggio di quello che ormai viene conosciuto come il famigerato deep state e che pertanto il numero delle vittime sia stato deliberatamente gonfiato con la complicità dei media, al fine di creare quella psicosi indispensabile per lo scopo finale, la riduzione della popolazione ed il suo inquadramento servile nel prossimo nuovo ordine mondiale.

In Italia, in particolare, secondo uno studio condotto dalla società di monitoraggio Swg, relativo alla settimana dal 16 al 22 novembre, il 25% del campione intervistato è convinto che il coronavirus è stato creato in laboratorio e diffuso appositamente per modificare gli equilibri geopolitici mondiali. Tra i cospirazionisti, inoltre, è del 33 la percentuale di chi ritiene che si tratti di un virus creato dai cinesi per indebolire gli altri Paesi. Il 21% ritiene che sia stato, invece, creato dalle multinazionali del web per arricchirsi, mentre il 20% degli intervistati punta il dito contro le élite mondiali e una presunta volontà di instaurare una dittatura sanitaria. Infine, dallo studio Swg, emerge che il 16% pensa che il virus sia stato creato dalle mafie per arricchirsi e ampliare il proprio potere.

A ben vedere simili percentuali descrivono anche la misura della convinzione in altre credenze, per così dire, tradizionali del pensiero cospirazionistico, come la falsità della narrazione sulla responsabilità umana del riscaldamento globale o la complicità governativa negli attentati di New York dell’11 settembre 2001 e, last but not least, l’avvenuto incontro con civiltà aliene.

Qualsiasi evento che tende a sfuggire al controllo finisce per diventare oggetto di una spiegazione dietrologica rassicurante che, ricorda Stephan Lewandowsky, psicologo cognitivo dell’Università di Bristol, esperto di disinformazione, ammalia le persone in quanto, da un lato appare capace di offrire un senso di benessere psicologico grazie alla sensazione di non essere in balia della casualità, dall’altro fornisce un profilo identitario anticonformista e autoindulgente, capace di appagare quel desiderio di unicità che viene visto come l’antidoto al disagio di una esistenza individuale non all’altezza delle ambizioni coltivate.

In questo senso si può comprendere, allora, come il cospirazionismo sia figlio di quella lotta per mantenere l’equilibrio psichico in una società postmoderna che pretenda il rispetto delle regole del rapporto sociale, ma che si rifiuta di fornire un codice di condotta morale su cui fondarle, favorendo così, «una forma di egocentrismo […] narcisista, infantile, vuota»4.

Questo profilo psicologico, apparentemente innocuo quanto relegato nella sfera privata, ha finito con il diventare, però, un problema sociale e politico, quando inizia ad alimentare non una semplice disaffezione nei confronti dell’establishment o una disobbedienza civile variamente articolata, ma piuttosto descrive i prodromi di una manifestazione rabbiosa e di una parodia di una vera e propria sovversione. Come quando un migliaio di persone continuano a scendere nelle piazze europee a protestare contro i vari lockdown, che a tutt’oggi sembrano essere l’unico concreto antidoto alla diffusione del virus oppure hanno assaltato il Congresso americano, nella convinzione che le ultime elezioni presidenziali siano state oggetto di una frode perpetrata contro il popolo da una, non meglio precisata, rete di potenti, collusi oltre che dal desiderio di dominio del mondo anche dalla passione per la pedofilia.

 

Il lato oscuro della storia

«Qual è l’importanza delle teorie del complotto e quale la loro capacità di fare danno?»5 si domandava Daniel Pipes nel suo seminale Cospiracy: How the Paranoid Style Flourishes and Where It Comes from,scritto nel 1997 quando ancora il complottismo sembrava una patologia culturale tanto bizzarra quanto inoffensiva.

A poco più di venti anni di distanza sugli schermi televisivi di tutto il mondo è andata in onda la risposta.

Quello che è successo a Washington il 6 gennaio 2021, non declina sicuramente un maldestro tentativo di colpo di Stato, vista la mancanza degli elementi peculiari che la scienza politica tradizionalmente gli attribuisce, come l’assenza di un supporto militare e di un coordinamento con élite sovversive all’interno dell’apparato statale. Tuttavia, non può certo essere considerato un evento marginale e contingente.

L’irruzione a Capitol Hill dimostra, infatti, non solo l’attuale crisi di rappresentanza di partiti politici che, indeboliti ideologicamente sul piano dei contenuti e organizzativamente sul territorio, finiscono per essere in balia dei capricci umorali di una forte leadership mediatica, ma sottolineano quanto le più intime convinzioni e le più elementari regole dell’agire democratico finiscano per essere negate da quel narcisismo cospirazionista che pervade una buona parte del dissenso politico ed elettorale attuale.

[…]

La gratificazione narcisistica della disobbedienza

Se le congiure sono sempre esistite e le teorie del complotto a loro volta comunque utilizzate, non dovrebbe suscitare particolare stupore l’insistenza di migliaia di persone nelle piazze a gridare la loro rabbiosa incredulità contro le misure prese dai governo nei confronti della diffusione della pandemia. Del resto, al di là di qualsiasi considerazione sulla possibilità di una sua concreta materializzazione, l’incubo di una dittatura sanitaria, che finisca per sopprimere ogni libertà democratica, ben si presta a reinterpretare in chiave popolare e forse un po’ becera le teorie biopolitiche al centro del dibattito nella filosofia politica degli ultimi anni.

La libertà di dissentire contro chi governa declina, certo, una delle matrici costitutive della società democratica. Eppure nell’intrusione di Capital Hill da parte di uno sciamano, a torso nudo e cappello di pelliccia con tanto di corna, sembra potersi intravedere qualcosa che va oltre la manifestazione violenta della delusione del risultato elettorale e che finisce per dirigersi verso una radicale contrapposizione nei confronti dell’agire democratico.

Senza scomodare l’esempio dell’uso ormai diffuso della maschera di Guy Fawkes, nelle più svariate manifestazioni di proteste, i partecipanti alle rivolte contro il presunto autoritarismo del potere costituito sono soliti nascondere il proprio volto per rendersi irriconoscibili. I manifestanti che hanno occupato Capital Hill hanno, invece, fatto di tutto per essere riconosciuti, offrendosi alla riprese delle telecamere dei media e agli scatti di egocentrici selfie, orgogliosamente postati sui social network.

L’invasione del parlamento da parte di una folla di scalmanati non ferisce la comunità democratica solo per il tragico bilancio della perdita di cinque vite umane. Ma ha evidenziato tutta la disaffezione per la rappresentanza parlamentare, che sembra pervadere le società democratiche contemporanee, caratterizzandola delle nuove tensioni e ambizioni nate dal Web. La tecnologia è sempre stata prodiga di promesse, affermava Stefano Rodotà nell’incipit della sua seminale riflessione sul rapporto tra la democrazia e le nuove forme della comunicazione. Ma quello che è successo a Washington non ha nulla a che vedere con le ambizioni utopiche quanto ingenue di reintrodurre la democrazia diretta, trasformando il web in un agorà virtuale. In un contesto politico dove le decisioni sembrano essere prese fuori dai luoghi istituzionali, si è assistito alla dimostrazione dell’evidente predominio del virtuale sul reale, restituendo simbolicamente quella funzione “teatrale” al Parlamento che gli era ormai stata completamente preclusa dal dominio mediatico del dibattito pubblico. Ad un rappresentante politico che per testimoniare la prova della sua esistenza deve uscire dall’emiciclo assembleare e trovare uno spazio sui media, ribadendo cosi l’etimo originario verbo esistere, dal latino composto di ĕx ovvero “da, fuori” e sistĕre “porsi, stare”, e quindi uscire, il popolo della rete ha invece replicato occupando l’aula, sedendosi al suo posto e, così facendo, sancendone ormai la palese irrilevanza. «La città fisica si è rivelata prigioniera della città virtuale. E come sempre accade l’aggettivo sovrasta il sostantivo»6.

A partire dal Ventunesimo secolo, il protagonismo mediatico offerto dalla rete ha finito con esaltare questa narcisistica avventura mitopoietica, volta a colmare il vuoto di ignoranza e il senso di impotenza verso quella complessità sociale che la globalizzazione sembra voler imporre. Ma lo fa a partire dall’esaltazione del soggetto tralasciando del tutto la plausibilità dei contenuti. Le dinamiche comunicazionali, esprimibili tramite i social network, alimentano quella socialità individuale che amplifica gli aspetti più negativi della personalizzazione della politica, nella quale la dimensione estetica finisce con il prevalere su quella contenutistica.

Agli albori della Rete, internet sembrava proprio lo strumento comunicativo adatto a colmare quel deficit di conoscenza che separava la élite e il popolo. Nel 1994 il filosofo francese Pierre Lévy poteva inaugurare la nuova era, celebrando la prossima nascita dell’intelligenza collettiva, «distribuita ovunque, continuamente valorizzata, coordinata in tempo reale, che porta a una mobilitazione effettiva delle competenze»7.

A distanza di un quarto di secolo di storia, la visione utopica del filosofo francese ha subito un brusco ridimensionamento.

Secondo un recente studio di una équipe di fisici del Laboratory of Computational Social Science presso l’Istituto di studi avanzati di Lucca, in collaborazione con la Sapienza Università di Roma, i social media hanno cambiato il nostro modo di informarci e di formare le nostre opinioni, inducendo gli utenti verso una polarizzazione che contribuisce a incentivare la disinformazione.

«Abbiamo notato un effetto polarizzante», spiega Walter Quattrociocchi, il coordinatore della ricerca «ovvero la tendenza dei social network a formare comunità segregate. La comunicazione è diventata sempre più personalizzata, sia nel modo in cui viene proposta, sia come viene condivisa attraverso i social network. Gli utenti, infatti, tendono a concentrarsi su narrazioni specifiche e a riunirsi in determinati gruppi, al fine di rafforzare la propria visione del mondo»8.

La personalizzazione dello scambio di informazioni rimbomba all’interno delle echo chambers dove le idee o, meglio, le credenze vengono amplificate e rafforzate dalla ripetizione all’interno di un sistema chiuso e impermeabile dall’esterno. È stato del resto ampiamente dimostrato che il criterio di selezione più influente nella scelta dei contenuti online è il cosiddetto confirmation bias. La navigazione online per mezzo dei social networknon serve per informarsi, ma per avere confermea quello che già si presume di conoscere. Si creano così tribù dove il ricevimento di un Like alimenta il protagonismo narcisista dei partecipanti, invitando a ribadire la propria appartenenza, a rafforzare il proprio carisma e soddisfare il proprio desiderio di autocompiacimento.

Declinazioni virtuali di quelle tribù che già Michel Maffesoli aveva profetizzato ne Le temps des tribus. Le déclin de l’individualisme dans le sociétés de masse dove il riconoscimento prevale sul ragionamento, la relazione con gli appartenenti sul confronto con l’alterità.

In esse l’individuo si specchia come Narciso, osservando affascinato e incantato la propria immagine riflessa. Di questa dimensione estetica, narcotizzante dello spirito critico, alimenta, alla stregua del teismo omerico, una nuova consolazione religiosa della sua esistenza e delle vicissitudini che, apparentemente senza alcun altro motivo, è costretto ad affrontare. Omero, infatti come ricorda il filosofo austriaco naturalizzato britannico, Karl Popper «concepiva il potere degli dei in modo che tutto quel che accadeva nella pianura davanti a Troia costituiva soltanto un riflesso delle molteplici cospirazioni tramate nell’Olimpo. La teoria sociale della cospirazione è in effetti una versione di questo teismo, della credenza, cioè, in una divinità i cui capricci o voleri reggono ogni cosa. Essa è una conseguenza del venire meno del riferimento a dio, e della conseguente domanda “chi c’è al suo posto?”. Quest’ultimo ora è occupato da diversi uomini e gruppi potenti - sinistri gruppi di pressione, cui si può imputare di aver organizzato la grande depressione e tutti i mali di cui soffriamo»9.

 

Note

1 E. Renzi, Oltre 2 milioni e mezzo di visioni, chi c’è dietro al film complottista «Hold-Up», il Manifesto, 22.11.2020.

2 T. Medès France, Hold-Up: Pour démonter ce documentaire, il faudrait des heures, des jours de travail, France Inter, 12 novembre 2020.

3 Ibidem.

4 C. Lasch, La cultura del narcisismo. L’individuo in fuga dal sociale in un’età di disillusioni collettive, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2020, p. 25.

5 D. Pipes, Il lato oscuro della storia. L’ossessione del grande complotto, Lindau, Torino, 2005, p.45.

6 S. Rodotà, Tecnopolitica. La democrazia e le nuove tecnologie della comunicazione, Laterza, Roma-Bari, 2004, p. 122.

7 P. Lévy, L’intelligenza collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio, Feltrinelli, Milano, 2002, p. 34.

8 W. Quattrociocchi, La Babele di Internet, in Le Scienze , 2018, n.596, pp. 36-43.

9 K. Popper, Previsione e profezia nelle scienze sociali, in Congetture e confutazioni. Lo sviluppo della conoscenza scientifica, Il Mulino, Bologna, 2000, p. 580.