Antonino Infranca, Tecnecrate

  • Stampa

 

 

 

 

Antonino Infranca

Tecnecrate 

 

 

Castelvecchi, Roma, Castelvecchi, 2019, pp. 122

€ 16,50  EAN 9788832825831

 

 

 

 

 

 

 

Il romanzo che qui recensiamo offre un suggestivo problema dalla prospettiva dell’estetica del romanzo, innanzitutto in relazione a quel sottogenere che potremmo designare come romanzo filosofico: il problema che suppone la necessità di porre in relazione un modo di abbordaggio che suppone, in ultima istanza, una ricerca di principi astratti, con una forma come la novellistica, che, legata al particolare, assume – per lo meno, nella sua configurazione classica – una configurazione essenzialmente biografica. È caratteristico che spesso si sia ricorso con l’intenzione di stabilire una congiunzione tra queste due modalità – la filosofica e la novellistica – alla forma del dialogo, in quanto essa permette che confluiscano speculazione e narrazione, riflessione astratta e vita concreta. Per dirlo in altri termini: permette che il prodotto prenda la figura di un pensiero vissuto. Come esempi eminenti di romanzi filosofici che assumono la forma esterna del dialogo è opportuno menzionare Il critico di Garcián, o, come uno degli esempi supremi di questo sottogenere, Il nipote di Rameau di Diderot; romanzo che, è opportuno ricordare, non fu soltanto tradotto in tedesco e commentato elogiosamente da Goethe, bensì è l’unica opera letteraria che è presa in considerazione – e citata – in extenso da Hegel nella Fenomenologia dello spirito e, dietro le orme di Hegel, ha anche meritato giudizi laudativi di Marx, in una lettera a Engels. In Tecnecrate, vediamo un esponente caratteristico ed effettivo del romanzo dialogico, nella misura in cui questa forma permette, a volte, una paideia (l’educazione di Theoutimene) e una confessione, e intreccia la riflessione intorno a problemi filosofici – la natura del bello nella natura e nell’arte, la libertà soggettiva e sociale, la condizione umana o l’essenza della polis – nel racconto della vita di Tecnecrate, strutturato a partire dalla cornice del ricordo. Come in ogni autentica paideia, la narrazione cerca di educare il discepolo, non introducendo in lui una summa di saperi astratti e inorganici, bensì estraendo dalla materia ancora bruta la forma che si trova ancora latente al suo interno. Presto torneremo su questa dimensione del romanzo.

 

In secondo luogo, Tecnecrate risveglia l’interesse per l’interpretazione che in esso si offre della letteratura e dell’arte greca. Prodotto di un autore educato alla tradizione filosofica che va da Kant a Marx, da Lukács a Bloch, il romanzo offre una versione dell’ellenismo evidentemente mediata dall’estetica del classicismo e dal romanticismo tedeschi. È noto che la produzione e la riflessione estetica sorta in Germania durante il periodo classico testimoniano una “grecomania” (F. Schlegel) di cui troviamo testimonianza – per menzionare soltanto alcuni casi rappresentativi – nella Storia dell’arte nell’antichità di Winckelmann, nel Laocoonte di Lessing, in Sullo studio della poesia greca di Friedrich Schlegel, nel Hyperion di Hölderlin; ma anche nell’Estetica hegeliana e nell’opera dello stesso Marx. È noto che quest’ultimo, in due opuscoli composti tra il 1841 e il 1842, collocò la produzione scultorea della Grecia classica in diretta relazione con un ideale anticristiano di democrazia politica e libertà morale. In una nota del 1842, Marx segnalava che tutto ciò che appartiene a queste configurazioni artistiche, è rappresentazione di costumi umanamente belli in forme splendidamente organiche. Ma sarebbe da chiedersi dove si può rintracciare la filiazione che Tecnecrate mantiene con la tradizione germanica appena descritta. Crediamo che il vincolo si esplica a partire da un fatto fondamentale: la fissazione di poeti e pensatori tedeschi per l’arte greca è meno una sensazione di appartenenza che una nostalgia di ciò che non si possiede; qui risiede quella disposizione che Schiller designò come sentimentale – contrapponendola con l’ingenuità greca – e che consiste, giustamente, nel ricercare nell’infanzia dell’umanità un paradiso perduto che funzioni come alternativa nostalgica e utopica per le contraddizioni del presente. Si può dire, anche che la disposizione che rivela Tecnecrate è essenzialmente sentimentale, e non è ozioso che ci troviamo in presenza di un’opera novellistica che si trova, d’altra parte, centrata intorno a un eroe problematico; in effetti, il protagonista non è solo un emarginato per la sua condizione di mendicante, straniero e artista, bensì in lui si incarna la nostalgia di una cultura, nella misura in cui, secondo le sue stesse parole: «Un uomo non è nulla senza un popolo, senza l’educazione che da esso ha ricevuto, senza una tradizione in cui riconoscersi e in funzione della quale sentirsi radicato nei fondamenti della propria esistenza».

 

Ma la descrizione della cultura greca – mediata dall’estetica tedesca – assume tratti propri di un romanziere formatosi alla tradizione marxista, e che è riuscito a farla incarnare in un romanzo, non alla maniera di una incrostazione teorica e astratta, bensì attraverso la stessa vita dei personaggi. Questo lo vediamo già a partire dalla differenziazione che emerge dal testo tra lavoro libero e alienato – il lavoro, come si legge nel romanzo“come fatica o come creazione”; anche nelle considerazioni intorno alla natura dell’arte. Qui si stabilisce un vincolo tra il lavoro artistico e il lavoro in quanto tekhné. Per il personaggio di Tecnecrate, il lavoro ben realizzato suppone che l’uomo si trovi abbastanza innamorato della realtà per studiare minuziosamente le sue leggi ed estrarre da esse le possibilità soggettive di sviluppo. Bacone scrisse: natura non nisi parendo vincitur (la natura può soltanto essere vinta se le si obbedisce); in un modo simile, Brecht raccomandava di cercare ciò che lui designava come la soggettività dell’oggettività possibile. Questo sapere è quello che applica il protagonista del romanzo, quando, a partire da un’osservazione scrupolosa dei forni greci, scopre le mancanze nella tempratura dei metalli e trova la possibilità di introdurre soggettivamente un miglioramento. Questo stesso genere di lavoro è quello che effettua subito Tecnecrate, quando, sotto la direzione di Fidia, comincia a svilupparsi come artista; il protagonista del romanzo apprende a ricercare le possibilità offerte oggettivamente dall’oggetto di lavoro, con l’intenzione di imporre ad esse una scelta soggettiva. Sorge così un’alleanza tra materia e forma, nella quale l’artista tenta, con la sua astuzia, di rispettare l’oggetto, ma anche di imporgli a sua volta la propria volontà; il proposito è «trovare la regola, o il modo di obbligare la pietra a compiere gli ordini della mia volontà», sulla base che «un’opera d’arte può prodursi solo secondo una scelta propria, anche se il materiale offre spesso la più aspra resistenza». La lotta ardua tra la scelta soggettivo e la legalità esterna ha come oggetto di ottenere che il versatile dinamismo della natura possa esprimersi attraverso una forma tanto rigida come quella della pietra e a tal punto che lo spettatore possa sentire – come accade con le più grandi produzioni scultoree – che la statua è al punto di muoversi.

 

Ma Tecnecrate conosce anche le difficoltà che, nel concepire l’opera, suppongono la scelta di un tema e di un modello. In relazione a questo problema, Tecnecrate scopre, grazie a Fidia, che il primo modello potrebbe essere soltanto sé stesso, ma non come è empiricamente, bensì come potrebbe essere, nel caso di potere spiegare la propria essenzialità. Ma con questo possiede soltanto il punto di partenza: l’opera d’arte più elevata, che riesce a diminuire le proprie condizioni storiche di origine per integrarsi nella memoria dell’umanità, è quella che rappresenta non soltanto le qualità essenziali di tutto un popolo, ma anche di più, del genere umano in uno stadio determinato del suo sviluppo. In questo caso, l’opera artistica può essere non solo rappresentazione di un popolo, bensì anche di più, immagine della parte migliore dell’umanità, di quella essenza con la quale i migliori uomini si trovano indentificati; nelle parole di Tecnecrate: l’opera d’arte può essere, allora, strumento di educazione del popolo.

 

L’arte, poi, come coscienza degli uomini su sé stessi; e l’arte grande come passaggio dalla rappresentazione della soggettività del creatore al plasmare la soggettività della specie umana. È rivelatore che il romanzo assegna tanta importanza alla discussione intorno al demoniaco, e che vede nel daimon un’immagine della coscienza umana – così come si legge nel testo: «quella parte del divino che abita in noi». Nelle Primigenie parole orfiche Goethe aveva definito «il demoniaco come l’individualità fatale e limitata della persona; come il caratteristico, in virtù del quale, malgrado ogni possibile somiglianza, si differenzia un individuo dagli altri». In termini simili, in Tecnecrate si legge che il daimon è «completamente individuale, è solamente nostro, è la nostra più profonda caratteristica». Nel frammento 119 di Eraclito si legge: «L’habitat dell’uomo è il demoniaco»; quasi come se si trattasse di affermare qui – secondo una interpretazione un po’ libera – che lo spazio specificamente umano, quello che colloca l’uomo sopra il semplice essere organico della natura, è lo sviluppo della coscienza intesa, inizialmente, in quanto capacità di scegliere tra alternative: siano le scelte libere dalla costrizione che realizza l’artista, o – per scegliere un’altra modalità estrema – le scelte che l’uomo realizza, con le parole di Marx, sotto la minaccia della caduta. Il daimon che ha condotto Tecnecrate a lanciare, a diciassette anni, il grido che gli salva la vita, è lo stesso che lo ispira a creare la sua opera maestra, e che lo induce a mutilarsi per non porsi al servizio di un tiranno. Ma è anche una coscienza – un daimon – che agisce in Theoutimene, e che la porta a riferire la vita di Tecnecrate, che, secondo lei, sarà trasmessa «finche questa terra non sarà abitata da uomini chiamati ad essere come gli dei, bensì finalmente liberi dalla necessità e pronti a colmare l’abisso del nulla che si trova in noi».

 

Un’ultima dimensione del romanzo, a cui volevo alludere, è la relazione tra Tecnecrate e Theoutimene: ciò che qui è posto in gioco è un ideale di amore platonico, o ciò che è conosciuto come retorica erotizzata: il dialogo tra il maestro e il discepolo uniti dall’amore ispirato. Per effetto di questa educazione, l’apprendista riesce, come diceva Plotino, a elaborare la propria statua; cioè, a sviluppare la propria autocoscienza, pulire il blocco di marmo affinché rimanga il fondamentale; questo non può che ricordare alcune parole di Lukács – una delle passioni di Antonino Infranca – in un celebre saggio su Thomas Mann: «La coscienza è allora soltanto una esortazione: convertiti in ciò che sei, divieni l’essenziale, sviluppa – malgrado gli influssi perturbatori del mondo interno ed esterno – ciò che si agita vivamente e risiede in te come nucleo, come essenza» (“Auf der Suche nach dem Bürger” in G. L., Thomas Mann, Berlin, Aufbau Verlag, 1957, pp. 17).