AZIONI PARALLELE 
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Azioni Parallele

NUMERO  7 - 2020
Azioni Parallele
 
Rivista on line a periodicità annuale, ha ripreso con altre modalità la precedente ultradecennale esperienza di Kainós.
La direzione di Azioni Parallele dal 2014 al 2020 era composta da
Gabriella Baptist,
Giuseppe D'Acunto,
Aldo Meccariello
e Andrea Bonavoglia.
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Mounier
di A. Meccariello e G. D'Acunto
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Modern/Postmodern
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Solitudine/Moltitudine
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di A. Meccariello e A. Infranca
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L'eone della violenza
di M. Piermarini
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La guerra secondo Francisco Goya
di A. Bonavoglia
ed. ASTERIOS 

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Cura

 

Estratto da Cura
Salute, psicologia e moralità di una relazione

 

 

Antropologia della cura

 La cura è un atteggiamento con cui ci rapportiamoal mondo e agli altri. C’è bisogno di cura perché tutti siamo vulnerabili. La cura non è una possibilità, una convenienza o un dovere fra altri, ma è una necessità esistenziale senza di cui non sarebbe sorta la civiltà. Curandosi vicendevolmente, gli uomini progrediscono e stanno bene in un mirabile circolo virtuoso. Io devo certo curare in primo luogo me stesso, ma poiché sono stato prima curato da altri, devo a mia volta curare. Se vivere è con-vivere-bene-col-prossimo, non hanno più motivo di esistere le due tendenze contrarie (“amore di sé” vs “sacrificio per altri”, “cura-di-sé” vs “cura-degli-altri”); che poi tali sono solo quando ognuna si estremizza, ridicolizza, patologizza. Il far-bene ha direzione circolare e universalizzante; dopodiché ognuno dovrà fare un esame di coscienza per valutare l’onestà e sanità del proprio agire. Può capitare che la cura sia sbilanciata da un lato, dove qualcuno guadagna di più, ma l’ideale rimane la simmetria delle cure, come avviene nei rapporti amorosi, dove ognuno gareggia a prendersi cura dell’altro e dove ognuno trae soddisfazione sia nel curare sia nell’essere curato […]. Quand’anche persistano rapporti asimmetrici di cura, ritorna però una certa simmetria nella misura in cui, per esempio, il curato è tale perché si lascia curare (si rende disponibile alla cura), e paradossalmente, proprio in quest’apparente passività, il curato diventa attivo col ringraziamento e col dono della sua stessa presenza (molti genitori affermano che sono proprio i loro figli malati a dargli coraggio, senso e gioia di vivere), mentre rimane passivo il curato quando si percepisce solo come un peso o con sentimenti di colpa […].

 

Eticità e tecnica della cura

Se i progressi della tecnica hanno migliorando le nostre condizioni di vita, essa può anche spersonalizzare le relazioni umane e fare dell’uomo un oggetto manipolabile fra altri. Sennonché, la tecnica rimane una nostra costruzione, per cui è l’uomo stesso che dovrebbe utilizzarla bene, servirsene per aumentare il senso di responsabilità e solidarietà e per far circolare buoni valori. La cura non è un semplice sentimento naturale (istinto animale) ma è in profondità: opzione morale, correzione psicologica, decisione esistenziale, dovere politico, comando religioso (per chi crede). Si è parlato persino della cura come “fabbrica filosofica dell’essere”. La cura reciproca, protegge, feconda, introduce nel cuore della vita […]. C’è una cura per ogni livello: materiale, intellettuale, morale, medico; livelli che vanno assunti in modo olistico. Non essendo l’uomo fatto di compartimenti stagni ma di vasi comunicanti, ogni caregiver deve preoccuparsi del benessere complessivo della persona. Ognuno è un essere limitato e mancante, quindi ognuno ha bisogno di cura e deve rimanere aperto sia nel darla sianel riceverla […].

 

Declinazioni professionalizzate della cura

Oltrela cura in senso generico (preoccupazione, interesse, relazione, sollecitudine, premura, attenzione al prossimo, impegno politico, beneficienza, ecc.), c’è pure una cura in senso stretto: quella in gioco in varie professioni (medicina, psicologia, insegnamento, assistenza, ecc.). Invero, il termine “terapia” significa in greco ogni tipo d’intervento per migliorare l’uomo (quindi anche una lezione di filosofia o l’ascolto di musica possono essere terapeutiche), mentre la cura in senso medico è chiamata iatreia, per quanto poi i greci avessero una concezione filosofica della stessa medicina, dov’era scontato comprendere l’uomo intero e umanizzarne le cure […].

In ogni caso, qualsiasi caregiver capace di riflettere su di sé, potrà trovare molti atteggiamenti che travalicano le sue tecniche professionali, e questo, non tanto perché abbia aggiunto dall’esterno un pizzico di psicologia nella medicina, o un pizzico di filosofia nella psicologia, o un pizzico di affetto nelle sue pratiche assistenziali, ma perché tutto ciò rientra a pieno titolo in ognipratica di cura. Se durante la sua formazione accademica il professionista è stato abituato a considerare l’altro come un mero “oggetto”, ora deve confrontarsi col reale in cui quell’oggetto diventa un co-soggetto; in cui il suo sapere deve dialogare col vissuto esistenziale di un prossimo-a-noi; in cui il paziente non è più solo un caso fra altri ma una persona individua che ci costringe a un rapporto umano e che solo nel buon funzionamento di questo rapporto potrà essere compresa, curata, guarita, assistita […].

Passando dalla “cura generica” alla “cura professionale”, le buone disposizioni non devono diminuire, salvo che gli operatori intendano fornire solo “servizi certificati” in modo uguale alle prestazioni di qualsiasi sportellista o artigiano. Certe professioni e mansioni non si fanno percaso, per denaro o prestigio (logiche del calcolo) ma perché si sentono di fare, perché si vuole agire per il bene dell’altro. Eppure succede spesso che il passaggio dalla terapeia alla iatreia scada nell’inumanità e immoralità, se pensiamo solo alla medicalizzazione della salute foraggiata dalle multinazionali del farmaco e/o agli ospedali trasformati in “aziende da profitto”!

 

Qualità della dedizione

Ogni relazione di cura non dovrebbe mai svolgersi a senza unico (dal curatore al curato) ma secondo una logica circolare, essendo ogni relazione fra esseri umani, un incontro tra fragilità, complessità, timori. Può accadere, infatti, che i caregiver agiscano apparentemente per il bene altrui, quando invece agiscono (anche inconsapevolmente) per sentirsi bene solo loro e per curare in fondo solo loro stessi (cura dell’altro come auto-terapia!). Trattando i bisogni e la salute altrui, occorre modestia, spirito di servizio, generosità (di tempo, di sorriso, ecc.), autocritica, attenzione all’altro, sopportazione di aggressività e miseria, prudenza, discrezione, delicatezza, rispetto degli spazi vitali, ecc. Dedizione della cura significa riconoscimento della doverosità del donarsi […].

L’assistito, in generale, non deve percepire la presenza del curante come ingombrante, autoritario, saccente, trionfante, ecc., altrimenti, fiutando un pericolo per la propria libertà, dignità, unicità e autostima, si difenderà opponendo resistenza (rottura dell’alleanza terapeutica). Spesso è sufficiente essere silenziosamente presenti aspettando i tempi di maturazione dell’altro, come avviene in campo educativo (ogni eccesso di parole non è mai buono). Poco utile è far capire all’altro di aver noi capito tutto, come se non servisse più la sua collaborazione. Del resto, il curatore non ha mai davanti un individuo con problemi calcificati ma un individuo che va introdotto in delicati processi di cambiamento e crescita […]. Avere rispetto, significa accogliere ciascuno nella sua singolarità e originalità, incontrarlo nella sua diversità, riconoscere la sua dignità, prestare attenzione al suo bisogno di essere accettato, compreso, guarito, salvato. È una relazione a faccia a faccia che non parte con visioni preconcette e anticipazioni culturali tendenti ad assimilare e dominare l’altro. Incontrare il prossimo è sempre andare incontro a un’avventura/incertezza, perché l’altro non si conosce mai abbastanza, non si sa come potrà reagire, se vorrà condividere il nostro dono e se noi potremo accettare il suo modo di porsi nei nostri confronti […].

Operare con senso professionale di cura, comporta sapere ciò che di necessario abbisogna l’altro; e sappiamo bene quanto danno fanno quelle cure necessarie ma non ricevute soprattutto nell’infanzia,coi suoi numerosi cattivi effetti (traumi, risentimenti, disturbi di personalità, ecc.). Conoscendo il bene necessario all’altro, si conosce nel contempo quello-che-non-lo-è e che magari l’altro pretende (capricci, desideri immotivati). Ma ogni buon operatore fa solo il bene di chi deve curare, rifiutando richieste inopportune e responsabilizzandol’altro facendogli capire ciò che è essenziale e ciò che non lo è; e l’altro deve comprendere che i “no” del curatore non nascono da cattiveria o mancanza di considerazione ma da giustizia, verità, buon senso. Solo qui, oltre che aver cura dell’altro si ha insieme cura per l’altro […].

 

Antropologia medica

Forse non c’è pratica scientifica come la medicina che non implichi numerose virtù che la trascendono in una più ampia concezione filosofica dell’umano. Non c’è esercizio della medicina che possa pretendere di limitarsi asetticamente alla competenza tecnica senza coinvolgere sentimenti, relazioni, speranze, comprensioni, empatie, sacrificio, ecc. In questa direzione, si muovono le cosiddette “Medical humanities”: un approccio metempirico alla medicina che fa di questa anche una “scienza umana” […].

Già nella sua Antropologia medica del 1926, V. von Weizsäcker denunciava l’assenza di una filosofia nella scienza, scrivendo che il rispetto metafisico per il malato debba essere una delle prime virtù del medico; che la medicina è deputata a curare le debolezze del malato decidendo insieme a lui ma anche rassegnandosi con lui; che la medicina è il luogo metafisico di un incontro dove, se da un lato il medico non può immedesimarsi nel dolore altrui per un’oggettiva disuguaglianza, dall’altro lato il paziente si avvicina al medico coinvolgendolo in una comunità vitale. Chi cura deve mantenersi aperto, paziente, tollerante, sensibile alla biografia del singolo e all’intera storia della malattia, per nonlasciar fuori alcun pensiero, bisogno, tatalità di significati.

Ma quanti medici operano in questo modo e con questa passione per l’umano? La medicina, ricca di scienza e tecnica, risulta povera se limita il suo fine al tentativo di guarigione empirica, poiché la malattia/salute sono sempre il risultato di una vasta e complessa serie di fattori anche meta-medici. La medicina non è solo trattamento specialistico di patologie ma partecipazione allapolis; e sebbene non sia direttamente competente in questioni extra-mediche, i medici non possono esimersi dal fornire un contributo quando serva alla salute del prossimo e della società […]. Se in prima istanza, filosofia, medicina e psicologia sono discipline diverse, nel contempo esse riflettono su temi comuni (percezione, coscienza, linguaggio, natura, benessere, rapporto mente/corpo, confine normalità/patologia, rapporto con l’ambiente, ecc.), per cui possono e devono confrontarsi in un dibattito interdisciplinare fino ad arrivare a una visione etico-antropologica nella stessascienzamedica,; cioè, assunzione al suo interno di una mentalità che travalica le sue conoscenze, le sue abilità chirurgico-farmacologiche, i suoi protocolli amministrativi, i percorsi diagnostici obbligati, le linee guida generaliste (spesso discutibili e fallaci, non adattate sui singoli pazienti), ecc. […].

Reclamare una “filosofia personalistica” nelle curemediche, significa allora: a) avere sempre una coscienza critica dei problemi, siano questi di natura sperimentale, clinica o esistenziale; b) avere un “ethos” della relazione terapeutica (punto d’incontro inevitabile per ogni operatore sanitario) alle prese non con tessuti e organi ma con persone viventi; c) avere sensibilità per un “dover-essere”, un “modello umano di medicina”, “una visione globale della società”; d) formare i medici con corsi di carattere umanistico (bioetica, etica sociale, deontologia, antropologia filosofica, psicologia delle relazioni, epistemologia, ecc.). Fare un giuramento formalistico per entrare nell’Albo Professionale, serve a poco se non si è stati educati a svolgere onestamente una missione e se non si sono capiti tutti i requisiti che dovrebbe avere un “bravo medico” […].

Caregiver che credono di operare “scientificamente” senza alcuna filosofia, non fanno che illudersi, sia perché anche la scelta di non avere una filosofia e di attenersi solo ai dati sperimentali è già essa stessa una filosofia chiamata “scientismo materialista” (prospettiva del tutto vana e impossibile); sia perché non c’è specializzazione che possa lasciare fuori di sé l’interezza/complessitàdell’umano. Se il medico è portato sicuramente a guardare dapprincipio il corpo del paziente, il medico più attento sarà anche portato a guardargli la psiche, e poi ancora, a come affronta il suo problema di salute (questioni di “psicologia medica”) e infine guarderà all’intero stile di vita del paziente che è molto di più che un semplice “corpo malato”! Con ciò, la medicina è una disciplina composta di: a) una conoscenza clinico-patologica (medicina in quanto mero insieme di scienze empiriche); b) un sapere epistemologico (logica, razionalità, complessità di ogni atto medico); c) una sapienza antropologica, cioè: 1) una consapevolezza problematica del “prendersi-cura”; 2) una capacità relazionale interpersonale; 3) una condivisione di valori; 4) un senso metempirico della corporeità […].

Il paziente non è solo un utente di servizi e/o un cliente sempre sprovveduto, ma è soprattutto un Qualcuno che porta in dono la sua complessa e originale biografia, la sua fragilità e intimità, le sue ansie e speranze. I diplomi sono titoli necessari per esercitare una professione, ma sono in fondo “pezzi di carta” insufficienti se poi non si è capaci di prendersi davvero cura dell’umano in tutti i suoi risvolti esistenziali! Tutto il sistema sanitario dovrebbe essere dominato dalla centralità della persona e non dai paradigmi capitalistici della produttività (curare il maggior numero di pazienti nel minore tempo possibile e al minor costo possibile)!

 

 


Per un dizionario della pandemia recupera materiali pubblicati nella collana Lessico Pandemico di Asterios Editore diretta da Aldo Meccariello